Il capitalismo rischia di consegnare alla distruzione la civiltà occidentale che l’ha fatto nascere: dai confini statali alla politica.  Il capitalismo è una degenerazione: il perverso gioco del libero e insoddisfatto accumulo. Non si tratta di essere o meno anticapitalisti ma di recuperare una visione del capitale come  bene, esercizio di talento, coraggio, solidarietà, intelligenza. Quando si separa dalla comunità, il capitale si trasforma nel capitalismo, nella mistica di un sé egotico e privo di relazione.

Non sono sicuro di averlo capito tutto. Però ho sinceramente gustato la parte che ho afferrato. È apprezzabile l’approccio (che spazia da Sombart a Paul McCartney, da Zhu Ronggji a Tocqueville, da Geronimo a Van Rompuy), lo stile (aforistico e affermativo, mai allusivo), l’intelligenza dei collegamenti (tra il capitalismo e la lussuria, tra la Cina e la superficie, tra il logos e l’Europa). Ho apprezzato anche molte osservazioni: tante conclusioni mi hanno fatto riflettere. Quindi tutto bene? Non sono sicuro neppure di questo.

L’autore si dichiara anticapitalista, convinto che solo un’anarchia ben pensata (e perciò lontanissima dal comunismo) possa salvarci dal capitalismo. Il capitalismo è valutato non solo sul piano tecnico ma, più a fondo, su quello antropologico, che si manifesta attraverso l’invidia: il capitalismo prospera vendendo a ciascuno la sua invidia. Ma all’invidia individuale del capitalismo solo apparentemente si oppone un certo anticapitalismo di maniera, interpretato da qualche ricca rockstar che si spaccia attraverso concerti benefici e qualche “finto eroe” come Che Guevara… Ecco, quel tipo di anticapitalismo non è affatto l’antitesi, ma la sintesi, la variante plurale del capitalismo stesso, dove l’invidia, da fatto personale, diventa fatto politicamente organizzato. Il capitalismo riduce tutto a calcolo del piacere (lussureggiante) o della paura (cattiva come ogni timidezza), confina con entrambe queste pulsioni d’insoddisfazione senza requie.

Il capitalismo equalizza tutto: appiattisce. Anche la cultura segue la stessa sorte: si omologa, sembra fondata sulla libertà di opinione ma, in realtà, questo “contenitore” è privato dalla qualità della parola, che si distrugge, come attraverso il “taglia e incolla” di internet. Il capitalismo è dunque degenerazione. Ma in primo luogo è degenerazione del capitale, è la sua perversione in gioco del libero e insoddisfatto accumulo. Un accumulo che non può riconoscere il dono come atto economico, se non derubricandolo a fatto morale. Mentre il dono – non quello obbligato dallo Stato, ma quello spontaneo delle comunità e delle famiglie e, forse, delle imprese – è parte essenziale del ciclo economico.

L’autore propugna “il ritorno a un’epica di mitezza operosa di cui il capitale è nesso di tempo cooperante […] che asseconda la fraternità del lavoro, ovvero l’economia sostanziale, ecco il capitale in quanto epica che svolge un destino fraterno nel fare comune”. Il capitale richiede talento, coraggio, solidarietà, intelligenza… Se si separa dalla comunità – impresa compresa – il capitale (il bene) si trasforma nel capitalismo (il peggio), nella mistica di un sé egotico e privo di relazione, dunque di realtà, perché la realtà è fatta di connessioni. Una realtà autocentrata è irrealtà, per qualcuno sarà sogno (piacere), per molti di più sarà invece incubo (paura).

Il capitalismo rischia di consegnare alla distruzione anche la civiltà occidentale che l’ha fatto nascere: dai confini statali alla politica in sé, che copia le stesse dinamiche pulsionali e pertanto prive di relazione e di senso del tempo. Come già detto, non saranno certo le forze stataliste che in questo momento si dichiarano contro il capitalismo a salvarci. Anzi. Chissà se – invece – quel riferimento nelle pagine finali ad Adriano Olivetti non porti con sé un’ipotesi di direzione legata all’idea di comunità: certamente il pensiero dovrà essere molto meno organico di quello (de)scritto dal filosofo imprenditore.

Ma ci fermiamo qui. Ho tralasciato tutta la parte sulla Cina (che invece sarebbe essenziale), ma mi interessava di più la prospettiva, e quanto scritto è tutto quello che mi pare di avere capito. Se non vi fidate, leggetevelo: non ve ne pentirete. Anche se, come mi è capitato, non sarete del tutto d’accordo, apprezzerete comunque l’assenza di ipocrisia, pur in qualche passaggio un po’ retorico o non del tutto convincente o dimostrabile. Nota finale sulla simpatica copertina, dove appare il vice premier cinese Wang Qishan con la palla da basket, guarda verso un ipotetico canestro, e il presidente americano Obama che, a fianco, gesticola spiegando come si tira. Strepitosa immagine dell’impotenza occidentale, ridotta a fare teoria in giacca e cravatta, perché invece la palla ce l’hanno gli altri…

Geminello Alvi, Il capitalismo. Verso l’ideale cinese, Marsilio, Venezia 2011.

Citazioni

“Tutti vogliono diventare diversi, ma invece si ritrovano sempre più uguali: ecco il talento delle vendite: equalizzare ma con promessa d’esclusiva”.

“Il male non è nel capitale, ma nel capitalismo. Dal che si deduce che in economia ci si può occupare solo dei rimedi per evitare che il capitalismo nuoccia al capitale, e lo induca ai suoi vizi esiziali”.

“I fondamenti di un’economia diversa dal capitalismo, e non anticapitalista, sono il dono, e una minore crescita.[…] Il male, se conosciuto, diminuisce; il bene invece conosciuto s’accresce. Ai buoni basta poco”.

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