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Se si vuole che i prodotti delle attività manifatturiere e produttive si affermino a livello internazionale è necessario che si formi una classe professionale che maturi esperienze adeguate perché l’elemento immateriale è decisivo per il loro successo. La sola formazione non è necessaria. Trasferire risorse finanziarie a professionisti esterni, anche per acquisire nuove conoscenze, senza una ricaduta effettiva sul territorio vuol dire rallentare il processo di formazione di una società della conoscenza, fondata sulla sostenibilità e il digitale, che tutti auspicano ma che pochi vogliono. Il cambiamento spaventa.

Il Mezzogiorno importa buona parte dei prodotti che consuma. Questo è un fatto che tutti noi abbiamo davanti agli occhi e sul quale non è necessario spendere parole tanto è evidente. Alla dipendenza produttiva si aggiunge anche la dipendenza culturale. Cioè l’incapacità di far crescere competenze intellettuali (culturali e manageriali) che mettano in grado il sistema imprenditoriale e istituzionale di svilupparsi ed espandersi a livello nazionale ed internazionale. Un vincolo allo sviluppo rilevante che rischia di emarginarlo.

La classe dirigente locale, cosciente di essere in forte ritardo rispetto ad altre aree del paese e dell’Europa, spaventata dal fatto di poter perdere quote di potere e di delegittimarsi, preferisce rivolgersi a centri di produzione di idee, analisi e progettualità esterni al territorio per cercare di trovare capacità professionali innovative tali da generare sviluppo economico. Il trend è in forte crescita soprattutto per le destinazioni più blasonate.

L’assunto principale, su cui poggia questa scelta, è che sul territorio non ci sono competenze adeguate per poter sviluppare progetti e attività ad alto contenuto di conoscenza. In parte è vero quanto è vero, però, che bisogna essere capaci di sviluppare le competenze e non comprimerle impedendone la crescita la quale altrimenti potrebbe compromettere non solo la visibilità di qualcuno ma anche gli equilibri di potere consolidati.

Si preferisce una classe professionale usa e getta priva di reale autonomia fondamentalmente gestibile a seconda del potente di turno. E poi magari le professionalità ci sono ma come può riconoscerle qualcuno che non è ha alcuna?. E’ sicuro che sceglierà in base al “brand” come si scelgono un paio di scarpe o una maglietta. Insomma gli incompetenti che gestiscono i budget pubblici e privati si arrogano il diritto di scegliere e di definire quali sono le competenze da utilizzare. Un circolo perverso da cui non è facile uscire.

La schizofrenia è tale che si investono cifre importanti per formare classi di giovani laureati i quali raramente trovano sbocchi adeguati alla preparazione che hanno ricevuto. Rare sono le opportunità che vengono offerte loro perché non hanno maturato le competenze che soddisfano la classe dirigente del mezzogiorno.

Allora i progetti ad alto contenuto di conoscenza vengono affidati a consulenti “blasonati” ( o almeno ritenuti tali) i quali conoscendo le leggi del marketing, il più delle volte vendono prodotti/servizi ormai obsoleti nei mercati avanzati ma sempre validi per quelli più arretrati. Come spostare linee di produzione da un paese in cui il prodotto ha esaurito la sua penetrazione ad un altro più arretrato in cui invece ci sono opportunità di espansione. I primi rifilano una cosa che non riescono a vendere da altre parti e sono contenti. I secondi lo sono ugualmente perché pensano di comprare qualcosa di originale ma che non lo è affatto. Un po’ come accade in Cent’anni di solitudine in cui a Macondo si presenta il venditore di ghiaccio e fa strabuzzare gli occhi agli abitanti del villaggio. Una cosa quasi banale diventa un qualcosa di magico a Macondo.

Il risultato di questa politica è quello di alimentare il circuito vizioso della dipendenza strutturale dall’esterno relativamente alle capacità professionali. Si accede al mercato della conoscenza scegliendo il brand più attraente e giustificando queste scelte con la necessità di bandi internazionali. Comitati di

valutazione improbabili scelgono professionalità di vario tipo senza che i componenti abbiamo la minima idea di che cosa stanno trattando. Ma il bando internazionale, complici normative comunitarie, mette a tacere chiunque e costituisce uno scudo contro chi osa obiettare qualcosa.

Se non si sa fare qualcosa si deve umilmente cercare qualcuno che la sa fare e che possiede le competenze. Magari per cercare di fare le stesse cose nel futuro con proprie risorse e con più autonomia. La collaborazione professionale è sempre, quando è qualificata, fonte di valore aggiunto e miglioramento. Ma quando questo processo non è governato e si caratterizza per essere una delega in bianco allora alimenta un circuito negativo. Allontana professionalità locali e impedisce loro di far crescere competenze che aldilà dell’alta formazione hanno bisogno per consolidarsi di esperienza e di essere sviluppate anche a livello internazionale. Alimenta, inoltre, un altro effetto perverso che contribuisce a sviluppare le competenze di altri sistemi territoriali concorrenti.

Questo credo sia uno dei principali motivi che ancora oggi genera il sottosviluppo del Mezzogiorno. Classi dirigenti che hanno un livello culturale inadeguato, scelgono fornitori della conoscenza in giro per il mondo e perpetuano dipendenza dei territori ed emarginano classi di professionisti giovani e meno escludendole dai processi avanzati di creazione di idee, progettazione e implementazione. Relegandoli a ruoli marginali e all’inconsistenza. Si alimenta perciò la perdita di competenze che è uno dei principali fattori competitivi fondamentali in una società basata sulla conoscenza.

Non si auspica certamente un nuovo protezionismo intellettuale, perché sarebbe fuori dal tempo e anche deleterio. Però è necessario spezzare un circuito vizioso in cui una classe dirigente pigra, timorosa di perdere posizioni di potere, alimenta processi di sottosviluppo intellettuale che generano nuove forme di “colonialismo” della conoscenza.

Se si vuole che i prodotti delle attività manifatturiere ed in genere produttive si affermino a livello internazionale è necessario che si formi una classe professionale che maturi esperienze adeguate perché l’elemento immateriale è decisivo per il loro successo. La sola formazione non è necessaria. Trasferire risorse finanziarie a professionisti esterni, anche per acquisire nuove conoscenze, senza che ci sia una ricaduta effettiva sul territorio vuol dire rallentare il processo di formazione di una società della conoscenza, fondata sulla sostenibilità e il digitale, che tutti auspicano ma che pochi vogliono effettivamente perché è fattore di cambiamento. E il cambiamento spaventa.

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