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“Vivo sempre più con la coscienza e il sentimento della presenza dell’ignoto nel conosciuto, dell’enigma nel banale, del mistero in tutte le cose e, in modo particolare, dell’aumento del mistero in ogni aumento della conoscenza” (p. 13)

 

Il tentativo di Edgar Morin in questo suo ultimo libro è di illustrare il suo ormai lunghissimo rapporto con la conoscenza e il sapere. È un testo intimo, sebbene non strettamente personale, nel quale l’autore mostra la tenacia dell’umanità nel suo continuo e irrisolvibile confrontarsi con la sua condizione esistenziale. Un libro a tratti onirico, come nelle suggestioni sull’origine e il senso dell’universo, a tratti terreno, come negli approfondimenti antropologici sullo sciamanesimo e l’estasi degli artisti.  Nelle prime pagine siamo subito posti davanti a delle domande fondamentali (p. 8): “Cosa si conosce, cosa si può conoscere?”

Ovviamente, non si può pretendere da un testo agile e dal taglio divulgativo una risposta a queste domande (e nemmeno da imprese più voluminose). È chiaro invece ciò che sostiene questo desiderio di conoscenza (p. 8): “Amo conoscere.” Dunque, non sono per Morin né la Ragione e l’intelletto, né Dio, a spingere l’uomo verso nuovi orizzonti conoscitivi, ma la volontà e il sentimento, lo stupore.

Morin accenna più volte alla sua idea di Conoscenza. Questa non coincide con la scienza (per come si è secolarizzata) e lo specialismo (le conoscenze), ma è una conoscenza complessa che si contamina con le arti e la poesia; non è incentrata sull’uomo e la sua (strumentale) frenesia e voracità di conoscere; non mira ad essere esaustiva ma a suscitare sempre nuovo stupore; non intende spiegare, ma suggerire, mostrare. Il sapiente è un uomo curioso, amante del sapere e disinteressato delle implicazioni che il sapere porta in sé; un uomo che, liberatosi dall’ideologia e dalle funzioni socio-religiose del conoscere (ovvero dell’unire la comunità entro un orizzonte di senso), si sporge da solo oltre i limiti della sua umanità.

Tuttavia, nel corso della lettura mi sono trovato più volte a riflettere su una questione, a mio parere, fondamentale: perché conoscere? Ciò che nel libro sembra essere dato per scontato è la necessità, l’origine del bisogno di conoscere, il suo scopo. E a questa domanda se ne aggiungono altre: la conoscenza è un bisogno umano innato, naturale? È un bisogno spirituale (per la sopravvivenza dello spirito) o materiale (per la sopravvivenza del corpo)? Cosa conosciamo del conoscere? E, in definitiva, qual è il senso della conoscenza?

A partire dalla cultura greco-romana, passando per il cristianesimo delle origini e lo gnosticismo, fino ad arrivare all’Illuminismo e ai tempi moderni, la riflessione sulla conoscenza ha avuto un ruolo centrale nella storia della nostra civiltà. Si dovrebbe dunque porre, anche solo criticamente, la questione del rapporto tra conoscenza, natura umana (l’essere persona), realtà esterna-empirica, e realtà sovrannaturale-divina: una questione fondante il pensiero e la storia delle idee occidentali. Conoscere è (forse) cercare il ricongiungimento con il divino, con il Tutto, sanare la divisione che ci separa dall’Altro e dalla Natura, rispondere a quel senso di vuoto che affligge ogni uomo; conoscere è (forse) volersi relazionare al mondo, tentare di svelarne il mistero e superare il senso della fine tramite la riconciliazione con esso. Forse, appunto. Ma, dato che nel libro manca un simile ragionamento sul senso della conoscenza, tali dubbi non hanno trovato conforto.

Inoltre, la conoscenza può portare anche orrore, non solo stupore. Se lo stupore è la sensazione chiave che viene evocata in più riprese nel libro come punto di partenza e di arrivo del processo conoscitivo, si accenna soltanto all’orrore, senza dargli il dovuto peso. Sarebbero qui rilevanti, almeno, le riflessioni di Leopardi – “dissipando le illusioni e l’incerto, la conoscenza annienta ogni possibilità di gioia, intensa come tendenza naturale al piacere e alla sensazione, uno stato di totale ignoranza della crudeltà e dell’insensatezza della vita(10).

Il rapporto dell’uomo con la conoscenza è ambiguo, travagliato, problematico. E dunque, se la conoscenza non è necessariamente benefica e redentrice, e non può che portare ad altro mistero e dunque alla permanenza di una divisione dal reale, è necessario domandarsi perché conoscere: per la salvezza dell’anima? Per prendere coscienza della nostra condizione e trascenderla? For the sake of knowing? Per stupirsi, o per il gusto di conoscere?

Ma se la questione potrebbe essere più complessa di quanto appare, potrebbe anche darsi che una lettura critica come questa sia da considerare fuori luogo. Morin in un certo modo considera la questione sul senso della conoscenza ma, forse, sapendo di quale groviglio inestricabile si tratta, non la affronta in questi termini. Coerentemente con i contenuti del testo, il suo può essere inteso più come un argomento estetico-poetico che filosofico. A più riprese, viene infatti ricordato il sentimento di stupore e di mistero che il conoscere stimola, quasi si volesse suggerire che in queste sensazioni vada cercato il vero senso del conoscere (p. 9): “tutto ciò che è evidente, tutto ciò che è conosciuto diventa stupore e mistero. Il mio stupore cresce ad ogni sguardo, a ogni sensazione.”; e ancora (p. 13): “lo stupore ininterrotto conduce all’interrogazione ininterrotta.”

Oltre a ciò, Morin ci suggerisce un’etica del conoscere. Non possiamo conoscere tutto, ma lo vorremmo. Allo stesso tempo, non siamo al servizio della conoscenza ma essa ci aiuta a vivere. Anche se ci arrenderemo all’inconoscibile, non dobbiamo sospendere il nostro confronto con esso.

 In questo senso, il libro va recepito più come un insieme di suggestioni che come una discussione esauriente di questi temi. Va letto come una poesia, o una preghiera di un uomo che si è votato alla Conoscenza e che, con pacatezza e agilità, si muove nell’immensa biblioteca che ha nutrito per una vita intera. Implicitamente, attraverso tutta la sua opera, ci mostra quindi quali siano le virtù dell’uomo dedito al conoscere: moderazione, umiltà, pazienza, ma anche tenacia, fortezza, attenzione.   

È chiaro dunque che, per libri come questo, non è tanto la ricerca della verità che si cela dietro il testo – la sua comprensione – che conta. Sono la comunione e la simpatia, origini di stupore e affezione, che si sviluppano con il testo a delineare l’orizzonte di senso con il quale ognuno si deve confrontare durante (e dopo) la lettura; l’importante è la sensazione che abiterà il lettore dopo aver concluso il libro, quello stupore e quel senso di meraviglia che Morin continuamente stimola. Conoscenza, ignoranza, mistero è uno di quei libri solo apparentemente semplici, che invece vanno letti con cura, e riaperti quando se ne sente il bisogno o quando si è compreso ciò che si è letto tramite la propria azione nel (e riflessione sul) mondo.

Vale la pena descrivere in modo analitico l’impianto del libro.

Il primo capitolo, La conoscenza ignorante, introduce le tesi del testo. Morin paragona l’azione conoscitiva umana alla forza cosmica che si è originata nel Big Bang (p. 15): “L’espansione delle conoscenze è irresistibile quanto l’espansione dell’universo.” La conoscenza è un processo in continuo e perpetuo moto che delinea i limiti dell’Essere e dello spazio-tempo. Non possiamo conoscere tutto e dunque il punto di partenza e di arrivo della conoscenza non può che essere l’incertezza. Ignoriamo, e sempre ignoreremo, qualche aspetto del reale. Certo, possiamo ridurre l’incertezza – rischiarare un po’ di più l’oscurità – ma non possiamo afferrare comunque l’indicibile (p. 21): “L’ignoto è enigma; l’inconoscibile è mistero.”

Il secondo capitolo, La realtà, affronta brevemente diverse tradizioni ontologiche ed epistemologiche – pensiero buddista, platonismo, hegelismo, costruttivismo, ecc. – per introdurre ulteriormente il campo in cui si svilupperà la riflessione dell’autore. Morin si definisce co-costruttivista – “costruiamo psichicamente, socialmente, storicamente una traduzione di una realtà esterna a noi” (p. 25) – ricordando come l’uomo crea la sua interpretazione del reale tramite miti, dei, ideologie. Questi costituiscono l’immaginario, come un codice su una stele tramite cui tradurre il percepito in reale. Ricordandoci come (p. 28) “tutto è illusione, niente è illusione”, Morin ripropone la nozione buddista della mente come principio del reale. La realtà infatti è emergente dal nulla ed è sempre in relazione con la nostra capacità di comprenderla. “La realtà è […] mistero. Il mistero è nel reale, forse nei due sensi della parola “mistero”: inconoscibile; cerimonia profana/sacra in cui le nostre vite si giocano” (p. 36).

Il terzo capitolo si occupa dell’universo e riflette sulle scoperte della fisica moderna contaminandole con la lettura di testi sacri, nozioni ermetico-esoteriche, e varie cosmogonie. All’inizio era il nulla, il senza-nome, il caos; poi fu l’universo. È uno dei capitoli più dinamici ed eclettici, che ci guida attraverso le diverse spiegazioni che l’uomo si è dato per comprendere il suo essere e ci invita a rileggere i classici della filosofia e della fisica per interrogarci: cosa era prima? Cosa sostiene l’universo? Cosa sarà dopo?

Una prima chiave di lettura ci viene fornita (p. 47): “l’universo porta in sé una tragedia insondabile, che si ritrova nei nostri destini umani. [L’] universo è potenza inaudita di creazione e potenza inaudita di distruzione…”. Un principio, quello dell’eterno distruggere e rigenerare, del ricorrere di stadi di caos e stadi di ordine, che secondo Morin è estendibile ad altri piani di realtà (p. 55): “il mondo umano è a immagine dell’universo, con le sue organizzazioni, il suo ordine, i suoi disordini, le sue relianze, le sue rotture, le sue attrazioni, i suoi furori, le sue esplosioni, le sue nascite e morti di civiltà, i suoi buchi neri, le sue creazioni, il suo divenire incerto…

Il quarto capitolo si concentra su ‘La vita, la rivoluzione nell’evoluzione’ e tenta di affrontare un’altra delle grandi domande dell’uomo: l’origine della vita e della coscienza. Morin presenta una nozione fondamentale per avviare qualsiasi ragionamento a riguardo (p. 57): “la vita è nel contempo in discontinuità e in continuità con il mondo fisico-chimico. È in continuità per la sua costituzione fatta di associazioni molecolari. [È] in discontinuità nella sua dipendenza dal suo ambiente, da cui deve attingere cibo e informazioni.”

È uno dei capitoli più suggestivi ma è anche tra quelli che mi hanno convinto di meno. Alla vita viene conferita la volontà e la finalità del contrastare la morte. Vita e Morte, come Eros e Thanatos, Ordine e Chaos, diventano forze antagoniste che si contendono il Cosmo (p. 63): “per ritardare la scadenza della morte, la vita ha inventato la riproduzione, che è, ogni volta, una vittoria provvisoria contro la morte”. È una soluzione che elude la piena problematicità del fatto che della vita “non si può trovare il senso” (p. 71). Insomma, un trans-umanesimo pienamente ottimista nella sua ispirazione ellenistico-gnostica che quasi evita le questioni cardine del problema dell’umano: il suo essere cosciente ed il cercare un senso alla propria temporanea esistenza.

Il quinto capitolo, La creatività vivente, espande la riflessione del capitolo quattro e colloca la creatività all’interno dell’antagonismo Vita–Morte; essa è uno strumento, una proprietà emergente del vivente, un suo adattarsi e ritardare la sua incombente sconfitta.

Dimentichiamo, nell’evidenza quotidiana del vivere, il carattere sorprendente della vita. Dimentichiamo, nelle attività prosaiche del vivere, che la vita è poesia, ma dimentichiamo nei nostri momenti euforici che è crudele, terribile, orribile” (p. 84).

Il sesto capitolo, L’umano sconosciuto a sé stesso, ritorna al tema dell’umano: chi siamo? Cosa siamo? Morin ci dice (p. 87): “siamo esseri trinitari, nel contempo individui, momenti/elementi di una specie biologica, momenti/elementi di una società, e queste tre nozioni sono non solo inseparabili, ma ricorsivamente produttrici le une delle altre.” È un capitolo molto breve che tuttavia non perde di significatività (p. 88): “siamo posseduti dai miti, dagli dei, dalle idee. Siamo dei manipolatori manipolati, siamo posseduti da ciò che possediamo.”

Il settimo capitolo, Il cervello e la mente, lancia numerose e dettagliate suggestioni sulle strutture biologiche che permettono all’uomo di conoscere. È il capitolo più corposo, coeso e ricco di tutto il libro. Morin intreccia il contributo delle scienze cognitive alle teorie della conoscenza delle scienze sociali, rovistando tra riflessioni teologiche, antropologiche, poetiche e letterarie. Straordinari i paragrafi sullo sciamanesimo, la mimesi, lo stato poetico e l’estasi; Morin in questo capitolo dimostra la sua magistrale capacità di sintesi, di come si possono trasmettere verità in maniera concisa.

L’ultimo capitolo, Post-umanità, è conciso ma profondo. Con (moderati) toni apocalittici, Morin ci ricorda come la scienza, la tecnica e l’economia odierne annienteranno l’uomo, se non governate. Un futuro disumano (post-umano) di attende, in cui l’umanità sarà altra da quella che conosciamo. Per concludere, egli richiama l’attenzione sulla necessità di un trans-umanesimo in cui la metamorfosi dell’uomo dovrà essere guidata tanto da un rinnovamento etico quanto da una più profonda riflessività.

 

Morin E., Conoscenza, ignoranza, mistero, Raffaello Cortina, Milano 2018.

 

Citazioni

La coscienza è un’emergenza delle attività della mente, di natura riflessiva, tanto sulla propria persona quanto su ogni oggetto di conoscenza” (p. 96).

Giungiamo a tre misteri: il mistero abissale dell’inconscio, non solo freudiano, dei desideri, delle paure, delle rimozioni, ma quello del nostro cervello che funziona inconsciamente con i suoi sei miliardi di neuroni, della nostra mente che funziona inconsciamente con talvolta solo una fragile fiammella di coscienza in superficie; il mistero del nostro organismo, formidabile macchina auto-organizzata e autoregolata che funziona inconsciamente salvo che in caso di allarme a causa di disturbi o di dolori; il mistero della nostra identità che contiene nella sua memoria la nostra vita fetale e i nostri ascendenti” (p. 102).

La mente funziona non solo in modo logico, ma anche in modo analogico, e può funzionare in modo dialogico (assumendo e associando contraddizioni)” (p. 102).

L’analogia la fa da padrona nella poesia. La poesia è un modo di conoscenza analogico-magico che crea un “incantesimo” (carmen). Il pensiero magico, sorgente di ogni mitologia, è fondato sull’analogia fra il microcosmo (umano) e il macrocosmo (universo, natura)” (p. 103).

La magia è relegata a un passato superato o nei residui di superstizione. Certo, la magia deriva da una mentalità arcaica, ma la sua eredità è presente in noi in maniera universale e profonda. [I] moderni sono solo parzialmente razionali e spesso infantili, mitomani, insensati” (p. 104).

La mente umana è mitopoietica, e più ancora produttrice di dei, i quali nella e per una collettività acquisiscono autorità e potenza fino a colonizzare le menti senza le quali essi non esisterebbero. L’essere umano ha un’attitudine isterica, cioè la capacità di dare una realtà fisica a una realtà psichica” (p. 108).

Una creazione umana è una combinazione di trance e di coscienza, di possessione e di razionalità” (p. 118).

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