“La crisi del politico che questo libro cerca di descrivere è profonda. Le nuove forze cosiddette populiste, ne sono una conseguenza, e al contempo rappresentano un tentativo di risolverla. Uscirne è difficile, però” (p. 16)

«Quello democratico è un disegno intrinsecamente contraddittorio» (p. 19)

Inizia così l’intrigante e originale libro di Giovanni Orsina, professore di Storia contemporanea e vicedirettore della School of Governament all’Università LUISS “Guido Carli” di Roma, nonché editorialista della “Stampa”.

La tesi è a prima vista controintuitiva, ma basta fare mente locale alla nostra esperienza quotidiana e subito ci appare credibile. Il professor Orsina riesce anche ad argomentare in maniera credibile questa tesi che percorre il volume.

Esso si dipana in tre capitoli: il Novecento e le contraddizioni della democrazia, la politica al tempo del narcisismo, comprendere tangentopoli. In ognuno Orsina si appoggia a uno o più classici per aiutarci a comprendere il filo rosso del suo pensiero: Tocqueville, Huizinga, Ortega y Gasset, Del Noce, Girard, Canetti. Ogni pagina è per certi versi sorprendente e, perciò intrigante, e questo è il merito principale del libro. Lo storico Orsina trae lezioni dal passato per illuminare il presente e ipotizzare un possibile futuro.

La democrazia è «la promessa che ciascun essere umano abbia pieno e assoluto controllo sulla propria esistenza, conducendola come e dove meglio crede; e la pretesa degli esseri umani che quella promessa sia mantenuta» (p. 21). Tuttavia, perché questo accada occorre un tipo umano che si autolimiti nei propri desideri, pena il deflagrare della democrazia.

Perché questo non accada occorre prevenire le conseguenze negative con dei contrappesi. La prima conseguenza è il modo con cui si conosce: si lavora molto e si studia poco, si fanno generalizzazioni, si favoriscono di più le conoscenze pratiche e poco quelle astratte. Da qui il seguire più l’opinione maggioritaria che un pensiero critico. La seconda riguarda la dimensione psicologia: si corre il rischio di diventare uomini materialisti e spiritualmente sterili, per inseguire un benessere materiale e non anche spirituale. La terza è di natura sociologica: ci si individualizza sempre più a scapito della dimensione relazionale che costituisce il legame sociale. I contrappesi possibili sono: la religione, in quanto eleva gli animi dalla vita materiale, la partecipazione alla vita pubblica e l’“interesse bene inteso”.

Orsina passa poi ad analizzare il periodo tra le due guerre che ha prodotto regimi autoritari, soprattutto di destra, che avevano lo scopo di garantire benessere, potenza e sicurezza. Dal venir meno dei contrappesi si è giunti così alla convinzione che la forza è l’unica ragione, convinzione che ha scatenato la seconda guerra mondiale.

L’autore mostra come il secondo dopoguerra abbia visto una moderazione nel voler perseguire la felicità a ogni costo e l’affermarsi della liberaldemocrazia, ma «per mancanza di meglio». La democrazia ora soffre «d’una marcata debolezza etico-politica» e mette in campo tre tipi di contrappesi: la delimitazione della sfera pubblica (tendenzialmente conservativa) e la sfera del mercato (libero); la depoliticizzazione del governo della sfera pubblica per preservarla dai conflitti democratici; lo sviluppo di modelli costituzionali per limitare l’accesso diretto del popolo agli organi di governo, un no alla democrazia diretta, ma un sì a quella delegata.

«Perché mai gli europei rinunciano alla piena autodeterminazione e accettano nuovamente le gerarchie?». Secondo Orsina per il semplice motivo che il massacro della seconda guerra abbia accresciuto, in chi l’ha vissuta, la modestia, la pazienza e la capacità di accontentarsi, caratteristiche dell’uomo democratico che abbiamo visto prima. Tre fattori hanno accompagnato questo periodo storico: i grandi partiti popolari cattolici, la guerra fredda e il benessere postbellico.

Questo fino agli anni sessanta circa. Da qui in poi, cresce sempre più l’uomo narcisista. La politica non ha sufficienti anticorpi per contrastarlo e quindi cerca di blandirlo, cercando di realizzare i suoi infiniti desideri, non riuscendoci. La conseguenza è la crescita di un risentimento contro chi governa, non rendendosi però conto che è la domanda ad essere eccessiva, non la risposta inadeguata. Ma tant’è.

Il Sessantotto è stato l’ultimo tentativo di sostituire l’assoluto religioso con l’assoluto storico marxista.

L’affermarsi dell’uomo narcisista colpisce cinque aspetti fondamentali del politico: potere, identità, tempo, ragione e conflitto. Sinteticamente: più libertà individuale meno potere pubblico; più individuo meno società; il narcisista vive in un eterno presente, senza passato e senza futuro; più emozioni e istinto meno ragione; ricondurre a unità i desideri di ciascuno non è affatto facile in modo pacifico e ordinato.

Il privato è politico, slogan del Sessantotto, diventa anche che il pubblico è privato, di conseguenza si giudica la politica non come politica con la sua logica, ma come un cittadino privato qualunque.

La politica prova a reagire in cinque ambiti: nelle istituzioni con la retorica e più strumenti di democrazia diretta; concedendo e normando diritti civili; con più diritti aumenta il potere giudiziario e la forza dei tecnocrati; la globalizzazione ha limitato le richieste crescenti di emancipazione soggettiva; nel mercato operano forze che favoriscono la libertà, ma le regole del mercato sono anche molto stringenti: si può comprare di tutto ma solo entro certe regole e limiti.

La politica, provando a rispondere a una domanda infinita di autodeterminazione, si è segata il ramo su cui era seduta due volte e mezza, dice Orsina. La prima alimentando il circolo vizioso secondo cui con maggior libertà si limitano gli spazi delle scelte politiche. La seconda perché, per lo stesso motivo, ha ristretto il proprio spazio di intervento limitandolo e utilizzando logiche non politiche, non riuscendo così a mantenere la promessa di autorealizzazione. La mezza, tramite i referendum, avvicinando i cittadini – che li hanno utilizzati contro la politica e non come aiuto alla politica – ai luoghi delle decisioni politiche.

Il terzo capitolo affronta un tema più italiano: l’eccessivo risentimento causato da Tangentopoli nel 1992, le sue origini e le conseguenze. Il professore si ferma alle soglie dell’attualità, non senza lasciar intravvedere alcune opinioni e ipotesi che, da storico, andranno verificate nei prossimi anni.

Secondo Orsina l’Italia è una democrazia liberale, ma è carente in tre punti importanti: l’esclusione dei comunisti dal governo, a causa della guerra fredda, ha limitato la possibilità di scelta dei cittadini alle elezioni; l’occupazione dei partiti delle istituzioni vanificando le garanzie dello stato di diritto; la lontananza dall’ideale democratico di autodeterminazione individuale rispetto alle altre grandi democrazie europee.

Utilizzando l’analisi di Elia Canetti in Massa e potere, l’autore interpreta le emozioni degli italiani in un difficile esercizio di psicologia sociale. Secondo Canetti ogni comando lascia una «spina» nell’individuo, solo per il fatto di obbedire al comando. Da qui la necessità di togliersi queste spine per alleggerire la pressione emotiva. Orsina ipotizza che in Italia non è stato possibile togliersi queste spine, attraverso le elezioni e l’alternanza fino al 1989, la caduta del muro di Berlino. L’eccessivo risentimento covato fino a quel momento trova ora una possibilità di sfogo contro le classi dirigenti fino ad allora al potere nelle elezioni di quegli anni che vedono la fine della DC e del PSI e l’avanzarsi di nuove forze: Berlusconi e la Lega.

Nel 1992-1993, oltre all’esplodere di Tangentopoli, c’è una crisi economica con l’uscita dell’Italia dalla SME, la svalutazione della lira rispetto al marco e l’aumento del debito pubblico. Questi fattori economici, per Orsina, sono quelli che hanno suscitato le emozioni più profonde che hanno influito sulle scelte dei cittadini in quel periodo.

Come si sono ritrovati gli italiani dopo questa crisi profonda, in cui ancora oggi si trovano? Con una insoddisfazione permanente nella quale si intrecciano tre fattori: gli elettori hanno la pretesa che la politica risolva problemi al di là della sua portata e non hanno la minima intenzione di pagare altri prezzi; l’impazienza di fronte alla lentezza con cui vengono affrontati i problemi, da qui il continuo ricambio degli eletti; il rifiuto di dare alla politica il tempo e le risorse economiche per avere una classe dirigente dignitosa al riparo dalle invasioni di campo dei media e della magistratura.

Il senso d’insoddisfazione, ipotizza Orsina, deriva dall’angoscia di aver sacrificato il ceto di governo, fatto grave in democrazia, che non ha trovato, per il momento, contropartite significative: un nuovo miracolo economico, la scomparsa del debito pubblico o la raggiunta maturità europea.

Da qui l’antipolitica di destra di Berlusconi, e un’antipolitica di sinistra, più complessa, l’antiberlusconismo «nutrito proprio di considerazioni di natura etica e giudiziaria, ne ha rappresentato l’espressione più emblematica e rilevante.

Nell’epilogo Orsina prospetta quattro ipotesi per il futuro: «La prima ipotesi (di soluzione del rompicapo democratico) passa per la convinzione che il processo di emancipazione individuale non sia destinato a generare dei narcisisti e a disintegrare tutti i punti di riferimento collettivi, rendendo impossibile l’attività politica, perché gli esseri umani sono adattabili e pieni di risorse, e non hanno bisogno di appoggiarsi a presupposti esterni a loro […] La restaurazione della tradizione e il presentarsi di una catastrofe rappresentano la seconda e  la terza soluzione del rompicapo democratico […] La quarta e ultima ipotesi di governo delle contraddizioni democratiche passa per il senso comune: per la speranza che quanti abitino le democrazie conservino un patrimonio sufficientemente consistente di realismo, ragionevolezza, pazienza e moralità. Anche questa ipotesi ha bisogno di un certo ottimismo antropologico, come la prima che abbiamo presentato. In questo caso non si tratta di demolire tutto e poi ricostruire, bensì di evitare che il processo di distruzione arrivi fino in fondo. Ma è pur sempre da dentro l’individuo che deve venire il confine – si tratta comunque di un processo di autolimitazione» (pp.170-174).

In questa breve recensione non è stato possibile rendere ragione di molte altre riflessioni interessanti del prof. Orsina, e anche la sintesi è sicuramente parziale e non rende ragione alla ricchezza del pensiero dell’autore. Per questo consiglio di leggere il libro e meditarlo. Si può non essere d’accordo su molte ipotesi, ma di sicuro il confronto con una riflessione seria e ben argomentata è sempre utile.

 

Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo, Marsilio, Venezia 2018.

 

Citazioni

“Nel primo capitolo cercherò di mostrare – partendo da Alexis de Tocqueville – come la promessa che tutti abbiano il massimo, ossia gli strumenti per raggiungere la felicità realizzando interamente e in piena autonomia il proprio progetto di vita, sia connaturato alla democrazia intesa non soltanto come sistema politico, ma come modello di società. Allo stesso tempo, però, la pretesa che quella promessa sia mantenuta oppone il regime democratico a tensioni insopportabili” (pp. 11-12).

“Il secondo capitolo di questo libro considera in quale modo la riaffermazione poderosa di quella promessa, che all’inizio era stata formulata in termini altamente politici, abbia in breve tempo portato all’affacciarsi di un nuovo soggetto poco adatto alla politica: il narcisista. L’affermarsi di questo tipo umano contribuisce a far appassire cinque dimensioni fondamentali dell’agire politico: potere, identità, tempo, ragione e conflitto. E non solo. A partire dagli anni settante, le élite politiche, di destra come di sinistra, cercano di prendere le misure alla nuova situazione storica. Convinte di trovarsi davanti a un’ondata inarrestabile, blandiscono il narcisista, gli danno quello che cerca. Allo stesso tempo però, poiché è impossibile soddisfarlo del tutto, si sforzano di arginarlo, trasferendo il potere dalla politica verso istituzioni economiche, giudiziarie, tecnocratiche, spesso sovranazionali. L’operazione ha un senso, e forse in quella congiuntura non ci sono vere alternative. Ciò non toglie tuttavia che, così facendo, la politica col passare degli anni si vada rinchiudendo sempre di più in una tagliola micidiale: richieste crescenti da un alto, strumenti sempre più deboli e inefficaci con cui soddisfarle dall’altro. E in fondo alla trappola un’unica funzione residua da poter svolgere: quella del capro espiatorio” (pp. 12-13).

“Le pagine che seguono non parlano in maniera diretta del populismo, e il termine non vi compare quasi mai. Ma non una di esse sarebbe stata scritta se questo fenomeno non si fosse presentato con così grande forza. Solo, l’assunto del libro è che i populismi non siano essi stessi una malattia, ma il sintomo dell’avvizzire patologico della dimensione politica, o meglio ancora il tentativo di reagire a quella patologia. Concentrarsi sul sintomo sarebbe allora un errore madornale, e peggio ancora sarebbe tarare su di esso la terapia. E’ il morbo che dobbiamo cercare di capire e, se possibile, curare” (pp. 13-14).

“La crisi del politico che questo libro cerca di descrivere è profonda. Le nuove forze cosiddette populiste, ne sono una conseguenza, e al contempo rappresentano un tentativo di risolverla. Uscirne è difficile, però” (p. 16).

“Quel che mi interessa, piuttosto, è mostrare come la crisi del politico che viene montando a partire dai tardi anni sessanta, trovi almeno parte delle proprie origini non nelle contingenze del tardo Novecento, ma nelle condizioni strutturali della democrazia” (p. 20).

“Perché una società fondata sulla promessa-pretesa di piena autodeterminazione soggettiva possa funzionare nel tempo, tuttavia, è necessario che quanti la compongono rientrino in una ben determinata categoria antropologica, dai confini ampi ma tutt’altro che illimitati. La democrazia, perciò da un lato garantisce agli esseri umani ch’essi possono essere qualsiasi cosa desiderino, teoricamente senza alcun limite. Dall’altro, però, funziona unicamente se essi desiderano entro certi limiti. Non solo. La democrazia spinge gli individui a desiderare fuori da quei limiti, e così facendo, mette costantemente in pericolo la sopravvivenza proprio di quel tipo di cittadino del quale non può fare a meno” (p. 22).

“Qual è quindi il profilo del cittadino capace di sostenere il buon funzionamento d’una democrazia e di farla sopravvivere nel tempo? E’ quello di un individuo che rinuncia ad approfittare fino in fondo della promessa di autodeterminazione assoluta che gli viene fatta perché così gli impongono dei rigidi principi etico-religiosi, o utilitaristico-razionali, oppure di semplice buon senso dettato dall’esperienza. E’ seduto a una tavola imbandita d’ogni ben di Dio ma mangia poco, insomma – o perché l’abbuffatagli è vietata dalla religione, o perché gli preme la salute del fegato. L’assenza di limiti esterni si regge sulla presenza di limiti interni, la promessa pubblica di autodeterminazione sulla capacità privata di autolimitazione” (pp. 27-28).

“Se il livellamento democratico non trova più un confine nelle gerarchie sociali e nei valori aristocratici che dall’ancien régime erano riusciti a sopravvivere fino al Novecento, non può più trovarlo nemmeno nella razionalità utilitaristica dell’“interesse bene inteso”. Eccitati dalla carneficina bellica e dall’espandersi delle possibilità di iniziativa politica, gruppi minoritari ma iperattivi rifiutano senz’altro qualsivoglia considerazione utilitaristica e razionale. Credono di non avere nulla da perdere; e anche se lo avessero, lo giudicherebbero assolutamente insignificante rispetto al moltissimo che possono conquistare. Il gioco della distruzione dell’esistente insomma, sia pure per il puro gusto di distruggere, e con esiti potenzialmente autolesionistici, si ritiene che valga la candela” (pp. 29-30).

“E’ proprio questa, se vogliamo, la drammaticità della loro riflessione: la faccia positiva e la faccia negativa della modernità: l’emancipazione e il nichilismo, non possono essere in alcun modo separate l’una dall’altra, e si può solo cercare di allertare gli esseri umani dei pericoli del “lato oscuro” (pp. 31-32).

«Una sapienza non elaborata è d’ostacolo al raziocinio e sbarra la via alla saggezza», conclude il grande storico olandese Huizinga. «L’istruzione rende sotto-istruiti. E’ un orribile gioco di parole; ma purtroppo contiene un senso profondo» (p. 34).

“Se alla liberazione dell’uomo da ogni vincolo civile aggiungiamo poi la sua emancipazione anche dal bisogno materiale, resa possibile dal progresso tecnico e dalla diffusione del benessere, eccoci allora davanti a una creatura storicamente del tutto inedita: un uomo nuovo, che il mondo «non costringe a limitarsi in nessun senso», ma di cui, «al contrario, eccita [gli] appetiti, che, per principio, possono crescere illimitatamente» (Ortega y Gasset)” (p. 35).

“Una volta che la Seconda guerra mondiale sia stata reinterpretata come conseguenza non delle contraddizioni interne di una democrazia che ha voluto rifiutare ogni limite, ma al contrario dei troppi limiti che le sono stati imposti, la sia memoria – fino ad allora un fattore di moderazione – non può che trasformarsi in un eccitante politico” (p. 53).

“Le nazioni democratiche […] hanno scarsi anticorpi contro le utopie perfezionistiche” (p. 54).

“L’onnipotenza si converte così in impotenza: il narcisista può fare quel che vuole ma non sa cosa volere – ha tutti i talenti meno il talento di usarli. Dall’impotenza alla paura il passo è breve. E non si tratterà di una paura rielaborata culturalmente, ma di una paura grezza e istintiva cui si reagirà con rassegnazione fatalistica. Cacciati dalla porta, infine, i vincoli alla piena autodeterminazione soggettiva rientrano dalla finestra. E’ vero che il narcisista non è più tenuto a osservare alcun codice etico, ma deve comunque sottostare alle regole che disciplinano la convivenza civile” (pp. 59-60).

“La politica può esistere solo quando gli individui cedono una quota della propria sovranità su se stessi – anche se la democrazia cerca di far sì che quella cessione sia per quanto possibile limitata, temporanea e revocabile” (p. 61).

“Ma dagli anni settanta in poi è proprio quello che è successo alla politica: le è stata attribuita la responsabilità di problemi che non aveva più la forza di risolvere “(pp.104-105).

“L’assoluta autodeterminazione individuale, innanzitutto, è incompatibile con la condizione umana, perciò è sempre stata e resterà sempre un’utopia” (p. 105).

“Questa è dunque la trappola nella quale la politica viene a trovarsi: non soltanto è ritenuta responsabile della mancata  realizzazione di un progetto irrealizzabile, ma con gli sforzi che ha compiuto sia per realizzarlo, sia per contenerne la spinta, si è anche privata sempre più degli strumenti necessari a raggiungerne gli obiettivi […] Fra elettori e politici è sempre più difficile costruire una relazione sensata, fondata su concezioni condivise della realtà, del tempo e della ragione, e gli elettori hanno perduto qualsiasi sentimento di deferenza” (p. 107).

“Non solo i tentativi del potere di camuffarsi da massa erano, appunto, un camuffamento, e non un’autentica metamorfosi, ma era una simulazione che non poteva ingannare nessuno – così come non lo poteva la circolazione continua delle figure al comando. Perché le simulazioni dei potenti abbiano successo, infatti, è necessario il segreto” (p. 141).

“Sia chiaro: non sto affatto sostenendo che negli ultimi venticinque anni l’insoddisfazione degli elettori per le mediocri performance dell’élite pubblica sia stata del tutto ingiustificata. Sto affermando, però, da un lato, che almeno una componente dell’insoddisfazione è dipesa dalle richieste eccessive che sono state fatte alla politica. Dall’altro, che l’insoddisfazione ha ostacolato l’azione di governo, contribuendo così – come in una profezia che si autoavvera – a renderla insoddisfacente” (p. 164).

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