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I primi giorni di dicembre, Eurostat, ha reso noto che nel 2011 nei paesi dell’Unione Europea, il 24% della popolazione, cioè circa 120 milioni di persone, sono a rischio povertà o di esclusione sociale, rispetto ad un valore del 23% registratosi nel 2010. Secondo l’ufficio statistico internazionale, per rientrare all’interno di queste categorie, occorre che un cittadino europeo presenti più di una delle tre caratteristiche: avere problemi di entrate (reddito), vivere in una situazione di forte necessità materiale, vivere in una casa all’interno della quale, esclusi gli studenti, gli adulti (18-59 anni) hanno lavorato meno del 20% del monte ore potenzialmente utilizzabili.

Anche in Italia, che presenta valori medi simili agli altri Stati europei, cresce dunque la povertà e con essa la disuguaglianza. Sempre Eurostat ci ricordava, poco meno di un anno fa, che il coefficiente s80/20, che confronta le entrate del 20% della popolazione con redditi più alti con le entrate del 20% della popolazione con redditi più bassi, sia cresciuto negli ultimi anni, insieme al coefficiente di Gini, che misura le disuguaglianze all’interno di una distribuzione. In poche parole il 20% della popolazione più ricca in Italia guadagna 5,2 volte in più che il 20% della popolazione più povera, così come in Inghilterra e più che in Germania e Francia dove il 20% della popolazione più ricca guadagna rispettivamente 4,5 e 4,4 volte in più che il 20% della popolazione più povera.
Durante il passato mese di febbraio, inoltre, la Banca d’Italia evidenziava come, a causa del progressivo calo dei tassi di crescita economica del paese e della tendenziale riduzione del tasso di risparmio delle famiglie, l’Italia abbia incrementato negli ultimi cinquant’anni la propria ricchezza più di quanto non abbia incrementato la produzione. In Italia, infatti, i 10 individui più ricchi posseggono oggi una quantità di ricchezza equivalente a quella dei 3 milioni più poveri ed il 10% delle famiglie più ricche possiede oltre il 40% dell’intero ammontare di ricchezza netta del paese.
Anche l’Istat, in estate, sottolineava che l’11,1% degli italini è relativamente povero (più di 8 milioni di persone) e che il 5,2% è povero in termini assoluti (più di 3 milioni di cittadini), sottolineando come la povertà cresca sempre di più tra le famiglie con a capo una persona con profilo educativo e professionale più basso o tra le famiglie che risiedono nel Mezzogiorno.
Come detto però il problema non è solo Italiano, anche in Inghilterra infatti un recente studio della Resolution Foundation ci informava che la prosperità dei lavoratori dipendenti britannici più poveri nei prossimi anni dipenderà da una vera e propria rivoluzione politica capace di aumentare il numero dei posti di lavoro femminili, promuovere l’istruzione e la formazione, aumentando i salari dei lavoratori più scarsamente remunerati. Senza queste azioni, lo studio conclude che un tipico basso reddito netto familiare si ridurrà in termini reali del 15% da qui al 2020.
Anche oltre oceano, negli Stati Uniti, il dibattito sulla lenta scomparsa della classe media, durante quest’ultimo anno, è stato al centro dell’attenzione di economisti e politoligi. Riduzione delle entrate e lenta erosione della ricchezza accumulata negli ultimi decenni hanno infatti reso sempre più complicato il mantenimento dello stile di vita precedente anche per gli statunitensi.
Di converso la Banca Mondiale pubblicava qualche settimana fa un documento sulla mobilità economica e la crescita della classe media in America Latina, nel quale sottolineava come la classe media, in quest’area del mondo, fosse cresciuta del 50% nell’ultimo decennio, facendo incrementare notevolmente il numero dei benestanti, oggi pari al 30% della popolazione. Nello studo della Banca Mondiale si evince inoltre come il livello di povertà sia diminuito in America Latina da più del 40% del 2000 a meno del 30% nel 2010 permettendo a 50 milioni di abitanti di vivere meglio grazie ad una crescita economica più sostenibile, la creazione di nuovi posti di lavoro e la diminuzione delle disugualglianze. Dinamiche simili stanno generandosi più lentamente anche in Cina dove la classe media continua inesorabilmente a crescere così come accadde più di cinquant’anni fa nel continente europeo.
Cosa fare dunque per contrastare questo lento declino e per misurarsi con le sfide dei prossimi decenni nel nostro Paese ed in Europa? È chiaro che occorre ridurre in primo luogo le disuguaglianze di opportunità senza penalizzare la crescita attraverso riforme che incentivino maggiore concorrenza, minore corruzione ed evasione fiscale, più elevati livelli d’istruzione qualificata ed un accesso più agile delle donne al mercato del lavoro.
Sempre la Banca d’Italia ci ricorda, quest’anno, come esista una forte evidenza empirica, nel nostro Paese, di una correlazione negativa tra capitale sociale (cooperazione con gli altri cittadini, condivisione di virtù civiche, dotazione di reti sociali) e disuguaglianza. Un maggior livello di capitale sociale (bridging e linking) in un territorio riflette maggiori opportunità di formazione qualificata per i cittadini e di partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Il nesso di causalità può anche invertirsi, innescando così una dinamica virtuosa in grado di ridurre maggiormente la leggittimità della disuguaglianza, garantendo al nostro Paese un maggiore sviluppo territoriale inclusivo fondato sulle competenze e sulla formazione.

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