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"Ciò che sembra scomparso dalla mente di certi giuristi è la distinzione fra le ideologia politiche che rispondono a determinate volontà dotate di potere e principi ideali di giustizia che sono posti a fondamento delle regole stesse dell’agone politico" 

«Il bene comune, insomma, c’è, ma non è altro che la giustizia» (p. 238)

La filosofa fenomenologia Roberta De Monticelli è donna rigorosa e appassionata, che non fa mistero delle sue idee e convinzioni, minoritarie, ma che ritiene fondamentali per poter superare la crisi dei fondamenti della democrazia in Italia e in Occidente.

Solo per questo vale la pena di leggere attentamente la sua proposta che giunge dopo un lungo cammino lungo iniziato con “L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire” pubblicato nel 2008.
L’autrice prende l’avvio da una constatazione amara: «la metamorfosi interiore inconsapevole, invisibile a chi la subisce (o vi cede, ma come senza prenderne atto), che è l’autodestituzione del soggetto morale in noi […] o felpata distruzione di senso e di bene» (p. 4).

La domanda di fondo è: da dove si origina il male pubblico? Le nostre democrazie non si fondano sul consenso esplicito, ma su un semplice riconoscimento, che non è una approvazione, ma una semplice accettazione della situazione. La metamorfosi in questione è un passaggio non dal bene al male, ma dall’ideale al reale, si reinveste nel reale perché l’ideale appare incerto, si ha un «trasferimento di partecipazione, dall’incertezza di un possibile magari sognato, “migliore”, alla certezza di una realtà “vincente”. Da una impotenza, a una partecipazione di potere. Non importa in che forma» (p. 7).

Si palesa una cecità cognitiva che addormenta la coscienza e non gli permette di vigilare, si fa fatica a non addormentarsi di notte, nel buio della storia e si preferisce, quasi inconsapevolmente, di non resistere a questa fatica dell’intelligenza.
Lo si nota nei talk-show “politici” dove raramente si riesce a scendere nei dettagli, ma si resta nel generico, a volte confusivo, pensiero generale che non favorisce il quotidiano discernimento necessario delle piccole e grandi scelte etiche, che inevitabilmente siamo chiamati ad assumere.

La De Monticelli ci aiuta a comprendere che «la libertà degli individui è una componente della giustizia essendo parte di ciò che è a loro dovuto, e che lo è anche la pari dignità» (p. 78). Queste due tesi assiologiche, di valore, pur essendo tanto evidenti, quando sono violate sistematicamente non sono mai contestate frontalmente, semplicemente vengono disattese. Tuttavia da queste due tesi «Ne segue una terza tesi, che una società senza discriminazione quanto a dignità personale è più giusta, cioè è più superiore in valore, a una società gerarchica».

Attraverso una lunga e meticolosa disamina della questione morale (cap. 2, 3 e 4), da Socrate a Rawls passando per Dworkin – il noto esponente del neocostituzionalismo, la nostra filosofa ci invita a ripartire dalla riflessione originaria socratica: chiedere il perché delle cose e le ragioni delle posizioni altrui. Solo rimanendo fedeli a questa posizione originaria della filosofia si può pensare di raggiungere una qualche verità morale.

Lo scetticismo assiologico, quello che afferma che non c’è un fondamento a qualsiasi valore condivisibile e quindi un criterio per poter scegliere tra il bene e il male, è la visione dominante. Così si evitano le questioni divisive che producono conflitto, ci si sottrae al rendere ragione delle proprie scelte. Ne consegue che «La politica dell’astensione dalla (ricerca di) verità (perché divisivia) è motivata dalla convinzione che la vita non è prendere posizione, fallibilmente e corrigibilmente: è prendere partito, fatalmente e conflittualmente. E quindi dalla convinzione che la vita non è soggetta alla giurisdizione della ragione, ma alla forza delle fedi e della politica». E’ la questione affatto banale di come si affronta e gestisce il conflitto.

L’autrice ci ripropone la questione dell’unità del valore, «ovvero della coerenza dei valori nella loro pluralità e nelle loro differenti sfere» (p. 76), tesi minoritaria e che tuttavia garantisce l’eticità dei comportamenti pratici. Se non ci fosse questa unità del valore in una società pluralista, ognuno sceglierebbe i propri valori e li potrebbe usare per costruirsi recinti sociali in cui vivere, sentendosi al sicuro da tutto ciò che potrebbe metterli in discussione. Dunque non possiamo altro che ricercare con la ragione, come Socrate, quell’unità di valore che permette a ciascuno di poter ricercare la propria felicità garantendo la dignità di tutti e la libertà di ciascuno. Compito non facile, ma ineludibile nel nostro tempo globalizzato e che mette in discussione, soprattutto, il pensiero unico occidentale con la sua pretesa di essere quello vero e pertanto che può o deve imporsi a tutto il mondo.

La seconda guerra mondiale ha prodotto nuove costituzioni che «sono nate dall’esperienza del male e dalla cognizione del dolore, e non per astrazione dalle visioni in conflitto» (p. 95), quindi da un’etica incarnata, che si origine nel sentire del neonato, e che va verificata, da adulti, dal confronto serrato di ragione, che non separi il pensiero pratico razionale dalla cognizione sensibile di tutti i beni e i mali del mondo. «Sono proprio le nostre intuizioni sulla giustizia a presupporre “non solo che le persone abbiano diritti, ma che fra questi vi sia un diritto fondamentale, addirittura assiomatico [… il] diritto all’eguale considerazione e rispetto” che non solo si oppone, ma addirittura implica i diritti di libertà» (p. 97-98), integrando la visione di Dworkin con la propria etica del sentire.

Una prima risposta alla questione dell’unità del valore e del suo conciliarsi con il pluralismo viene, secondo la filosofa, da Jeanne Hersch che «vide la potenzialità anti-idolatrica e quindi nel suo fondo anti-ideologica, che ogni cultura teologica – dunque spirituale – porta in sé» liberando così «lo spazio della trascendenza non posseduta nel cuore stesso dell’universalismo e della cultura liberale democratica» (pp. 104-105).

La De Monticelli sintetizza, nel quinto capitolo, la sua proposta in 5 tesi di una assiologia fenomenologia:
1) la differenza tra beni e valori
2) i valori sono una sottoclasse di eide (essenze), o apriori materiali
3) un valore è la qualità globale di un bene che realizza quel valore
4) l’inseparabilità di dati di fatto ed essenza, in particolare di beni e valori
5) l’esistenza di ogni entità è intrinsecamente normativa nel senso seguente: per esistere come una “cosa” di un certo tipo – come un suono, una persona, una promessa, un’azione, un guerriero, ecc. – ogni entità deve soddisfare la struttura essenziale che definisce il suo essere

Il compito fondamentale dei filosofi (e di ogni educatore), cui hanno abdicato in questi ultimi periodi, è quello di promuovere il risveglio dall’apatia della ragion pratica. E’ una questione di conoscenza, prima di tutto e poi di volontà. Per agire bene dobbiamo conoscere il bene e il valore cui vogliamo acconsentire e realizzare. «In altre parole, un atto del volere è l’unità di una motivazione e di una posizione […] non c’è un volere senza valutare (motivi e assensi)» (p. 230).
«Che la sensibilità affettiva abbia un ruolo propriamente cognitivo, che stia ai giudizi di valore come la percezione sensoriale stia ai giudizi di fatto, e che vi siano correlazioni essenziali e normative fra il contenuto assiologico e il vissuto emotivo, non è certamente ancora riconosciuto da molti» (p. 232).

E’ in questo deficit riflessivo che si alligna il male pubblico, dominato dalla ragion pratica che si affida alla ragione ma non tiene conto degli affetti che determinano in buona parte l’agire concreto e quotidiano di ciascuno di noi. Dworkin (Virtù sovrana, Feltrinelli 2002), proposto dalla De Ponticelli, sviluppa una teoria pratico-politico dell’uguaglianza in cui mostra come ogni passo verso la rimozione di quegli ostacoli che si oppongono alla possibilità effettiva di fare della propria vita qualcosa che abbia senso e valore, che valga la pena di viverla, è un passo verso la realizzazione della libertà individuale nel suo senso più liberal. Questa modesta indicazione conclusiva della nostra filosofa, è un invito ad uscire dal deserto di una “sinistra senza ragioni”.

Secondo Dworkin in una società genuinamente democratica ciascun cittadino partecipa come un socio eguale, il che significa qualcosa di più del fatto che abbia semplicemente un voto uguale. Mi permetto di aggiungere: una società che scarta qualcuno, consapevolmente o meno, non è una società democratica.
«Distinguere tra ethos ed etica, fra gli ordini della vita buona e la norma della vita giusta» è la soluzione possibile al dilemma etico iniziale. «Ma la distinzione porta anche l’unità: da che cosa possono essere “tenuti insieme” i tanti ordini di una società plurale, se non dalla giustizia, che è per così dire il minimo etico, la condizione per il riconoscimento della serietà e della dignità di ciascuna vita?» (p. 244).

La De Monticelli conclude questo suo cammino impegnativo, e tuttavia ricco di risultati positivi che ripagano dell’impegno dell’intelligenza e degli affetti profusi nel compierlo, con una richiesta di impegno comune: «Non è un caso se i massimi danni alla vita morale e civile di un Paese, prima ancora di chi corrompe le leggi, li facciamo tutti noi accettando che si corrompa la nostra lingua, il senso delle parole, la nettezza dei concetti» (p. 245).

L’invito è di assumere fino in fondo quello che chiama il dono dei vincoli, cioè il fatto che ogni realtà non può variare più di tanto, pena il tramutarsi in altro: «Vedo nella scoperta del dono dei vincoli che legano il senso dei nostri enunciati al contenuto intuitivo dei dati delle nostre esperienze la svolta che, nell’età della scienza, potrebbe permettere alla ricerca filosofica di resistere alla banalizzazione, alla ideologizzazione, alla perdita di ambizione cognitiva e di rilievo etico, giuridico, politico che l a minacciano» (p. 246).

Mi scuso fin d’ora con l’autrice e con i lettori di non aver potuto illustrare meglio la densità di queste pagine che meritano una lettura non affrettata, che ci fa affrontare un nodo fondamentale della nostra vita pubblica: l’origine del male pubblico e i possibili rimedi, che altro non sono che una coscienza formata e vigile sulla realizzazione della giustizia, qui e oggi.

Roberta De Monticelli, Al di qua del bene e del male, Einaudi, Torino 2015.

Citazioni

"La tesi che l’inscindibilità di etica e logica è la chiave del pensiero filosofico e la sua differenza specifica da quello sofistico, lo sottende dalla prima all’ultima pagina: è la sua anima stessa". (p. XIV)

"Proprio per questo, del resto, più che “banale” – termine che ha suscitato tanti equivoci e tante polemiche – si dovrebbe definire questo male “impersonale”: non perché non ne sia personale la responsabilità, ma perché la sua caratteristica è di non essere assunto in prima persona, lucidamente e per così dire “luciferinamente», come atto proprio. E’ questo atto/non atto, questa passiva mossa di dimissioni da se stessi che abbiamo definito autodestituzione del soggetto morale, simbolizzato dall’immagine del volto umano che s’imbestia. A questa impersonalità a parte subiecti, la cui versione più familiare è il conformismo, corrisponde la natura caratteristica del male a parte objecti, la perdita negli ordinamenti e nelle relazioni abituali della vita associata: il male pubblico" (p. 13).

"L’esperienza del valore è in larga parte cognizione del dolore" (p. 23).

"Emozioni politiche, l’ultimo libro di Martha Nussbaum, tratta della lacuna di cui soffrirebbe la cultura politica liberale: la sottovalutazione dell’importanza del sostegno emotivo a una buona cultura politica pubblica" (p. 27).

"Si tratta cioè di lavorare a una teoria della conoscenza assiologia. Perché io credo che dalla cognizione del dolore abbiamo imparato molto, ma ben poco abbiamo insegnato. E non soltanto dei contenuti, ma della natura stessa dell’esperienza del valore, del modo in cui essa genera conoscenza. E questo equivale all’incirca ad aver dimenticato la natura e il compito della filosofia" (p. 28).

"Questa coappartenenza di cognizione, valutazione e azione non cessa mai" (p. 31).
"Anticipo la mia risposta: Socrate è latitante, è l’idealità perduta è in buon parte colpa nostra , colpa di noi “educatori”, che abbiamo latitato con noi. Non perché non abbiamo insegnato gli ideali; al contrario, perché lo abbiamo fatto, come se se l’idealità fosse una questione di «porre» valori: cioè un atto della volontà, non un esercizio esperto di sensibilità, intelligenza e ragione, un esercizio di ricerca del vero" (p. 33).

"Una democrazia non è soltanto una forma di governo politico, è una civiltà fondata in ragione – la ragione pratica – e non in religione. E il disincanto della ragione pratica è lo scetticismo assiologico. Il disincanto della ragione pratica è la fine della democrazia" (p. 34).

"Ciò che sembra scomparso dalla mente di certi giuristi è la distinzione fra le ideologia politiche che rispondono a determinate volontà dotate di potere (rex facit legem) e principi ideali di giustizia che sono posti a fondamento delle regole stesse dell’agone politico (lex facit regem)" (pp. 37-38).

"Solo il faccia a faccia è una possibilità eminentemente e specificatamente umana" (p. 41).

"Il dono dei vincoli è il dono che sempre, di nuovo, per chi voglia esercitare seriamente la ricerca eidetica e non parlare a vuoto, ritroviamo a confortare chi non rinuncia a distinguere il reale e l’ideale, fra ciò che vince e ciò che, nella realtà, resta una muta ma non meno sensibile esigenza" (p. 53).

"La sfiducia nelle istituzioni […] è una perdita di quella fiducia e quella stima reciproca che è nell’essenza stessa, rettamente intesa, del pactum societatis: senza dimenticare che il primo grande e implicito “patto” è la lingua che tutti usiamo, cioè i vincoli che esso pone all’uso che facciamo delle parole perché possiamo reciprocamente credere a quello che ci diciamo" (p. 57).

"Il silenzio complice, l’anonimato di consorteria e la libertà dei servi sostituiscono gradualmente l’esercizio di responsabilità in prima persona e la domanda di verità, o di giustizia. Sempre meno, cioè, la distribuzione e l’esercizio del potere sono soggetti al consenso e al controllo delle persone. Ma dovunque questo accade, la “politica” si dissocia dall’etica, e perfino dalla logica. Lo spazio delle ragioni si separa da quello del potere. E allora le istituzioni si svuotano del loro senso. Come potrebbe del resto sopravvivere la fiducia in istituzioni tanto sorde alla domanda di verità, che è il nucleo stesso della domanda di giustizia? Quella di verità è la domanda più inascoltata e delusa del nostro Paese, che ha fra tutte le democrazie europee la storia forse più opaca di inquinamento occulto delle istituzioni" (p 58).

"Dunque abbiamo una sola risorsa: l’ingiustizia sofferta o veduta infliggere, in quanto sappiamo trarne una più profonda conoscenza di cosa sia giustizia" (p. 61).

"L’opacità della vita pubblica può diventare opacità della coscienza privata, e la regressione del faccia a faccia nell’anonimato consortile può portare con sé la progressiva sparizione del faccia a faccia con se stessi: l’omertà dell’autocoscienza. E questo processo di autodisfacimento della libertà interiore sembra ben più radicale e irreversibile della prigionia ideologica o politica: poiché decostruisce i vincoli di senso della libertà, cioè l’etica e la logica stesse" (p. 64).

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