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“La ricerca del bene comune passa in gran parte attraverso la costruzione di istituzioni mirate a conciliare il più possibile l’interesse individuale e l’interesse collettivo”

E’ nella natura della stragrande maggioranza degli esseri umani desiderare di sentirsi utili alla società e non un peso (p. 68)

Ciononostante, il mercato presenta numerosi difetti e il mio libro intende trattare delle molte «carenze del mercato» (p. 169)

La disuguaglianza è costosa per due ragioni, connesse alla giustizia e all’efficienza (p. 172)

La responsabilizzazione dell’azione politica è complessa (p. 175)

L’economia è la scienza dei mezzi e delle soluzioni, non quella delle finalità (p. 177)

Come ho detto, lo stato delle attuali conoscenze, in particolare il carattere limitato dei dati che ci aiuterebbero a calibrare con precisione i requisiti di capitale e liquidità, devono indurci all’umiltà (p. 371)

Queste breve citazioni sono indicative dell’intenzione dell’autore Jean Tirole, nato nel 1953 e premio nobel per l’economia nel 2014, per cui il ponderoso volume vuole essere una specie di summa per illustrare come l’economia non possa essere una scienza a sé, ma debba necessariamente inserirsi in un contesto culturale di scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia, geografia, ecc.) per poter essere veramente al servizio del bene comune.

L’autore ha come faro guida della sua ricerca il bene comune: «La ricerca del bene comune passa in gran parte attraverso la costruzione di istituzioni mirate a conciliare il più possibile l’interesse individuale e l’interesse collettivo. In una prospettiva del genere, l’economia di mercato non è affatto una finalità. E’ al più uno strumento; di più uno strumento alquanto imperfetto, se teniamo conto della possibile fra l’interesse privato degli individui, dei gruppi sociali e delle nazioni, e l’interesse generale» (p. 5)

Il volume si divide in 5 parti tra loro correlate che illustrano i molteplici aspetti della vita dell’uomo che ricadono sotto il dominio della “scienza economica”.

Tirole è convinto che l’economia sia una scienza imperfetta e che molto ancora resta da scoprire di come funzionano i meccanismi che la regolano.

Il modello dell’homo oeconomicus, per cui in modo semplificato si suppone che «i decisori sono razionali e dunque agiscono al meglio del proprio interesse in base al grado d’informazione di cui dispongono (l’economia insiste comunque sull’idea che tale informazione possa essere frammentaria o manipolata)» (p. 132) è insufficiente per comprendere l’agire delle persone, che sono mosse, secondo l’autore, anche da altre motivazioni.

Jean Tirole, infatti, ha studiato in modo particolare, utilizzando la teoria dei giochi, le motivazioni che spingono ad agire le persone e ritiene che le persone non sempre agiscano in modo razionale, cioè secondo un interesse egoistico, ma a volte hanno comportamenti altruistici. Inoltre ha constatato come la custodia dell’immagine pubblica di sé incida in modo considerevole nella formazione delle scelte economiche.

Queste “motivazioni molteplici” rompono anche lo schema concettuale degli incentivi, utilizzato spesso in microeconomia, per favorire alcune scelte piuttosto che altre.

L’economista è poi convinto che molte delle disfunzioni dell’economia dipendano da una cattiva o scarsa regolamentazione in vista del bene comune. La crisi del 2008 è stata causata da tre fattori: asimmetria dell’informazione, regolazioni inadeguate e lassismo nella loro applicazione, contesto favorevole all’assunzione di rischio (cfr. pp. 348-349).

Il libro è frutto di una grande esperienza e l’autore riconosce anche i propri limiti di conoscenza specifica in ambiti che ritiene importanti ma che non ha approfondito. La prosa è piacevole, i toni non sono apocalittici, anche se le critiche sono severe. Ci sono numerosi riferimenti alla situazione francese, che aiutano a comprendere i problemi specifici di quel paese. I singoli capitoli sono pressoché autonomi ed esaustivi degli aspetti trattati, tutti seguendo il faro della costruzione del bene comune. E già questo sposta di parecchio la visione d’insieme dell’economia e del suo ruolo per la vita dei singoli e dei popoli.

Di seguito una piccola sintesi dell’indice del volume.

La prima parte è di impostazione di che cosa sia l’economia e il mercato, la loro funzione e i loro limiti. La seconda illustra i vari problemi etici che un ricercatore economico deve affrontare nel suo lavoro universitario a causa delle pressioni che riceve sia a livello accademico, che di presentazione delle sue ricerche che di finanziamento mantenendo la sua libertà.

La terza parte affronta la funzione dello stato e la governance dell’impresa in relazione con il bene comune. La quarta si occupa delle grandi sfide economiche: clima, disoccupazione, il futuro dell’Europa, il ruolo della finanza, la crisi del 2008.

La quinta parte si focalizza sul ruolo dell’impresa nei suoi vari aspetti: concorrenza e politica industriale, il digitale che crea valore e le sfide sociali, l’innovazione e la proprietà intellettuale, la regolazione settoriale.

 

Jean Tirole, Economia del bene comune, Mondadori, Milano 2017 (or. Francese 2016).

 

Citazioni

“L’essere umano non va continuamente alla ricerca del proprio interesse materiale” (p. 5).

“L’economia non è né al servizio della proprietà privata e degli interessi individuali, né al servizio di chi vorrebbe utilizzare lo Stato per imporre i propri valori e far prevalere i propri interessi. L’economia ricusa il tutto-mercato così come ricusa il tutto-Stato. Perché è al servizio del bene comune. E perché il suo obiettivo è rendere il mondo migliore” (p. 7).

“Il filo rosso del libro – che pure si snoda attorno a temi che a tutti risultano familiari – è nondimeno rappresentato da un concetto da cui molti lettori sono sicuramente digiuni o quasi: la teoria dell’informazione, ovvero il più importante passo in avanti compiuto dall’economia negli ultimi quant’anni” (p. 14).

“Quella dell’informazione è una questione centrale, intrinseca alla costruzione stessa delle nostre istituzioni e alle nostre scelte di politica economica. Intrinseca all’economia del bene comune” (p. 15).

“In genere non abbiamo coscienza dei fenomeni di sollecitazione, di sostituzione o di rinvii specifici che sono inerenti al funzionamento dei mercati; non afferriamo i problemi nella loro globalità” (p. 23).

“Una questione di fondo delle nostre società è la gestione della scarsità, quella dei beni e dei servizi che tutti vogliono consumare o possedere […] La società può diminuire la scarsità – aumentando l’efficienza produttiva, con l’innovazione o il commercio –, ma deve anche gestirla in tempo reale, giorno per giorno, cosa che può fare più o meno bene” (p. 27).

“Certi metodi di allocazione dei beni, come la corruzione, il favoritismo, la violenza e la guerra, sono profondamente iniqui. Ma sono anche inefficaci, se si considerano i costi pagati o imposti dagli attori alla ricerca di una loro rendita, spinti dall’idea di mettere le mani su determinate risorse senza pagarne il prezzo” (p. 28).

“L’informazione è al cuore dell’allocazione delle risorse” (p. 31).

“La stragrande maggioranza degli economisti è, per le ragioni sopra enunciate, favorevole al mercato, che nondimeno vedono come un semplice mezzo e mai come un fine in sé” (p. 41).

“Il mercato rende anonime le relazioni. La sua funzione, dopotutto, è proprio questa […] Ma è anche vero che il mercato permette di estendere la cerchia delle interazioni […] il mercato ci insegna a interagire con chi è straniero e a conoscerlo” (p. 55).

“Seabright osserva che, anziché far leva unicamente sull’egoismo dei suoi partecipanti, il mercato chiede loro anche una grande capacità di creare fiducia […] Il mercato resta comunque un luogo di competizione e di collaborazione, e l’equilibrio tra le due forme è sempre delicato” (pp. 56-57).

“Il mercato a volte fa anche da capro espiatorio per la nostra stessa ipocrisia. Senza di per sé rafforzare né indebolire i nostri vincoli sociali, è uno specchio dell’anima, dunque un rivelatore che rende esplicite realtà della nostra società o risvolti di aspirazioni e inclinazioni che avremmo preferito nascondere non solo agli altri ma anche a noi stessi” (p. 57).

“Occorre rifondare il nostro sistema fiscale per meglio distinguere tra creazione di valore e rendita, anche se, nella pratica, non è sempre facile arrivare a tali distinzioni del genere” (p. 62).

“La verità è che, empiricamente, non sappiamo gran ché sul nesso tra merito e successo economico in paesi differenti tra loro, e il nocciolo della questione sta proprio qui: la mancanza di informazione lascia libero corso alle opinioni più diverse” (p. 66).

“La valutazione etica condiziona fortemente le nostre politiche di redistribuzione e più in generale le nostre politiche economiche” (p. 67).

“La domanda di dignità è particolarmente importante. E’ nella natura della stragrande maggioranza degli esseri umani desiderare di sentirsi utili alla società e non un peso. Per esempio, nella loro legittima richiesta di solidarietà, da parte della società, i disabili chiedono qualcosa di più del denaro; chiedono anche di poter lavorare” (pp. 68-69).

“Stiamo assistendo a una progressiva riunificazione delle scienze sociali. Sarà una riunificazione lenta ma ineluttabile: antropologi, economisti, storici, giuristi, filosofi, politologi, psicologi e sociologi si interessano alle stesse persone, agli stessi gruppi e alle stesse società. La convergenza che è esistita fino alla fine del XIX secolo deve essere ristabilita, e richiederà alle varie comunità scientifiche un impegno ad aprirsi alle tecniche e alle idee delle altre discipline” (p. 163).

“Per evitare ogni tipo di crisi, bisognerebbe impedire qualsiasi presa di rischio e qualsiasi innovazione, e vivere nel breve termine anziché sul lungo termine, più a rischio perché più incerto. L’obiettivo non è dunque l’eliminazione completa delle crisi, bensì il contenimento degli incentivi che incoraggiano gli attori economici a adottare comportamenti nocivi per il resto dell’economia. Il che implica, in particolare, la necessità di eliminare le «esternalità» esercitate dal sistema finanziario su risparmiatori e contribuenti” (p. 362).

“Proprio come per le epidemie e i terremoti, è difficile prevedere le crisi finanziarie, ma è possibile identificare il terreno su cui potrebbero manifestarsi. I dati finanziari sono molto imperfetti, e il mondo è in continuo cambiamento, per cui esisteranno sempre grosse incertezze sulla portata degli effetti che ne deriveranno; per non parlare dei «fenomeni autoavveranti» di panico bancario, per definizione imprevedibili in quanto fondati sulla «emotività degli investitori» (investor sentiment), per riprendere l’espressione di Keynes” (p. 375).

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