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Nel dibattito sul valzer dei dati economici estivi si discute di recessione, timida ripresa e si avanzano dubbi se la stessa sia a V o a W (la recessione e la ripresa seguite da un altro calo e un altro recupero). In altri termini, dobbiamo aspettarci un nuovo periodo di recessione prima di una ripresa più robusta? Guardando direttamente alla vita socioeconomica del paese e non ai dati giorno per giorno credo si debba piuttosto introdurre il concetto di ridimensionamento.

Mai come quest’anno – e in fondo ad una certa distanza dal momento più acuto della crisi, addirittura in coincidenza dei primi avvisi di ripresa – gli italiani sembrano aver subito il colpo. Chiunque si trovi in una località turistica italiana e possa fare un confronto con gli anni precedenti ha immediata contezza del dato del CENSIS sul numero di italiani che non è andato in vacanza. Nessuna traccia di quel pienone e di quell’euforia isterica che trasformavano in sudate conquiste attività elementari come una cena la ristorante, costringendo a studiare strategie di sopravvivenza del tutto simili a quelle poste in atto nel resto dell’anno nelle grandi città. Non era mai capitato in passato trovare alberghi con presenze più che dimezzate e ristoranti desolatamente vuoti in un sabato di Agosto. Un dato inequivocabile – se escludiamo le città d’arte più note come Firenze, Roma, Venezia che godono della crescita del PIL mondiale e dell’aumento della classe media e della domanda turistica in tutti i paesi del mondo in crescita – è la sparizione delle code e di quella corsa alla spesa e al consumo “spensierato” che rendeva difficilmente accessibili in alta stagione molte località ambite.

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L’euforia c’è ma è altrove e dobbiamo rassegnarci al nostro nuovo ruolo di ultimo anello della catena. Nell’ultimo decennio i leader della crescita sono stati Cina, India, Brasile, ma si sono distinti anche l’Africa che, come continente, è cresciuta stabilmente a tassi attorno al 5 percento e paesi OCSE come Australia e Nuova Zelanda con ottime performance perché legati alle materie prime o al ciclo economico asiatico. L’Europa è il fanalino di coda e all’interno dell’Europa dei 27 noi siamo gli ultimi con un tasso di crescita del PIL medio annuo negli ultimi dieci anni attorno allo zero contro una media superiore all’1 percento dei 27 e le punte superiori al 5 percento della Bulgaria. Insomma nell’ultimo decennio la decrescita in Italia non è stata un’ipotesi intellettuale ma la realtà dei fatti e il nostro paese ha rappresentato l’esempio modello della teoria della convergenza che predice che i paesi più poveri riducono il loro gap con i paesi a più alto tenore di vita crescendo ad una velocità maggiore dei secondi.
Per qualche tempo l’Italia è stata come Willy Coyote protagonista con Beep Beep dei famosi cartoni della Warner Bros, riuscendo a rimanere sospesa sul vuoto senza precipitare. Attingendo a livelli di risparmio e di ricchezza che ci pongono tra i primi in Europa e nel mondo siamo rimasti sospesi nel vuoto e, paradossalmente, abbiamo iniziato a precipitare (il ridimensionamento) proprio quando si affacciano all’orizzonte timidi segnali di ripresa. La spiegazione di questo apparente paradosso è che tutte le riprese, dopo le gravi crisi come quella finanziaria che ha colpito tutto il mondo, si portano dietro la memoria delle ferite pregresse e sono, nella prima fase, jobless, ovvero senza crescita di occupati. Le imprese non si fidano ancora, partono da capacità produttiva in eccesso e preferiscono aumentare la produzione prima di prendere scelte più costose e meno reversibili come quella di assumere nuova manodopera. Inoltre, sia le imprese che i consumatori non vedono ancora chiaro in termini di orizzonti futuri. Pesano il rischio di nuove ricadute, le incertezze profonde legate all’onere del debito pubblico nazionale e regionale e i possibili nuovi sacrifici cui saremo chiamati per tenere in equilibrio la finanza pubblica, lo scenario di maggiore incertezza, flessibilità e precarietà del mercato del lavoro che è ormai un dato strutturale.
Come si esce dal ridimensionamento? Bisogna guardare ad un esempio culturalmente più vicino a noi come il modello tedesco che ha chiaramente dimostrato la propria superiorità rispetto a quello anglosassone. Da una parte grande capacità di export, politiche industriali in grado di sostenere la ricerca e accompagnare la penetrazione del sistema delle imprese nazionali nei nuovi ricchi mercati dei paesi emergenti, un modello di relazioni di compartecipazione tra capitale e lavoro che ha consentito di sfidare con successo la competizione sul costo del lavoro dei paesi emergenti. Assieme al tentativo, di successo, di trasformare la sfida del clima in un’opportunità, con il grande sviluppo dell’industria delle fonti di energia rinnovabili e al non aver mai ceduto alla tentazione di smettere di costruire una società “decente” in grado di creare benessere non solo per i primi della classe.
Cosa ci allontana da questo modello? Due elementi principali. L’incapacità di costruire relazioni compartecipate, e non conflittuali, tra capitale e lavoro e la difficoltà cronica di fare e rispettare programmi di lungo periodo e di rispettarli. Senza questo elemento fondamentale purtroppo i nostri colpi d’ala e la nostra ben nota flessibilità e capacità d’improvvisazione non sono più virtù ma vizi cronici che minano la nostra credibilità a livello internazionale. 
Paese dei campanili, faremo un salto di qualità quando riusciremo ad appassionarci a queste sfide di lungo periodo evitando di impiegare tutte le nostre energie nei tanti derby sportivi, politici e sociali di cui amiamo dibattere perdendo di vista l’interesse generale. La via maestra resta quella di creare uno stabile consenso bipartisan su alcuni fondamentali blindando le scelte economiche chiave e rendendole inattaccabili dalla rissosità di parte. Servono uomini politici in grado far prevalere la saggezza sopra gli interessi di parte; lasciando aperto il confronto su temi sensibili come la giustizia, su alcune scelte economiche di fondo (pensiamo ad esempio ai progetti per lo sviluppo delle infrastrutture nel Mezzogiorno, alla lotta all’evasione e al rigore di bilancio) si deve costruire un accordo tra maggioranza ed opposizione.
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