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Aver scelto Taranto come sede della Settimana Sociale dei cattolici italiani è una opzione che esplicita una problematica che intende mettere al centro la vita concreta degli uomini e la dimensione urbana del vivere oggi. Una scelta che assume come metafora descrittiva la sofferenza che attraversa una città (luogo dell’abitare, delle relazioni umane e civili, la dimensione di una territorialità lacerata e bisognosa di ricomporsi come civitas), la cura del creato, il senso del fare industria. Ed ancora: una scelta che vuole evitare un certo dogmatismo ecologista che si sta presentando come un modo per salvaguardare i privilegi delle élite…

Aver scelto Taranto come sede della Settimana Sociale dei cattolici italiani è una opzione che esplicita una problematica che intende mette al centro la concreta vita degli uomini (salute, vivibilità), e la dimensione urbana del vivere oggi e assume come metafora descrittiva la sofferenza che attraversa una città (luogo dell’abitare, delle relazioni umane e civili, la dimensione di una territorialità lacerata e bisognosa di ricomporsi come civitas), la cura del creato (della sua complessità  che non va piegata alla semplificazione), il senso del fare industria (come percorso di liberazione dalla costrizione del naturale all’interno di una logica che vede l’umanità, donne, uomini, bambini, adulti, anziani nel compimento di una creazione che è stata vista e pensata come cosa buona).

Aver scelto Taranto è, a mio avviso, un invito ad evitare il dogmatismo ecologista così di moda oggi e che si sta presentando come un nuovo modo per salvaguardare i privilegi delle élite. Che rischiamo un nuovo e astratto ideologismo verde credo sia sotto gli occhi di tutti. Il mio timore è che, superati gli ideologismi sorti nell’Ottocento e protrattisi in larga parte nel Novecento, con costi umani enormi, se ne erigano dei nuovi: quello ecologico e quello della tecnica.

Amo la natura e mi piace contemplarla per come si manifesta sulle colline in cui vivo. Una natura che è stata resa bella dall’opera secolare del lavoro umano, dalla fatica, e dalla   tensione al bello che è intrinseca alla condizione umana. Un senso della bellezza che ho ricevuto dai mei nonni e che vorrei fosse conservato perché ne possano godere i miei nipoti.

Dopo la tragedia globale del Covid19, dobbiamo sfruttare il tempo che abbiamo e le conoscenze scientifiche e tecnologiche, per compiere progressi sociali, economici, sanitari, politici e ambientali. La sostenibilità va collocata dentro il pensiero complesso che abbiamo ricevuto dall’idea di creazione. «E Dio vide che era cosa buona». Nella creazione del mondo non c’è solo un elemento fisico.  Ma la creazione comprende un carattere morale «buono», una visione estetica del «bello» e una dimensione pratica ovvero «utile» in quanto conforme allo scopo. Tutto è compreso in una unità, oserei dire in una complessità.  Penso che i guai che derivano dal moderno e dal post-moderno siano originati dall’eccesiva semplificazione che ha separato le singole parti dal tutto.

Adesso è arrivato il momento di puntare decisamente sull’obiettivo della sostenibilità.  Tale obiettivo si può raggiungere solo se si innesta sul pensiero complesso. Bisogna spingere la politica a pensare diversamente e a rifuggire dalle semplificazioni per concepire l’agire umano, politico e sociale dentro l’appartenenza comune a un intreccio globale di interdipendenze (“tutto è connesso”) come l’unica possibilità per poter garantire e realizzare la qualità del vivere per l’intera umanità.

Il tema della sostenibilità economica e ambientale deve avere al centro la dignità della persona umana, il suo rispetto, il rifiuto di ogni manipolazione che li privi della loro soggettività. In questa direzione bisogna attrezzarsi per smantellare le “bugie” verdi e tecnologiche. “Bugie verdi” come quelle diffuse da certe aree dell’ambientalismo che lavorano alacremente alla creazione di riserve natural-ambientali realizzate a danno delle popolazioni indigene costrette ad abbandonare i luoghi della loro sopravvivenza e della loro cultura.

Le indicazioni avanzate da Papa Francesco con l’esortazione Querida Amazonia propongono un’idea di sostenibilità che ci invita ad uscire dai confini dell’occidente industrializzato per incarnarsi nell’Amazzonia, fino a chiede di donare alla Chiesa “nuovi volti con tratti amazzonici”. L’Amazzonia, polmone verde del Pianeta, diventa pertanto la metafora concreta di un nuovo paradigma di sostenibilità incarnata nella dimensione umana. Una sostenibilità   che non sia mai disgiunta dall’impegno a realizzare “i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa”. Che “difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana”.

L’idea che vadano implementate tecnologie verdi è diventato il motivo ricorrente in tutti i discorsi politici ed economici. In pratica ci viene detto che bisogna cambiare per non cambiare nulla e che possiamo vivere come sempre se cambiamo le nostre fonti energetiche. Se passiamo dal carbone all’eolico e al solare, è fatta: il pianeta è salvo. Avendo una visione creaturale del pianeta e dell’intero universo, sappiamo che tutto è stato creato per l’uomo ed è per questo che Dio vide che era buono.

Se davvero vogliamo salvaguardare il creato ci dobbiamo porre con maggior rigore il tema dell’”impronta ecologica”, ovvero misurare il consumo da parte degli esseri umani delle risorse naturali che produce la terra. Nello specifico, l’impronta ecologica misura in ettari le aree biologiche produttive del pianeta Terra, compresi i mari, necessarie per rigenerare le risorse consumate dall’uomo. In poche parole, l’“impronta ecologica” ci dice di quanti “pianeta Terra” abbiamo bisogno per conservare l’attuale livello di consumo di risorse naturali. Si parla di tecnologie verdi ed è un bene, ma occorre anche discutere di come eliminare lo sfruttamento del lavoro minorile e del lavoro forzato usati, in alcuni casi, per le nuove tecnologie verdi. I bimbi piccoli che scavano cobalto in Congo, le crescenti disuguaglianze che alimentano il sovraconsumo. Che dire della quantità dei nostri consumi rispetto ai consumi delle popolazioni povere?

Abbiamo bisogno di nuove narrazioni antropologiche.  Soprattutto oggi che la nozione di uomo è sottoposta a riformulazioni (trans-umanesimo e post-umanesimo) da parte dell’economico e delle nuove tecnologie e anche perché siamo socialmente collocati in una situazione di post-crescita. Tutte le volte che si parla di sostenibilità scattano meccanismi ideologici, mentre invece dovremmo utilizzare le conoscenze specifiche della scienza economica per un approccio costruttivo alla sostenibilità e alla realtà post-crescita. Il percorso post-crescita non deve apparire come una minaccia ma essere progettato positivamente con strumenti e misure adeguate, in pratica bisogna passare dalla crescita allo sviluppo integrale di cui parlava già Paolo VI nella Populorum Progressio.

Mi sono convinto che la sostenibilità passa attraverso l’autolimitazione umana e che questa sia oggi una risposta ragionevole alla violazione dei confini planetari, e questo è un compito per la politica e per le forze sociali. Non basta fare battaglie contro l’uso degli idrocarburi, procedere sul terreno della decarbonizzazione, limitare l’inquinamento e non pensare a una modifica delle logiche del consumo. Produrre più carme si dice che sia uno dei massimi fattori di inquinamento e pertanto bisognerebbe autolimitare il consumo di carne. Ma chi di noi si è avventurato su questa pista?

Ma credo che questo diventi possibile se in modo laico e senza richiami ascetici, si collega il tema della sostenibilità alla dimensione spirituale dell’essere umano. Il materialismo economicista di stampo neoliberale e marxista, negando la dimensione trascendente dell’uomo ha portato a un immanentismo consumista che consuma l’umanità e il pianeta. Anche una idea disincarnata della spiritualità e la sua separazione dalla carnalità, ha generato spazi vuoti che sono stati riempiti dalla dimensione pervasiva del consumo.

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