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Domenica scorsa si è chiuso il Sinodo sulla famiglia. Proponiamo quest’articolo che descrive in modo affascinante il mondo psichico e relazionale che sta alla base del nostro essere bambini, figli e genitori. E la fatica e la bellezza di costruire una famiglia fondata su legami solidi, veri e duraturi   

Partiamo da una domanda essenziale: “Chi siamo?”.
Siamo ciò che riceviamo in eredità dai nostri genitori e dalle generazioni precedenti. Questo costituisce il patrimonio più o meno ricco (di esperienze, vissuti, affetti) per tentare di dare fondamento alla costruzione di una vita piena, intensa.

Prima di diventare genitori siamo stati, quindi, figli, bambini, adolescenti, giovani, adulti. Abbiamo attraversato conflitti, coltivato speranze, sperimentato gioie e amarezze. E questa alternanza non finisce mai.
È necessario non dimenticare la complessità, la fatica del processo della crescita, le cadute e i rialzi, per non commettere l’errore di racchiudere la complessità del vivere solo nel rispetto più o meno fedele dei valori; che sono imprescindibili per una vita buona, piena, ma che disancorati dallo psichico e dalle sue leggi, diventano espressione di un pesante, a volte persecutorio “dover essere”.

Nel momento in cui decidiamo di costituire un legame di coppia che può avere come tappa significativa il matrimonio in virtù di un desiderio, di un innamoramento, possiamo trovarci in una situazione simile a quella raccontata nell’incipit di una delle descrizioni più belle e appassionate dell’amore: il capitolo I del Cantico dei Cantici:

«Mi baci coi baci della sua bocca:
sì, più soavi del vino rosso sono i tuoi amori,
soavi per fragranza sono i tuoi profumi,
profumo olezzante è il tuo nome,
per questo di te si innamorano le ragazze.
Attirami a te, corriamo!
Il re mi introduca nella sua alcova,
per gioire e fare festa con te,
per assaporare i tuoi amori più del vino.
A ragione di te ci si innamora!
»

Festa dei sensi, esplosività del desiderio! Immaginazione e fantasia. Il poeta si serve della parola per raccontare cosa può succedere quando ci si innamora. Ma è necessario tener presente che: «Tra l’innamorarsi e amare c’è molta differenza. Quando una persona s’innamora non lo fa apposta: succede. Ma per amarsi bisogna sudare, soffrire, ridere, stare svegli, donarsi. L’amore non succede, si fa» (Francesco Roversi). Quindi siamo fuori da ogni sentimentalismo. L’amore certamente è anche ricordo, presenza e speranza; è parola e silenzio; ma conosce anche l’assenza, la paura, la solitudine dentro una storia umana sghemba e contraddittoria.

Nel legame di coppia riattualizziamo tutti quei vissuti che hanno scandito la nostra crescita. Positivi e negativi. Bisogna essere attrezzati per reggere il peso e la bellezza dello stare in coppia. E non basta un corso prematrimoniale per essere provvisti del bagaglio necessario per affrontare una sfida così alta come quella del matrimonio, in cui nessuno ci potrà assicurare che la persona che amiamo resterà quella che abbiamo creduto di scorgere; non sappiamo che volto ci rivelerà tra un mese, un anno, sette anni. Quali prove la vita ci riserverà. Saremo in grado di mantenere la promessa di essere fedeli nella buona e nella cattiva sorte, come affermano più o meno consapevolmente gli sposi cristiani al momento della celebrazione del sacramento?

Certamente la fede sostiene, a volte illumina, ma non esiste nessuna delega, nemmeno alla forza dello Spirito. Quello che tocca a noi come persone dentro il matrimonio è nostro fino in fondo. Allora «la sfida alta e chiara non è quella di fuggire l’impegno, ma di osarlo. Libero è senza dubbio chi avendo guardato in faccia la natura dell’amore, i suoi abissi, i suoi giri a vuoto, e le sue esultanze, senza illusioni si mette in cammino, deciso a vivere costi quel che costi, l’odissea, a non rifiutarne né i naufragi, né la sacralità… Nel matrimonio l’altro mi mette a confronto con i limiti del mio essere… Solo il confronto con le mie ferite è in grado di liberarmi… Ciò che rende il matrimonio così luminoso e cosi crudelmente terapeutico è di essere una delle relazioni più significative che mette seriamente al lavoro. La relazione tutta protesa ad evitare le frizioni, conduce al nulla. Può anche accadere che il coraggio della rottura sia il gesto della salvezza! Tuttavia nel matrimonio le prove non sono il segno che bisogna chiudere l’avventura, ma, spesso, al contrario che diventa appassionante perseguirla» (Christiane Singer, Elogio del matrimonio, del vincolo e altre follie, 2009).

E nel far questo non si può essere e far da soli. A volte oltre i sostegni familiari, amicali, comunitari, può essere necessario entrare nel campo terapeutico, dove non si pensava mai di accedere e sostare: superando resistenze, pregiudizi, vergogna. Intraprendere quel viaggio affascinante, ma doloroso che impegna nel confronto sistematico e approfondito con il proprio mondo interno. Ricordare, ripetere, elaborare per riassaporare il gusto iniziale dei primi incontri, riaccendere la passione sopita, risvegliare i sensi, per ridonarsi reciprocamente quella piccola parte di Eden che è concessa agli uomini e alle donne nel difficile, a volte pesante fino all’insopportabile, cammino su questa Terra.

E quando si è più di due, che succede?
C’è un utero in cui il bambino cresce, ma esiste anche uno spazio psichico condiviso nella coppia coniugale, prima ancora che un figlio “venga al mondo”. Uno spazio dove viene pensato, desiderato, atteso. È da quel momento che si comincia a diventare genitori sul piano psichico.

Subito dopo la nascita e le sue vicissitudini, il bambino, visto e intravisto grazie alle moderne tecnologie, è bisognoso di continuare in modo diverso la relazione già avviata nel ventre materno. Grazie alla «preoccupazione materna primaria», così come lo psicoanalista inglese Donald Winnicott nel suo libro Dalla pediatria alla psicoanalisi (1975) ha definito la condizione di attenzione e cura che la madre ha verso il proprio bambino, si costituisce uno stato intermedio di protezione tra lo stare dentro la pancia della mamma e lo starne fuori, che Frances Tustin definisce «grembo post-natale», condizione che protegge o dovrebbe proteggere il bambino da esperienze che superano oltremisura ciò che il suo apparato neuromentale è in grado di sopportare.

Nelle prime fasi della crescita, prendersi cura del bambino nella sua complessità psicosomatica equivale ad una sinergia tra parola, silenzio e attenzione al corpo. Tenerlo in braccio, guardarlo, accarezzarlo, parlare al bambino, sono alcune delle operazioni fondamentali che danno senso e significato a ciò che il bambino sperimenta. Il piacere che passa attraverso la sensorialità gli consente di stabilire un legame con le figure accudenti, di acquistare progressivamente fiducia in se stesso e negli altri; sperimenta l’onnipotenza, che lo illude di essere lui a creare il mondo; fa i conti con le frustrazioni derivanti dal fatto che non sempre l’altro comprende le sue richieste e che i tempi di risposte e le stesse risposte non sono immediati e adeguati ai bisogni e ai desideri; affronta, per quanto possibile, le angosce che provengono da un corpo che esprime altri bisogni e che non sempre è fonte di esperienze piacevoli.

Dentro questa complessità relazionale che coinvolge principalmente la madre, si svolge il difficile processo di maturazione. Lungo, faticoso, che conosce regressioni, arresti, ripartenze, che può anche fallire e che soprattutto mette a dura prova il legame coniugale. Gioia, ma anche notti insonni, malattie, guarigioni, speranze, sofferenze. A volte oltre l’umano.

Madre e bambino costituiscono nella percezione del neonato un’entità indistinta, un tutt’uno, condizione che consente al neonato di far fronte alle frustrazioni. Man mano che il bambino cresce, comincia a percepire la madre come altro da Sé separata e distinta dal proprio corpo: una madre che a volte non è in grado di soddisfarlo fino in fondo e tempestivamente.

Nel momento in cui è capace di tollerare questo vissuto, il bambino inizia ad apprezzare la “madre sufficientemente buona”, la madre reale, differenziata da sé. Allora è possibile rappresentarsela, cioè averla dentro di sé quando lei è fisicamente assente. Il bambino a questo punto è pronto a nascere come entità psicologica con un senso della propria identità personale. Quindi «all’inizio di ogni vita, c’è un patrimonio potenziale che si riceve dai genitori nelle relazioni primarie, fatto di identificazioni profonde, di eredità coscienti ed inconsce, di capacità innate o acquisite che possono decollare o restare congelate, di vincoli e possibilità offerti o imposti dall’ambiente. Un patrimonio che può costituire un capitale per futuri investimenti fruttuosi o che si può rivelare un fardello ingombrante e paralizzante, se non addirittura una rovinosa coercizione» (Maria Luisa Algini, Il viaggio, 2003).

Il bambino pian piano interiorizza il mondo dei genitori e questo non è uno dei possibili mondi, ma è il mondo, l’unico esistente, ed è quello che rimane più a lungo saldamente radicato all’interno di se stesso, fino alla fine dell’età di latenza preceduta e preparata dalle vicissitudini di ciò che viene definita situazione edipica ( intorno ai 3-4 anni), in cui il bambino desidera potentemente il genitore dell’altro sesso e prova piacere nell’entrare in competizione con il genitore dello stesso sesso, sfidarlo, attaccarlo, esprimere con impetuosità la propria aggressività. Se l’esito è positivo, il bambino fa il suo ingresso nella condizione di latenza in cui impegna le proprie energie psichiche prevalentemente nella costruzione dei legami sociali con i coetanei e nei processi di apprendimento, in cui oscilla tra due desideri contrapposti: eliminare il legame con i genitori e restare unito a loro.

Questa fase della crescita ha la funzione di prepararlo alle tensioni e ai conflitti tipici della pubertà e dell’adolescenza durante le quali viene precipitato in una condizione di impetuosa e radicale trasformazione. Cambia il corpo e con esso la psiche. La spinta pulsionale diventa potente. È severamente impegnato ad elaborare il lutto per la perdita della propria condizione infantile; a rinunciare all’onnipotenza, a trovare nuovi criteri di lettura del proprio mondo interno ed esterno, a sperimentare nuove opportunità di crescita. Ciò che i genitori rappresentavano fino a poco tempo prima viene fortemente messo in discussione, attaccato per essere distrutto. Essi non costituiscono più gli unici riferimenti significativi ed indiscussi.

E’ un passaggio che richiede adulti consapevoli del proprio ruolo, in grado di consistere e resistere alle “bordate” che li raggiungono, capaci di fare i conti con le proprie e altrui angosce, che vacillino senza soccombere. «La caratteristica dell’adolescenza è quella di una mente che nell’apprendere il suo potere di funzionamento si riconosce nel suo presente, si appropria del suo passato e contemporaneamente della possibilità di programmare il proprio futuro» (Pia De Silvestris, La difficile identità, 2006).

Quando la tempesta sarà passata, nel migliore dei casi, abbiamo un adulto che ha integrato dentro di sé l’amore e l’odio, che riconosce come tratto distintivo di una sana personalità la coesistenza di questi due potenti affetti, che ha acquisito il senso della propria continuità personale, è sicuro della propria identità che farà da trait-d’union tra il bambino che è stato e ciò che sta per diventare.

Noi abbiamo dentro tutto questo e non solo; che entra prepotentemente in gioco consciamente ed inconsciamente e che costituisce il bagaglio necessario per chi sceglie e può scegliere di immaginare una vita di famiglia e di provare a costituirla.

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