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«La mancanza di dialogo comporta che nessuno, nei singoli settori, si preoccupa del bene comune, bensì di ottenere i vantaggi che il potere procura, o, nel migliore dei casi, di imporre il proprio modo di pensare. Così i colloqui si ridurranno a mere trattative affinché ciascuno possa accaparrarsi tutto il potere e i maggiori vantaggi possibili, senza una ricerca congiunta che generi bene comune» (Papa Francesco, “Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale”, n. 202)

Molti autorevoli persone hanno commentato e commenteranno l’enciclica Fratelli tutti. Ad esempio segnalo l’articolo di Giacomo Costa, direttore di aggiornamenti sociali, Il sogno della fraternità. Guida alla lettura della nuova enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco)

Io vorrei sottolineare quei luoghi in cui papa Francesco fa emergere il suo desiderio più intimo, con esclamazioni, domande, riprese di sue parole precedenti che gli sono più care.

L’enciclica sviluppa uno dei temi più centrali alla cristianità e non a caso il papa si richiama alla vita e all’insegnamento di san Francesco d’Assisi, sulla cui tomba ha voluto firmare e promulgare questo testo che è una specie di testamento spirituale.

Rispetto all’insegnamento sociale della chiesa, cui si richiama, il papa non propone novità particolari, se non la fine della possibilità della guerra giusta («Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!», n. 258) e la condanna della pena di morte («Oggi affermiamo con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile» e la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo» n. 263), segnando un passo di non ritorno rispetto a dibattiti secolari.

Ma vengo ora a ciò che mi sembra stia più a cuore a papa Francesco che non si ritrae dai moti più intimi del suo animo, ma li condivide, superando la dimensione razionale del ragionamento, coinvolgendo i suoi e i nostri affetti, più cari. Affetti altrettanto necessari quanto la razionalità del pensiero (Sequeri, P., La fede e la giustizia degli affetti. Teologia fondamentale della forma cristiana, Cantagalli, Siena 2019; Deontologia del fondamento, Giappicchelli, Torinno 2020).

Leggiamo insieme in questa ottica un po’ nuova, questo testo che sembra quasi un testamento spirituale sia per la ripresa dei temi a lui più cari sia come profondità della riflessione. Una maturità spirituale difficilmente superabile che ci invita ad un discernimento del nostro agire per sintonizzarlo sull’essenziale: «l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo» (n. 282)

Al n. 55 il papa dice: “Invito alla speranza, che «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. […] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa». Camminiamo nella speranza”. E’ una citazione di un discorso ai giovani a Cuba. Il papa non è pessimista sul futuro dell’umanità, vuole che coltiviamo la speranza di un mondo migliore, di un mondo più giusto, di un mondo più fraterno. Il suo sguardo di uomo che ha vissuto tante vicende storiche, si è conservato pieno di speranza.

Francesco non ha difficoltà ha porre domande dure. Dopo aver illustrato la parabola del buon samaritano come figura del tempo presente si rivolge al lettore con questo domanda: «Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente […] Meglio non cadere in questa miseria» (nn. 64-66).

Poco più avanti il papa, quasi menzionando un proverbio: «Chi vuole trova un mezzo e chi non vuole trova una scusa» dice che «è possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Però non facciamolo da soli, individualmente» (n. 78). Tutti possiamo fare qualcosa lì dove siamo.

Papa Francesco ci confida la sua tristezza (n. 86), aprendo così un varco sulla sua intimità: «A volte mi rattrista il fatto che, pur dotata di tali motivazioni, la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza. Oggi, con lo sviluppo della spiritualità e della teologia, non abbiamo scuse. Tuttavia, ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi. La fede, con l’umanesimo che ispira, deve mantenere vivo un senso critico davanti a queste tendenze e aiutare a reagire rapidamente quando cominciano a insinuarsi. Perciò è importante che la catechesi e la predicazione includano in modo più diretto e chiaro il senso sociale dell’esistenza, la dimensione fraterna della spiritualità, la convinzione sull’inalienabile dignità di ogni persona e le motivazioni per amare e accogliere tutti».

Nel capitolo dedicato alla carità parla dell’attenzione affettiva (n. 93), come di uno che ne fa esperienza quotidiana: «Cercando di precisare in che cosa consista l’esperienza di amare, che Dio rende possibile con la sua grazia, San Tommaso d’Aquino la spiegava come un movimento che pone l’attenzione sull’altro «considerandolo come un’unica cosa con sé stesso». L’attenzione affettiva che si presta all’altro provoca un orientamento a ricercare gratuitamente il suo bene».

Il dolore fa parte dell’intimità di Francesco, dolore che forse nasce dal rilevare come alle parole non seguano i fatti, di cui ha paura di parlare: “In questa linea, torno a rilevare con dolore che «già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi». Volgiamoci a promuovere il bene, per noi stessi e per tutta l’umanità, e così cammineremo insieme verso una crescita genuina e integrale. Ogni società ha bisogno di assicurare la trasmissione dei valori, perché se questo non succede si trasmettono l’egoismo, la violenza, la corruzione nelle sue varie forme, l’indifferenza e, in definitiva, una vita chiusa ad ogni trascendenza e trincerata negli interessi individuali” (n. 113).

Il papa poi ci offre una chicca di sapienza parlando della solidità e mette in una nota (la nota 88: «La solidità si trova nella radice etimologica della parola solidarietà. La solidarietà, nel significato etico-politico che essa ha assunto negli ultimi due secoli, dà luogo a una costruzione sociale sicura e salda») la definizione che gli sta a cuore: «In questi momenti, nei quali tutto sembra dissolversi e perdere consistenza, ci fa bene appellarci alla solidità [88] che deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri cercando un destino comune. La solidarietà si esprime concretamente nel servizio, che può assumere forme molto diverse nel modo di farsi carico degli altri» (n. 115)

Parlando delle relazioni internazionali, papa Francesco è consapevole che: «Senza dubbio, si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità» (n. 127). Egli non è un ingenuo sognatore, ma un realistico uomo, sostenuto dalla sua fede in Dio amore, che vuole che siamo tutti fratelli.

Francesco è convinto che ciò che conta veramente è la conversione dei cuori umani. Lo ha detto più volte nei suoi scritti precedenti e anche qui lo ribadisce con forza, parlando di una organizzazione mondiale più efficiente per aiutare a risolvere i problemi impellenti dei più abbandonati: «Tutto ciò potrebbe avere ben poca consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno di un cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita […] il pericolo maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma nel modo in cui le persone le utilizzano. La questione è la fragilità umana, la tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione cristiana chiama “concupiscenza”: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio.» (n. 166).

Parlando poi dei movimenti popolari, che gli stanno particolarmente a cuore, li definisce con affetto poeti sociali: «In questo senso sono “poeti sociali”, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli». Benché diano fastidio, benché alcuni “pensatori” non sappiano come classificarli, bisogna avere il coraggio di riconoscere che senza di loro «la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino» (n. 169).

Papa Francesco ringrazia direttamente Dio, parlando delle società civile organizzata: «Grazie a Dio tante aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della Comunità internazionale, la sua mancanza di coordinamento in situazioni complesse, la sua carenza di attenzione rispetto a diritti umani fondamentali e a situazioni molto critiche di alcuni gruppi» (n. 175).

Poco più avanti ecco un’altra espressione particolarmente personale, quasi una preghiera: Dio voglia. «La mancanza di dialogo comporta che nessuno, nei singoli settori, si preoccupa del bene comune, bensì di ottenere i vantaggi che il potere procura, o, nel migliore dei casi, di imporre il proprio modo di pensare. Così i colloqui si ridurranno a mere trattative affinché ciascuno possa accaparrarsi tutto il potere e i maggiori vantaggi possibili, senza una ricerca congiunta che generi bene comune. Gli eroi del futuro saranno coloro che sapranno spezzare questa logica malsana e decideranno di sostenere con rispetto una parola carica di verità, al di là degli interessi personali. Dio voglia che questi eroi stiano silenziosamente venendo alla luce nel cuore della nostra società» (n. 202).

Il papa è consapevole che la carità politica non è un’utopia ma una realtà da perseguire, anche se è difficile: «La carità politica si esprime anche nell’apertura a tutti. Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto. In questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È qualcosa di più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune. Sembra un’utopia ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo» (n. 190).

Il dialogo è un altro punto su cui Francesco insiste, sapendo quanto sia importante a tutti i livelli dal personale ai rapporti internazionali: «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto. (n. 198).

E poco più avanti esorta con una esclamazione che ricorda san Paolo (Ef 6,11-17): «Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!» (n. 217). E ancora eccolo che esclama: «Se potessimo riuscire a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe! Amiamo la nostra società, o rimane qualcosa di lontano, qualcosa di anonimo, che non ci coinvolge, non ci tocca, non ci impegna?» (n. 230)

Parlando del rapporto tra religioni e violenza, il papa si sente coinvolto nel processo di conversione all’essenziale del rapporto con dio e i fratelli per tutti gli uomini di fede: «Anche «i credenti hanno bisogno di trovare spazi per dialogare e agire insieme per il bene comune e la promozione dei più poveri. Non si tratta di renderci tutti più light o di nascondere le convinzioni proprie, alle quali siamo più legati, per poterci incontrare con altri che pensano diversamente. […] Perché tanto più profonda, solida e ricca è un’identità, tanto più potrà arricchire gli altri con il suo peculiare contributo». Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni. (n. 282)

Sotto forma di una preghiera personale, con un Amen, che conclude l’enciclica, papa Francesco riprende la testimonianza del beato Charles de Foucauld: «Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la sua aspirazione a sentire qualunque essere umano come un fratello, e chiedeva a un amico: «Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese». Voleva essere, in definitiva, «il fratello universale». Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen» (n. 287).

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