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In occasione di una visita del Presidente della Ferrari Luca Cordero di Montezemolo a Giovanni Paolo II nel 2004, il leader degli industriali italiani ebbe modo di presentare l’azienda che presiede con le stesse parole con le quali Karol Wojtyla, nella Centesimus annus, definì l’impresa: “una comunità di lavoro”.

Al di là della specifica circostanza, legata ad una particolare contingenza storica, data la difficile situazione economica in cui versano le economie nazionali a livello globale, tali parole invitano le realtà accademiche, imprenditoriali e religiose ad un’attenta riflessione sul modo in cui le peculiari visioni religiose giudicano e, in parte, condizionano il ruolo dell’imprenditore, la funzione dell’impresa e le dinamiche della libera economia di mercato.rn

In definitiva, e con particolare riferimento all’esperienza cattolica, l’idea d’impresa proposta da Giovanni Paolo II ci consente di intervenire su un tema fortemente dibattuto e di grande rilevanza economica, politica e culturale: il rapporto tra economia di mercato e religione. Sul versante cattolico possiamo contare su un ampio e consolidato spettro di studi che tentano da anni di interpretare il vasto sistema teorico fornito dalla Dottrina sociale della Chiesa. Più complesso e problematico è il discorso relativo al rapporto tra Islam ed economia di mercato.

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Nella Centesimus annus il papa afferma la legittimità pratica e morale del profitto: “La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda”. La nozione di profitto che informa le parole della Centesimus annus può essere espressa sotto forma di parametro indispensabile per la misurazione della soddisfazione del cliente, nell’ambito di un variegato contesto nel quale si confrontano e si articolano i valori, le fedi e le culture di tutti coloro che concorrono al buon esito del processo produttivo, coordinati da chi si assume il ragionevole rischio imprenditoriale di investire il proprio denaro, il proprio tempo e la propria reputazione per porre in essere un’organizzazione del lavoro produttivo: “quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati e i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti” (n. 35).

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La Centesimus annus, allora, esprime una tanto netta quanto condizionata preferenza per quella che Giovanni Paolo II chiama "l’economia d’impresa", "l’economia di mercato" o "economia libera" fondata sull’impresa, sul mercato, sulla libertà, sulla responsabilità, sulla creatività che caratterizzano l’agire umano, all’interno di una cornice legislativa che ne regoli e ne limiti la discrezionalità; il che collega la proposta della Dottrina sociale della Chiesa alla tradizione dell’economia sociale di mercato. In sintonia con lo spirito di questo filone di pensiero, le dinamiche economiche per Giovanni Paolo II non si svolgono nella nuda piazza, ma si realizzano sempre all’interno di un determinato contesto culturale. Il mercato, ad esempio, è limitato da un lato da un ordine giuridico e da dall’altro da istituzioni morali quali la famiglia e la Chiesa. Le istituzioni politiche, giuridiche e culturali interagiscono, influenzandosi a vicenda. È stata questa la lezione più significativa dell’economista tedesco Wilhelm Röpke.

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La tradizione islamica non ha prodotto un corpus dottrinale che ci consenta di dire quale sia la posizione ufficiale dell’Islam: accanto a posizioni estremamente rigide, rileviamo la presenza di interessanti e preziosi tentativi che sorgono all’interno di quella stessa visione religiosa, volti ad individuare gli elementi liberali presenti nell’Islam, capaci, in prospettiva, di fornire gli strumenti per un prossimo ed auspicato incontro con le istituzioni liberali. (Cfr. Muhammad Abdul-Rauf, A Muslim’s Reflections on Democratic Capitalism, AEI, Washington DC; ed anche A. Yayla, F. Felice, eds, Islam ed economia di mercato, Rubbettino).

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Ciò che intendiamo evidenziare è che in primo luogo l’Islam considera la riflessione economica alla stregua di una dottrina morale i cui principi sarebbero derivati deduttivamente dal Corano. La passione che scaturisce dalla religiosità incontrerebbe la spinta naturale al perseguimento dell’interesse individuale e rappresenterebbe il carburante benefico per l’azione economica. Oltretutto, la coscienza religiosa sarebbe un antidoto contro la corruzione e, sebbene il concetto di economia islamica sia fondato sulla Rivelazione, quest’ultima non esclude l’approfondimento intellettuale, tenendo opportunamente conto dei bisogni umani.

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In secondo luogo, in quanto sistema spirituale integrale, l’economia islamica cercherebbe di individuare stili e prospettive di vita che evitino i comportamenti estremi dovuti all’avidità e alla cupidigia, mentre inviterebbe i fedeli ad impegnarsi per trovare una soddisfazione ai bisogni dello spirito e del corpo.

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In terzo luogo, oltre alla prospettiva di breve periodo (venire incontro ai bisogni umani terreni e provvedere alla soddisfazione materiale e alla relativa felicità terrena), il sistema economico islamico avrebbe anche una prospettiva di lungo periodo: cercare di meritarsi l’apprezzamento di Dio e guadagnare il Paradiso. In questo senso, non sarebbe un sistema meramente materialistico.

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Un ulteriore elemento che ci preme sottolineare riguarda il concetto di “doppia proprietà”; si tratta di una particolare caratteristica della dottrina economica islamica. “L’Islam protegge e promuove il diritto personale a possedere ciò che ciascuno liberamente guadagna mediante mezzi legittimi, in quanto dono e frutto del proprio lavoro e del proprio intelletto” (Muhammad Abdul-Rauf). Ne consegue che la proprietà individuale è un diritto sacro. Tuttavia, il diritto di proprietà sarebbe temperato dalla consapevolezza che, in ultima analisi, “tutto appartiene a Dio, compreso il nostro corpo e la nostra anima, così come i mezzi per vivere che Dio ha creato per il nostro bene”. L’esercizio del diritto di proprietà privata si comprende, dunque, alla luce del concetto di gestione fiduciaria.

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Pertanto, la dottrina economica islamica non escluderebbe il coinvolgimento tanto dei cittadini quanto dello Stato in un modello di partnership che ispiri un profondo senso di comune responsabilità. Sebbene l’Islam promuova, protegga ed esiga la libertà individuale, è opportuno distinguere tra libertà economica ed avidità. La libertà economica necessita che sia armonizzata con la libertà degli altri, oltre a richiedere che sia resa compatibile con i bisogni e gli interessi comuni. Ciò evidenzierebbe due aspetti: il primo è un obbligo da parte dello Stato a non invadere ambiti che appartengono direttamente ai singoli individui, di fare il possibile per promuovere la prosperità e di rimuovere gli ostacoli. La seconda riguarda un obbligo speciale di quei cittadini che hanno ottenuto il successo. Essi dovranno contribuire con il loro surplus ai bisogni dei meno fortunati ed investire i loro capitali per aiutare coloro che versano nel bisogno. Da ciò si evince che il sistema economico islamico presterebbe attenzione a tutti gli aspetti del processo economico: stimolerebbe la produzione, insisterebbe sull’equa distribuzione e proporrebbe di moderare i consumi. Per un’equa distribuzione, inoltre, avrebbe instaurato come obblighi cardinali il pagamento dello Zakat e varie forme di carità.

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Estremamente importante è il fatto che per il sistema economico islamico meriterebbero pari attenzione l’individuo e la comunità. L’Islam non dissolverebbe l’individuo nella comunità, né ignorerebbe gli obblighi sociali ai quali sarebbero tenute le persone, in quanto non individuerebbe alcun conflitto tra i legittimi interessi personali e quelli della comunità. Il sistema economico dell’Islam consentirebbe di prestare attenzione alle motivazioni personali, pur insistendo che le stesse dovrebbero essere condivise con gli altri membri della comunità. In tal modo si contribuirebbe ad orientare la libertà economica nella direzione di una maggiore armonia tra gli interessi degli individui e quelli della società.

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Riassumendo, il sistema economico islamico può condurre tanto a soluzioni rigide quanto a modelli flessibili. La flessibilità dipenderebbe dal fatto che le istituzioni economiche emergono dal concorso di alcuni principi guida generali, come ad esempio la necessità che il lavoro sia remunerato, che il consumo sia indirizzato verso beni moralmente sani e che i fedeli desiderino perseguire fini non meramente materiali. Dunque, l’insegnamento religioso islamico che loda il duro lavoro si adatterebbe a qualsiasi attività produttiva.

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I punti appena riportati descrivono una dichiarazione di principi, un manifesto ideale che evidentemente non sempre ha trovato e tuttora trova felice conferma nella pratica della vita quotidiana. Tuttavia, dovremmo chiederci se lo stesso argomento non valga forse anche per la religione cattolica. Le prime forme di capitalismo mercantile e manifatturiero non sarebbero forse nate proprio nel cuore della cattolicità? Le abbazie benedettine disseminate in tutta Europa non hanno rappresentato una forma estremamente moderna di unità produttiva? Le prime forme di riflessione sistematica sull’agire economico non si devono forse proprio ai civilisti e ai canonisti medioevali? Ebbene, ciononostante, non sono mancati, ed ancor oggi non mancano, coloro che tendono ad evidenziare l’incompatibilità e l’inconciliabilità tra cristianesimo ed economia di mercato. Dobbiamo a Giovanni Paolo II nel 1991 la definitiva, sebbene condizionata, accettazione della libera economia imprenditoriale.

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Il che ci spinge a confidare nella possibilità che si individuino momenti d’incontro tra l’Islam e i sistemi democratici capitalistici ovunque nel mondo. I musulmani condividono con i cristiani il valore della libertà individuale, della proprietà privata e dell’uguaglianza d’innanzi a Dio. Ma, soprattutto, condividono la fede in un unico Dio, il quale ha messo a disposizione i beni della natura affinché gli uomini ne godano i frutti con senso di responsabilità e spirito di condivisione. Questa consapevolezza ci consente di essere fiduciosi sul fatto che l’Islam sia compatibile con la democrazia e con l’economia di mercato. In tal modo, il dialogo tra Cristianesimo e Islam si configura come il contributo più prezioso per il fiorire di una società globalmente aperta, libera e virtuosa.

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