In questo libro, scritto con il giornalista Giuseppe Carrisi, Padre Mosè (Abba Mussie) racconta la sua vita mescolandola al destino dei migranti in fuga da guerra, fame e violenza. Un racconto dettagliato che ci consente di allargare la nostra visuale su molti drammi migratori dei nostri tempi. Un ibro che scuote le coscienze, emoziona e fa riflettere…

In  questo libro, scritto con il giornalista Giuseppe Carrisi, il sacerdote eritreo padre Mosè (Abba Mussie)  racconta la sua vita mescolandola al destino dell’umanità di migranti in fuga da guerra, fame e violenza. Il racconto è dettagliato, tuttavia oltre alla biografia dell’autore che si fonde alla politica e alla cronaca degli ultimi anni, il libro ha un respiro più ampio che scuote le coscienze ed emoziona e fa riflettere ogni giorno.

Mussie Zerai, tra i disperati che fuggono, è un’autorità. Già prima di diventare sacerdote nel 2010 (sull’esempio di Giovanni Battista Scalabrini, beatificato nel 1997 con il titolo di Padre dei migranti), ha iniziato ad assistere migranti ed emarginati in modo più sistematico, nella convinzione che “non ci può essere pace senza giustizia, non ci può essere pace senza diritti” (p.178). Nel libro l’autore rievoca le stragi in mare, dalle prime alle più recenti, parla di tratta di uomini, di diritti violati, di un Mediterraneo divenuto cimitero e di un’Africa depredata e dilaniata. Mentre scrive che “chi è disperato non si fermerà di fronte a nessun muro”(p.78).

Arrivato da Asmara in Italia nel 1992, a 17 anni, per scappare dal regime eritreo, Mussie Zerai ha lavorato al mercato, poi ai semafori come venditore di giornali, infine come receptionist in una clinica e come guardarobiere in un teatro parrocchiale. E mentre cercava di costruire il proprio futuro ha iniziato ad aiutare altri immigrati, meno fortunati di lui. Da quel 10 marzo 2004, giorno in cui ricevette la prima telefonata di sos dal mare, il suo telefono è sempre rimasto acceso, tanto da essere diventato ormai l’estremo appiglio a cui aggrapparsi. Quel numero di cellulare non è un numero di cellulare qualunque. Continua a essere scritto a penna sulle magliette, inciso nell’interno delle stive e delle carceri, c’è chi lo pronuncia in un ultimo afflato di speranza e chi lo chiama dai lager libici, dalle prigioni egiziane, le famiglie che non hanno più notizie dei loro cari o dai campi profughi del Sudan.

Nel 2006 Don Mussie Zerai ha fondato l’agenzia non profit “Habeshia”, dal nome della zona tra Eritrea ed Etiopia da cui provengono i profughi. Diventare attivista per i diritti umani è stato lo sbocco naturale della sua vita, grazie anche agli studi compiuti: Filosofia a Piacenza, dal 2000 al 2003, Teologia nei cinque anni successivi e poi Morale sociale presso l’Università Pontifica Urbaniana fino al 2010, quando è stato ordinato sacerdote. Già da piccolo manifestava l’intenzione di diventare prete.

Don Mussie Zerai – candidato al Nobel per la Pace nel 2015, inserito dal Time tra le 100 personalità più influenti del 2016 nella categoria “Pionieri”, a settembre 2016 è stato invitato a presentare la sua proposta nel Summit dell’ONU sull’emergenza migranti.

La sua voce, come la sua volontà, è molto ferma: “L’Onu, l’Europa e le altre istituzioni nazionali e internazionali violano i diritti dei migranti. La politica di Bruxelles è quella di arginare i flussi migratori attraverso accordi bilaterali con i vari paesi di transito, senza preoccuparsi delle modalità con cui queste persone vengono fermate. Sono anni che l’Europa costruisce muri e non ponti per affrontare la tragedia dei profughi”(p.18).

Mussie Zerai, Giuseppe Carrisi, Padre Mosè. Nel viaggio della disperazione il suo numero di telefono è l’ultima speranza, Giunti, Firenze 2017.

Citazioni

“È un dramma che si aggiunge al dramma, ma di fronte a tutto questo si preferisce continuare a gestire l’emergenza, invece che affrontare le cause delle migrazioni. Si ragiona sempre e solo in termini di ordine pubblico e sicurezza, invece di parlare di diritti ed economia” (P. 37).

“È da quando ho cominciato a occuparmi di migranti che, ogni giorno, mi chiedo: perché succede tutto questo? E la risposta è stata sempre la stessa: perché qualcuno – sul piano politico – non ha fatto il suo dovere. Se quei disperati avessero potuto raggiungere l’Europa per vie legali e sicure, senza essere costretti ad affidarsi ai mercanti di morte, non
rnavrebbero terminato i loro giorni in fondo al mare” (P. 101).

“Quello che si chiede all’Africa è di morire in silenzio, senza fare rumore, lontano dalla vista dei cittadini europei: non sia mai che si turbino e venga loro in mente di fare azione umanitaria” (P. 13).

“I giovani sono ben informati dei rischi. Quando andiamo nei campi profughi in Etiopia e facciamo vedere le immagini atroci di ciò che accade durante il viaggio ci rispondono: ‘bene, questi sono i pericoli, ma quale alternativa ci proponete? Tra morire lentamente qui e tentare la fortuna preferiamo tentare la fortuna’” (P.164).

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