Un viaggio nell’Italia che paga ogni giorno il peso delle disuguaglianze; un’analisi, numeri alla mano, che vuole farsi anche progetto politico. Un invito alla riflessione personale e collettiva che dovrebbe generare voglia di partecipazione attiva al dibattito pubblico. Voglia di cambiare: per rendere il nostro paese più giusto, solidale ed efficiente

Un viaggio nell’Italia che paga ogni giorno il peso delle disuguaglianze. Un’analisi, numeri alla mano, che vuole farsi anche progetto politico. “Un invito alla riflessione personale e collettiva; una riflessione che dovrebbe generare voglia di partecipazione attiva al dibattito pubblico” (p.20).

Questo pregevole libro mostra con molta chiarezza come “le disuguaglianze deprimono l’economia e acuiscono lo scontro sociale” (p. 24) descrivendo cinque ambiti da cui partire per riformare il paese, individuando come e dove reperire risorse per avviare ‘l’agenda dell’uguaglianza’ e mostrando l’esistenza di una ‘coalizione maggioritaria di elettori’ che avrebbero tutto l’interesse a sposare questo progetto.

A questo lavoro di Emanuele Ferragina – prima del dibattito sollevato dalle proposte dell’economista Thomas Piketty – va dato il merito di aver riportato nel dibattito pubblico italiano il tema della disuguaglianza. Un tema che oggi appare sempre più irrinunciabile, sempre più centrale per la tenuta sociale dell’Italia ma anche per il suo sviluppo.

Il libro cerca di dimostrare questa tesi di fondo: ridurre le disuguaglianze non è semplicemente una questione morale o ideologica, ma un modo per risolvere i problemi socioeconomici del Paese e farlo ripartire. Siamo in sostanza di fronte ad una sfida, ad “un’occasione storica: ridistribuire, per rendere il sistema più efficiente e accrescere la coesione sociale” (p. 24). L’autore propone cinque riforme molto concrete che potrebbero indirizzare l’Italia verso una strada diversa da quella attuale rendendola più equa, giusta, vivibile e funzionale.

La prima riguarda gli ordini professionali. Nati, in teoria, per tutelare il consumatore, gli ordini professionali sono diventati uno strumento di autotutela di un gruppo di privilegiati che ostacola l’accesso al mondo del lavoro a milioni di giovani. Ferragina fa una analisi dettagliata del funzionamento degli ordini, dai discutibili criteri d’accesso ad essi al regolamento che riduce ingiustamente la concorrenza fino alle disparità nel tasso di superamento degli esami di accesso tra le diverse regioni italiane. Il carattere lobbistico degli ordini non solo non tutela il consumatore, ma scoraggia i giovani nel tentativo di accedervi.

La seconda riforma da attuare è quella del sistema pensionistico. L’autore parla di “ridurre la spesa per il passato” (le pensioni), e di “accrescere quella per il futuro” (aiuto ai giovani, disoccupati, donne, immigrati). E mostra, con l’aiuto di alcuni dati, come il welfare italiano sia sbilanciato: la spesa sociale italiana è più o meno simile a quella degli altri Stati europei. Tuttavia, più della metà della spesa sociale viene utilizzata per le pensioni. La conseguenza è che restano poche risorse per le politiche familiari e del lavoro. Non si tratta quindi di trasferire risorse dalle tasche di un anziano che si è meritatamente guadagnato la sua pensione a un giovane disoccupato, ma di riformare il sistema pensionistico basato su privilegi garantiti ad una ristretta minoranza.

La terza area di intervento riguarda le politiche sul lavoro, con particolare riferimento agli ammortizzatori sociali contro la disoccupazione. Ferragina critica duramente i contenuti del dibattito pubblico italiano, che limitandosi all’articolo 18 o altri temi marginali, produce un inutile scontro tra partiti, governo e sindacati che impedisce una discussione seria su come riformare il mercato del lavoro. L’autore individua due problemi principali da affrontare: “il dualismo (e con esso la mancanza di protezione per i lavoratori precari) e la necessità di rendere il sistema più trasparente e veloce, eliminando tutti i vincoli e gli intoppi burocratici che ostacolano le imprese e non proteggono i lavoratori” (p. 112). Propone di introdurre un reddito minimo garantito affiancato da un sussidio universale di disoccupazione. Queste due misure dovrebbero essere accompagnate dalla creazione di centri di formazione specializzati che aiutino i disoccupati a trovare un nuovo lavoro.

Il quarto ambito di intervento è quello teso ad accrescere la coesione sociale. In Italia il livello di fiducia dei cittadini verso le istituzioni è molto basso: in un contesto di questo tipo è molto difficile combattere l’inefficienza del sistema. La mancanza di coesione sociale, solidarietà, e il crescente individualismo sono direttamente correlati alle disuguaglianze profonde e radicate nel Paese. L’autore si sofferma in particolare sul Sud Italia osservando come la “questione meridionale” debba essere affrontata attraverso un forte processo di ridistribuzione teso a ridurre le disuguaglianze che consenta finalmente di “abbandonare l’immagine di immutabile stabilità e assenza di partecipazione civica che caratterizza il Mezzogiorno” (p. 211). In sostanza i problemi strutturali del Sud – scarsa partecipazione civica, familismo, poca coesione sociale – sono direttamente collegati ad un elevato livello di disuguaglianza e non a una condizione culturale ed antropologica intrinseca agli abitanti delle regioni meridionali.

L’ultima  area di azione riguarda  la riforma complessiva dello struttura dello Stato. Ferragina individua nel federalismo solidale, una possibile strada “per permettere alle zone più deboli del paese di esprimere ed accrescere la propria efficienza” (p. 190), grazie alla sua capacità di coniugare la sussidiarietà (che consente di decentrare i processi decisionali) con la solidarietà (che consente di ridistribuzione le risorse dalle aree più ricche a quelle più povere). Allo Stato resterebbe il ruolo principale di allocare le risorse in base alle necessità delle varie regioni, in modo da evitare l’aumento delle disuguaglianze tra le varie aree del Paese.

Secondo l’autore è possibile trovare le coperture economiche per attuare questo piano di riforme attraverso due processi di ridistribuzione: il ribilanciamento della spesa sociale; una maggiore tassazione delle rendite finanziarie e dei patrimoni e minore tassazione del lavoro.

Ferragina avanza, in sostanza, una proposta sociale e politica, quella dell’agenda per l’uguaglianza, che potrebbe essere portata avanti da una “coalizione potenziale” di 25 milioni di votanti (più del 50% per cento degli elettori): i pensionati che guadagnano meno di mille euro al mese; i disoccupati, i lavoratori precari e i lavoratori in nero; chi guadagna meno di 1200 euro al mese. Una maggioranza invisibile che potrebbe davvero cambiare le cose.

Una coalizione maggioritaria che non esiste solo in Italia ma anche in altri grandi paesi europei. L’agenda redistributiva potrebbe diventare, con vari correttivi nazionali, un programma a livello continentale per federare tutte le forze progressiste, partendo da chi oggi è più debole.

Emanuele Ferragina, Chi troppo chi niente, Rizzoli, Milano 2013.


Citazioni

“Chi parla di uguaglianza oggi, anche quei partiti o gruppi che si dichiarano più sensibili al tema, lo fa ormai incidentalmente e senza uno straccio d’analisi, quasi con stanchezza, trasformandola spesso in un ‘rimpianto’ della storia’: qualcosa che poteva essere e non è stato” (pp. 5-6).

“In un paese in cui le disuguaglianze galoppano in molti settori della vita sociale ed economica ma non c’è crescita da più di un decennio, ridistribuire la ricchezza e le opportunità non costituirebbe un ostacolo allo sviluppo economico, ma significherebbe accrescere invece la coesione sociale e l’efficienza del sistema-paese” (p. 12).

“Se l’Italia vuole davvero avviare un processo di redistribuzione deve portare avanti, assieme alle riforme a livello nazionale delineate in questo libro, anche una strategia concertata con tutti gli altri paesi europei per tassare profitti e rendite a vantaggio della collettività. Abbiamo scelto, invece, politiche di ‘austerità competitiva’, che sono volte a ridurre il costo del lavoro e gli oneri del welfare state per limitare il debito pubblico” (pp. 14-15).

“Il lavoro è un campo di battaglia politica troppo importante per lasciarlo ancorato alle secche ideologiche dell’articolo 18 e dei licenziamenti facili. Occorre avere il coraggio di riformare il mercato del lavoro, garantendo una protezione sociale universale contro il rischio di disoccupazione, per fornire una speranza concreta di sviluppo sociale ed economico e per migliorare la qualità delle nostra democrazia” (p. 113).

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