“Come non bastano le antiche glorie a darci la grandezza presente, così non bastano i presenti difetti a toglierci la grandezza futura, se sappiamo volere, se vogliamo sinceramente rinnovarci” (Piero Gobetti, 1918)

Quello che si richiede per uscire dalla stagnazione e dalla crisi che ha colpito l’Italia da un ventennio non è una correzione al margine, ma una trasformazione profonda del modo in cui opera l’economia italiana, volto ad aumentarne efficienza e competitività” (p. 155).

Carlo Cottarelli è attualmente direttore dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’Università Cattolica e visiting professor all’Università Bocconi. Dopo aver lavorato in Banca d’Italia e all’Eni, è stato al Fondo Monetario Internazionale dal 1988 al 2013. E’ stato Commissario straordinario per la revisione della spesa da ottobre 2013 a novembre 2014, poi è tornato al Fondo Monetario come direttore esecutivo.

Questo libro, uscito appena prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, va letto in continuità con i suoi due precedenti lavori: La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare (2015) sulla sua esperienza come Commissario straordinario e su quanto è stato e non è stato ascoltato e Il macigno. Perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene (2016) (vedi recensione su benecomune.net).

Cottarelli riprende il discorso che gli sta a cuore, la modernizzazione dell’Italia, proponendo alcune ricette – corroborate da molto studio e approfondita conoscenza del nostro paese – per far uscire l’Italia dalla stagnazione che la attanaglia da circa 20 anni, da poco prima dell’entrata in vigore della moneta unica europea: l’Euro.

Egli ritiene che “per farlo, occorre una forte accelerazione nel processo di riforma dell’economia italiana, accompagnato da un rafforzamento dei conti pubblici attraverso il contenimen­to della spesa pubblica, che consenta anche una minore tassazione. Questo richiederà probabilmente un ripensa­mento del ruolo dello stato nell’economia. Non è possibile continuare a considerare lo stato come la soluzione di tutti i problemi personali e sociali, come il risolutore di prima istanza, invece che di ultima” (p. 156).

Per l’autore l’Italia convive con sei mali di antica data ed uno più recente. I sei di antica data sono in ordine di presentazione: evasione fiscale, corruzione, eccesso di burocrazia, lentezza della giustizia, crollo demografico, divario tra nord e sud.

Per ognuno di questi problemi Cottarelli presenta: le serie storiche dei dati che lo illustrano; il divario con altri paesi europei; le plausibili cause del problema; cosa si è fatto per cercare di risolverlo; cosa si può fare ancora; gli effetti indesiderati legati alle possibili future riforme e le considerazioni conclusive.

Il male più recente è quello legato alla nostra difficoltà a convivere con l’euro, anche questo con la collaudata scansione dei capitoli precedenti.

Il problema maggiore però è la nostra cultura civica e la nostra coesione ed appoggio corale a chi le riforme proposte vorrebbe realizzare. Come afferma nelle conclusioni è più una questione di educazione e di cultura, che di “soluzioni tecniche”, cioè gli italiani vogliono diventare un paese moderno oppure preferiscono continuare ad essere poco attenti alle regole interne ed esterne e cercare di cavarsela percorrendo sentieri tortuosi con una vita spericolata e al limite?

Cottarelli è consapevole che ci vuole un cambiamento educativo e culturale che imbrigli un poco il “genio italiano” e gli dia un poco più di ordine, per costruire un maggior senso civico che sostenga una migliore collaborazione di tutti allo sviluppo del paese. Non è facile, ma forse ce la possiamo fare, se saremo un po’ meno individualisti e bisognosi di uomini del destino (due facce della stessa medaglia).

L’analisi e le proposte dell’autore non hanno nulla di così innovativo e rivoluzionario, semplicemente – si fa per dire – offrono un quadro sufficientemente razionale, ma non privo di attenzione alla vita delle persone. Infatti consiglia vivamente di non farsi commissariare dalla Troika, come è successo alla Grecia, perché ha conosciuto da vicino le logiche che ispirano le politiche del Fondo Monetario e le conseguenze delle sue ricette economiche.

Il libro è da gustare perché accanto ad una non usuale chiarezza espositiva e a una seria analisi della validità delle statistiche presentate, offre soluzioni possibili e alla portata del nostro paese, se ci fosse una classe politica e un sostegno del paese a fare le riforme necessarie.

La metafora gastronomica dovrebbe farci aprire bene le papille gustative, visto che siamo il paese dove si mangia meglio al mondo….

 

Carlo Cottarelli, I sette peccati capitali dell’economia italiana, Feltrinelli, Milano 2018.

 

Citazioni

“Quello che si richiede per uscire dalla stagnazione e dalla crisi che ha colpito l’Italia da un ventennio non è una correzione al margine, ma una trasformazione profonda del modo in cui opera l’economia italiana, volto ad aumentarne efficienza e competitività.

Perché questo avvenga, dobbiamo toglierci dalla testa alcune illusioni:

  • Non illudiamoci che il processo di crescita possa essere trainato dal settore pubblico: la politica fiscale è vincolata dall’elevato debito pubblico, più che dalle regole europee. Anche la spesa di investimenti pubblici non serve se non impariamo a spendere meglio.
  • Non illudiamoci che la spesa privata possa essere sostenuta dal credito bancario. Le banche sono ancora oberate dalle sofferenze e da incertezza sui vincoli regolamentari per poter espandere il credito rapidamente.
  • Non illudiamoci che il processo di crescita possa essere trascinato da investimenti infrastrutturali europei. Sarebbe bello ma non avverrà, anche in presenza di un rinnovato spirito europeo dopo la vittoria di Emmanuel Macron in Francia. Non credo, purtroppo, che quanto si deciderà a livello europeo possa avere dimensioni suffi­cienti a risollevare l’economia italiana. Dobbiamo cavarcela da soli, per stare in Europa alla pari con gli altri. Se poi aiuti verranno dall’Europa, tanto meglio.

L’unico modello di crescita che può agevolare l’uscita dell’Italia dalla crisi è un modello trainato dalle esportazioni, anche se dobbiamo sperare che i venti protezionistici che si stanno sviluppando a livello internazionale non si sollevino troppo forti. Il recupero di competitività che, nelle pagine precedenti, ho sostenuto essere necessario deve diventare il motore della crescita italiana, come lo è stato per la Germania negli ultimi due decenni. E come lo è stato in passato per l’Italia. In passato, però, a partire dalla fine degli anni sessanta, questo motore ha funzionato solo in presenza di periodiche svalutazioni del cambio, perché gli aumenti di costo eccedevano regolarmente gli aumenti di produttività. Ora dobbiamo farlo senza svalutare, anzi, recuperando la competitività persa da quando siamo en­trati nell’euro” (pp. 155-156).

“Facciamo il punto della situazione. I sette peccati capitali considerati in questo libro sono rilevanti, danneggiano l’economia italiana e, a tutt’oggi, i segnali di miglioramento restano parziali. Riassumiamo:

  • Evasione fiscale. Si evade probabilmente meno che negli anni ottanta e novanta, ma dalla fine della scorsa decade non c’è stato un significativo miglioramento, anche se questa mancanza di progresso potrebbe essere stata influenzata dalla recessione che ci ha colpito dal 2009 e una riduzione dell’evasione è stata registrata nel 2015 (i dati sono però ancora provvisori). In ogni caso, si continua a eva­dere molto più che nella maggior parte dei paesi avanzati.
  • Si è registrato un certo miglioramento rispetto agli anni ottanta, poi negli ultimi anni non ci sono più stati chiari segni di progresso, seppure gli sforzi soprattutto nell’area della prevenzione si siano intensificati di recente. In ogni caso, anche qui siamo molto indietro rispetto agli altri paesi avanzati.
  • Eccesso di burocrazia. Qualche miglioramento si è verificato negli ultimi anni, ma, in parte perché anche gli altri hanno ridotto la burocrazia, restiamo sempre indietro.
  • Lentezza della giustizia. Il numero dei casi pendenti si è ridotto considerevolmente dal 2009, ma i risultati in termini di riduzione dei tempi dei procedimenti sono ancora limitati e tali tempi restano molto più elevati che all’estero.
  • Crollo demografico. Nessun segno di miglioramento; l’immigrazione è per ora l’unica forza che contiene il crollo nel tasso di natalità ed evita una riduzione marcata della popolazione. La crisi economica ha peggiorato un po’ la situazione, ma il crollo nel tasso di fertilità è di ben più lunga data e non c’è da sperare che la ripresa congiunturale possa segnare una differenza sostanziale.
  • Divario tra Nord e Sud. Con la fine della recessione, c’è qualche segnale di recupero del Mezzogiorno, ma il divario resta profondissimo e, anche in questo caso, la ripresa economica non sarà sufficiente a risolvere un problema secolare.
  • Difficoltà a convivere con l’euro. La perdita di competitività che abbiamo osservato dopo l’entrata nell’euro resta elevata. Si sta riducendo rispetto alla Germania, dove i costi di produzione stanno finalmente salendo, ma ora abbiamo perso competitività rispetto ai paesi del Sud Europa” (pp. 157-158).

“L’ultimo paragrafo del capitolo precedente invoca una trasformazione economica profonda. Perché questo avvenga occorre un’altrettanto profonda trasformazione sociale e culturale. Molti dei peccati discussi in questo libro riflettono una scarsità di capitale sociale, capitale di cui ogni nazione ha bisogno per non decadere a livello economico e istituzionale. Noi italiani siamo sempre stati un po’ troppo individualisti: non ci è mai piaciuto rispettare le regole. Il tema del rispetto (o mancanza di rispetto) delle regole è un tema trasversale in questo libro: lo abbiamo visto nel capitolo sulla corruzione, in quello sull’evasione fiscale, e anche in quello sulla difficoltà a convivere con l’euro, un riflesso della difficoltà ad accettare le regole (legali ed economiche) del vivere in un’area a moneta unica” (p. 158).

“L’importanza dei fattori culturali è spesso minimizzata da noi economisti che vediamo le scelte personali come in­fluenzate quasi soltanto da obiettivi di massimizzazione dell’utilità personale, fondamentalmente identificata nel proprio reddito. Ho sostenuto anch’io nelle pagine precedenti questa tesi: gli incentivi economici sono essenziali nel determinare il comportamento delle persone. Ma questo non vuol dire che la cultura, la dotazione di capitale sociale, tutte quelle cose che servono a “internalizzare” gli effetti del comportamento individuale sul resto della società siano irrilevanti. Altrimenti non si spiegherebbero le forti differenze che esistono, a parità di legislazione, tra le diverse regioni italiane. Occorre anche agire rafforzando il capitale sociale, attraverso l’educazione dei nostri figli e nipoti.

L’insegnamento dell’educazione civica fu introdotto nelle scuole medie di primo e secondo grado da Aldo Moro. Oggi la si insegna ancora, sotto l’etichetta di “Cittadinanza e Costituzione”. In verità, c’è dentro un po’ di tutto: l’educazione al rispetto dell’ambiente, elementi di Codice della strada, educazione alla salute e alimentare e, infine, principi della Costituzione italiana. Il tutto per un’ora alla setti­mana. Mi sembra un po’ poco. Occorrerebbe invece che le Scuole diventassero la fucina del nuovo spirito civico di cui l’Italia ha bisogno. Ma prima della scuola viene la famiglia.

E’ dalla responsabilizzazione di genitori e parenti che bisogna ripartire. Tutti noi ne siamo coinvolti” (p. 159).

“Non mi resta che precisare due punti finali.

Il primo, non abbiamo molto tempo per riformare l’economia italiana prima che uno shock internazionale ci colpi­sca. Non si può sperare che il mare resti sempre tranquillo. Lo spread – il differenziale tra rendimento dei titoli italiani e di quelli tedeschi, un po’ l’indicatore della febbre dell’economia italiana – è già salito rispetto ai minimi raggiunti a inizio 2016. Resta ancora basso anche per il continuo sup­porto dato ai mercati finanziari da una politica monetaria che rimane ancora espansiva. Non sarà così per sempre, come ho già detto in precedenza. Dobbiamo sperare che il contesto internazionale comunque resti favorevole per il periodo più lungo possibile. Ma non possiamo contarci. Negli ultimi anni alcuni provvedimenti sono stati presi: si è riformato il mercato del lavoro, il deficit pubblico si è un po’ ridotto, anche se solo per effetto della minore spesa per interessi, è stata avviata la riforma della pubblica amministrazione e così via. Tutto vero, ma quello che occorre, al più presto, è un cambio di passo, e questo è possibile solo se si riconosce che l’economia italiana, nel suo complesso e al di là delle tante eccellenze che indubbiamente esistono, trova difficoltà a competere in modo adeguato con gli altri principali paesi. Occorre comprendere l’urgenza dei problemi e smetterla con i rinvii. Sono dodici anni di fila che, prima di Natale, approviamo un ‘decreto milleproroghe’ (ci siamo salvati nel 2017 solo per via delle elezioni imminenti). Siamo l’unico paese ad aver istituzionalizzato il rinvio. Non si acquisisce credibilità in questo modo.

Secondo e ultimo punto: un fattore decisivo per il successo delle riforme necessarie è l’esistenza di un forte consenso per tali riforme da parte dell’opinione pubblica. Voglio sperare che gli italiani sappiano ancora una volta reagire, ma che lo facciano non quando i problemi si acutizzano con una crisi, ma per prevenire quella crisi. Le parole di Piero Gobetti che ho citato all’inizio di questo volume furono scritte un secolo fa. Sono ancora attuali. Quella volta gli italiani imboccarono la strada sbagliata [il fascismo (ndr)]. Non dovrà essere così questa volta” (p. 160).

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