“Proprio la valorizzazione delle relazioni umane può arrivare a configurarsi come nuovo pilastro di un diverso paradigma, pur sempre liberal-democratico se vogliamo, e sicuramente globale, ma adattato a un mondo non più indigente: eguaglianza giuridica, conoscenza utile, diritto alla felicità e, appunto, qualità della vita relazionale (in una simile prospettiva, e nel lungo periodo, l’arricchimento personale finirebbe per essere visto solo come una dimensione «di passaggio»). Tuttavia, anche solo sul piano ideale, teorico, sostituire all’arricchimento personale, le relazioni umane non è impresa agevole” (pp. 297-298)

Emanuele Felice è docente di storia economica presso l’Università Autonoma di Barcellona e presso l’Università di Pescara e si occupa di storia economica dell’Italia, in particolare dell’Italia del sud.

Questo è un libro che ha un unico punto di innovazione rispetto ai suoi maestri dichiarati Jared Diamond e Yuval Noah Harari: l’idea di felicità è stato un motore di innovazione sociale e sviluppo economico oltre ai tre aspetti già indagati dalla ricerca storico-economica: uguaglianza giuridica, attenzione al sapere pratico, idealizzazione dell’arricchimento.

L’idea di felicità, secondo l’autore, si è evoluta nel corso dei millenni, da felicità ultraterrena o di tipo stoico-individuale fino al 1500 circa, a felicità possibile qui su questa terra. Quando questa idea si è incontrata nell’illuminismo con l’uguaglianza giuridica delle persone, la possibilità di una tecnologia pratica e utile e l’idea che arricchirsi individualmente era possibile (con la Riforma protestante), si è creato il pensiero liberal-democratico che ha portato alla rivoluzione industriale e, passo dopo passo, al mondo attuale, occidentale e globale al tempo stesso.

Nell’introduzione Felice abbozza una sintesi delle tre rivoluzioni della storia umana: «La prima è quella cognitiva da cui originano i cacciatori-raccoglitori sapiens sapiens (biologicamente uguali a noi) e alla cui esistenza mitizzata si ispira, per certi aspetti, l’immagine del «giardino dell’Eden».

La seconda è la rivoluzione agricola che inaugura la lunga epoca della «valle di lacrime» e nella quale vengono elaborate due concezioni antitetiche di felicità: una terrena, ma individuale e da conseguire per via ascetica (l’atarassia); una ultraterrena, che tuttavia può essere collettiva o meglio sociale (la «Città di Dio»).

La terza è la rivoluzione industriale, messa in moto dall’Illuminismo, a partire dalla quale si affermano nuovi ideali di felicità: la «Città dell’uomo», trasposizione terrena della Città di Dio, in cui la felicità individuale si fonde in quella collettiva, qui su questa terra; una visione poi degenerata nel terrore utopistico che segnerà in modo indelebile il vissuto del Novecento.

A queste tre rivoluzioni sono dedicati il secondo, terzo e quarto capitolo.

Il racconto però non finisce qui, per fortuna. A partire dalla rivoluzione industriale e dalle idee illuministe, inizia a delinearsi anche l’edonismo dei «paradisi artificiali», una concezione oggi divenuta egemone trovando riscontro, sul piano economico, nella società del benessere e consumistica, che a ben vedere è lo stadio avanzato di un processo cominciato nel Settecento inglese (le basi economico-tecnologiche erano già state poste dal capitalismo industriale con la sostituzione delle macchine al lavoro umano). Al tempo stesso, grazie al processo tecnologico e al cambiamento concettuale maturati in età illuministica, va prendendo corpo anche un’ulteriore visione della felicità, che a differenza delle altre cerca di coniugare il benessere materiale, la qualità delle relazioni e la libera ricerca di un significato (o di più significati) nella vita: è una concezione che si accompagna a una trasformazione, tuttora in corso e dagli esiti aperti, che come quella edonistica riguarda la condotta umana e il mondo delle idee» (pp. 20-22).

Questa è la tesi di fondo del libro che viene ripresa nella conclusione: la situazione economica attuale può permettere di ricongiungere etica ed economia.

Felice è consapevole che la sfida è aperta a diversi esiti e che la politica conterà molto con le sue scelte, più che l’economia, perché è la politica che detta le regole del vivere comune, è la politica che fa le leggi e recepisce i cambiamenti del costume e della morale, in tutti i campi, soprattutto in economia.

Se si vuole le disuguaglianze si possono ridurre, molte sono le strategie e le vie possibili, molti autori le hanno indicate e proposte, mentre tocca ai politici compiere le scelte per renderle attuali.

Il libro merita una lettura attenta poiché è ricco di molti aspetti poco indagati nei libri di economia ed è un utile strumento che connette mondi culturali che normalmente non si parlano.

 

Emanuele Felice, Storia economica della felicità, Il Mulino, Bologna 2017.

 

Citazioni

“Schematizzando possiamo dire che consideriamo la felicità l’insieme di tre elementi: a) libertà […]; b) relazioni sociali; c) «senso della vita» “ (p. 13).

“Di necessità s’impone pertanto un approccio multidisciplinare: mettere cioè in relazione la storia economica con altre discipline sociali, particolarmente quelle che si sono occupate della felicità nel passato con riferimento alla sua dimensione concettuale (più che materiale) e individuale: la filosofia morale, ma per certi aspetti anche l’antropologia e la psicologia” (p. 19).

“La civiltà agricola si basa sulla disuguaglianza «di diritto», fra le classi sociali, fra uomini e donne. La comune disposizione esistenziale, che sostiene questa disuguaglianza, è quella della rassegnazione: la rinuncia alla felicità «pubblica», per questo mondo: l’accettazione dell’infelicità, come dimensione del vivere sociale, nella speranza di una felicità ultraterrena o tutt’al più, di una serenità individuale avulsa dalle tribolazioni di ogni giorno” (p. 24).

“Il paradigma dell’ordine liberal-democratico, che permea il mondo industriale, è invece radicalmente diverso: uguaglianza giuridica, conoscenza utile, diritto alla felicità e valorizzazione dell’arricchimento individuale” (p. 25).

“Con la prima (la rivoluzione scientifica) inizia a imporsi l’idea della conoscenza utile. Con l’Illuminismo, invece, hanno luogo le altre due trasformazioni decisive: si fa strada la tesi dell’uguaglianza giuridica e si afferma un nuovo concetto di felicità” (p. 26).

“La sfida è quindi aperta. Nel mondo globale, che lo si voglia o meno, si pone il tema di come costruire un’idea di civitas (humana) e di solidarietà, di fratellanza, che prescinde da una visione trascendente; cioè prescinda dall’idea di un premio al di là della vita, come motivazione dell’azione umana verso il bene (senza escluderlo necessariamente)” (p. 300).

Per un tale obiettivo ci vuole altro: ci vuole un’etica che ci porti non solo a tollerare il diverso, ma a riconoscerlo e stimarlo, come espressione e valore della grande e variegata comunità umana (pp. 300-301).

“La felicità si coltiva contribuendo alla felicità degli altri, vale a dire praticando la virtù” (p. 301).

“Il punto, però, è che ricercare un comportamento «assoluto» nell’essere umano è probabilmente sbagliato. E sulla loro contrapposizione si gioca una delle sfide più importanti del nostro tempo […] La prima concezione è incardinata su quel che resta uno dei pilastri dell’ordine liberal-democratico, l’arricchimento personale. Potremmo definirla come segue: la felicità consiste nella capacità di soddisfare tutti i propri bisogni e desideri, di qualunque tipo, grazie alla disponibilità crescente di beni e servizi […] La seconda concezione poggia invece su un altro principio, alternativo al precedente, ma che pure (ne abbiamo parlato) potrebbe incardinarsi sul paradigma liberal-democratico, o almeno nell’ordine ideale del «villaggio globale»: quel che conta e va davvero valorizzato non è l’arricchimento personale, ma la qualità della vita relazionale” (pp. 305-306).

“Questa seconda ipotesi di felicità si articola in tre componenti. La prima è implicita: il soddisfacimento dei bisogni materiali. […] La seconda componente è la qualità delle nostre relazioni con gli altri esseri umani […] Questa componente relazionale è davvero centrale, anche perché contribuisce alla terza: perseguire un significato nella vita, uno scopo (o più d’uno) cui indirizzare la felicità” (p. 307).

“L’idea secondo cui la felicità consiste nella massimizzazione del piacere non è incompatibile proposta: purché sia una ricerca del piacere orientata a un significato che sentiamo di poter dare alla vita; e quindi condivisa, sulla base delle relazioni umane di reciprocità, in una cornice che valorizzi le ragioni dell’individuo e il pluralismo morale” (p. 308).

“Il nostro approccio esprime quindi la convinzione che l’edonismo, da un lato, e la felicità fondata sulle relazioni umane e le virtù civiche, dall’altro, non siano necessariamente antitetici; ma che, al contrario, possano diventare complementari” (p.310).

“Messa così sembrerebbe una storia a lieto fine. Perché preoccuparsi? […] La preoccupazione più profonda è quindi legata al timore che quella rivoluzione etica che noi crediamo di osservare, in realtà non esista. O che sia talmente lenta, da risultare irrilevante. L’abisso è incolmabile. E anche la felicità non è che un’illusione” (pp. 311-313).

“Perché tutto ciò si traduca in felicità, e affinché possa durare, è necessario che alla «rivoluzione del piacere», chiamiamola così, si affianchi una «rivoluzione etica». La buona notizia è che, in merito, non mancano segnali positivi: oggi possiamo vantare una coscienza etica «migliore» e più inclusiva, sotto molti aspetti, più sensibile ai diritti umani, rispetto a tutte le epoche precedenti. […] Non sono sfide facili. Superarle o meno dipende, più che dall’economia, dalla politica, con le regole e le istituzioni che riesce a definire: giudizio etico, individuale, e agire politico, collettivo, appaiono quindi inscindibili – come in fondo pensavano gli stoici, in un altro mondo – e possono rafforzarsi o indebolirsi a vicenda” (pp. 344-345).

“L’esito dipende da noi. Oggi più che mai l’umanità è artefice del proprio destino, ovvero della sua felicità” (p. 345).

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