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In un libro scritto dal compianto Giuseppe Palladino – economista, professore di “Economia dello Sviluppo” presso la Pontificia Università Gregoriana ed esecutore testamentario di don Luigi Sturzo – nel 1958 intitolato La recessione economica americana (Signorelli Editore, Roma), l’autore tratta dei sintomi, delle cause e dello studio dei rimedi delle recessioni economiche.

Ebbene si, un libro del 1958. Mi rendo conto che recensire un libro così datato, fuori catalogo e nei confronti del quale, che mi risulti, ad oggi, non esiste l’interesse di alcun editore a rieditarlo, possa apparire quanto meno bizzarro. Le borse crollano, la banche falliscono, i governi intervengono pesantemente ovvero promettono di farlo, gli economisti si dividono sulle ricette (e chi la pensa diversamente da noi non è un ignorante, ma semplicemente qualcuno che dal suo punto di vista ha buone ragioni per proporre vie alternative alle nostre). Ebbene, in una simile situazione, è lecito chiedersi che senso abbia recensire un libro sulla crisi finanziaria americana del 1957. Infatti, non si tratta di una recensione, almeno di quelle classiche, ma di una sua rilettura alla luce di alcune problematiche politiche ed economiche che sembrano drammaticamente persistere anche ai nostri giorni. Siamo lontani dal 1958 e qualsiasi confronto tra le recessioni statunitensi del passato, a partire da quella del ’29, e l’attuale crisi economico-finanziaria avrebbe scarso significato. Ad ogni modo, alcune riflessioni di Palladino possono aiutarci a comprendere anche oggi le relazioni tra i processi produttivi interni e i processi produttivi che interessano l’economia globale. L’Autore del saggio in questione, in sintonia con l’analisi sviluppata dall’allora ministro dell’economia tedesco, “l’ordoliberale” Ludwig Erhard, sosteneva che negli Stati Uniti il processo salari-costi-prezzi-salari fosse uscito dalla guida tradizionale del mercato per risolversi in un rigido rapporto di forza tra imprenditori e sindacati, da un lato, e produttori e consumatori, dall’altro. Di contro, l’altro processo, quello relativo alla produttività-costi-prezzi si fosse impantanato nelle secche dell’economia istituzionale, deviando anch’esso dalla logica del mercato (un mercato “temperato” è qualcosa di sostanzialmente diverso da un mercato “regolamentato”; il primo smette di essere un mercato, il secondo comincia ad esserlo). Tanto nel primo quanto nel secondo caso, ciò che si evidenzia è il fallimento delle regole che avrebbero dovuto consentire lo svolgersi dei processi concorrenziali: il mercato come un sistema più o meno ampio di relazioni, regolamentato e guidato dalla variabile prezzi.

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In condizioni di economia aperta, di mercato concorrenziale, dunque, regolamentato, tutt’altro che abbandonato alla famelica brama degli “spiriti animali”, il processo produttività-costi-prezzi si risolve a vantaggio della comunità: minore concentrazione, maggiore concorrenza, minori extra-profitti, prezzi più bassi. Invece, scrive Palladino, “da quando l’oligopolio, da una parte, e le rigidità istituzionali, dall’altra, si sono sostituiti alla regole del libero mercato, accade in America e altrove che l’incremento della produttività si risolve prevalentemente in una maggiore remunerazione dei fattori di produzione impiegati in quell’azienda, in quel settore e in quella economia, ove più facilmente si riesca ad incrementare la produttività rispetto alle altre unità similari”. Da un lato i sindacati dei lavoratori dall’altro i rappresentanti delle categorie datoriali sono riusciti ad imbrigliare a tal punto i processi concorrenziali che alla logica del mercato si è sostituita la logica dell’oligopolio; un oligopolio della rappresentanza che si esprime sostanzialmente in un’economia corporativa.

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È a questo punto che il nostro autore evidenzia come, all’artificio che conduce fuori dal mercato il processo produttività-costi-prezzi – bloccando quel processo nelle secche di un neo-corporativismo castista –, presto o tardi, se ne aggiunge sempre un altro, ossia, l’appello ai dazi: sicché, ironia della storia, mentre un tempo i dazi erano impiegati dai paesi economicamente meno progrediti per difendere industrie nascenti o settori poco efficienti, oggi invocano e ricorrono ai dazi proprio i paesi più ricchi per difendere il tenore di vita dei loro cittadini contro la concorrenza del basso costo del lavoro dei paesi più poveri. In definitiva: “Per tale via, cioè con il modo artificioso con cui si risolve ora l’incremento della produttività, si è giunti all’assurdo che i paesi ricchi e progrediti sono divenuti protezionisti e quelli poveri e arretrati liberisti”. Aver preteso d’interpretare la  spinta concorrenziale internazionale, non aumentando la competitività, ma esigendola per “decreto” – il “passa condotto” –, oggi a favore di qualcuno e domani a favore di qualcun altro, ed aver ignorato gli artifici che tendono a condurre le economie nazionali al di fuori dalla cornice del mercato, ci preclude la possibilità di spiegare coerentemente il come ed il perché del darsi di alcuni fenomeni.

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Tornando al libro di Palladino, il nostro ammette che, a questo livello della riflessione, alla ricognizione scientifica si sostituisce il pregiudizio ideologico, al punto che tra i “newdealisti” – ricordiamo che siamo di fronte ad un’analisi del 1958 –, coloro che osservavano la recessione americana dal versante “conservatore” finirono per addossare la colpa agli operai e ai sindacati, rei di aver provocato la spirale inflazionistica con la pretesa di salari sempre più alti, mentre, coloro che affrontarono il medesimo problema sul versante “liberal”, imputarono gli imprenditori, colpevoli di aver impedito una sana politica redistributiva degli alti profitto. Non siamo molto distanti dalle reciproche accuse che anche oggi in Italia sindacati dei lavoratori e datoriali si rimbalzano per rendere ragione del devastante declino che da troppi anni interessa il nostro Paese.

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In realtà, afferma Palladino, nel caso particolare della recessione americana del 1957, ma l’analisi riveste elementi d’interesse anche rispetto all’attuale crisi, le cause della caduta della domanda globale non andrebbero ricercate in un difetto di distribuzione dei redditi rispetto all’aumento dei profitti (come sostenevano i “liberal” e come sostiene ancor oggi la sinistra nostrana), né nella carenza di alcuni fattori reali dello sviluppo e tanto meno nella riduzione del coefficiente di efficienza marginale del capitale; cause tipiche delle precedenti crisi cicliche.

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Le ragioni di quella fase recessiva possono essere sintetizzate nei seguenti tre punti. In primo luogo, nel fatto che ampi settori industriali avevano assunto un’offerta rigida, la quale evidentemente necessitava di mercati particolarmente vasti; in secondo luogo, un’intera struttura produttiva sarebbe sorta in funzione di una tecnologia legata all’industria militare, che appariva oramai superata; infine, l’incompatibilità tra le proporzioni assunte da alcune industrie di beni durevoli – gonfiate dal mercato drogato del credito al consumo – e la domanda da parte dei consumatori di soddisfare l’offerta.

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In definitiva, al di là delle poco comprensibili cadute di stile scritte qui e là da qualche amico economista ed analista; cadute innocue, dettate dal furore ideologico, redatte ora a difesa e ora contro gli interventi pubblici per contenere il panico finanziario (a ben vedere, il piano Bush-Paulson non sembrerebbe essere riuscito nell’intento contenitivo), l’insegnamento che possiamo trarre ancora oggi da quell’analisi è che la perdita di contatto con la realtà del mercato, a vantaggio di soluzioni sindacali-istituzionali ovvero speculativi-finanziari, può tradursi in incapacità di comprendere, ad esempio, all’epoca della recessione del ‘57, che il pessimismo che interessava gli operatori economici e gli acquirenti a rate avrebbe ridotto la domanda di beni durevoli ed accresciuto quella dei beni di consumo, con il risultato che il nuovo equilibrio si sarebbe ottenuto con una crescita dei prezzi di questi ultimi beni e, di conseguenza, con un aumento del costo della vita. Inoltre, la fuoriuscita dalla logica di mercato sembrerebbe impedire al sistema politico, oligopolistico sindacale, industriale, commerciale e finanziario di rispondere coerentemente alle quattro fondamentali domande dell’economia, al punto che verso la fine degli anni ’50, e paradossalmente anche alla fine del 2008, il primo problema dell’economia americana e mondiale poteva e può essere rappresentato ancora da un dilemma di tipo sistemico, diremmo geopolitico: sostituendo la Cina all’URSS. In definitiva, si chiede Paladino nel ’58 e si chiedono gli osservatori politici ed economici oggi, negli USA e, dunque, nel mondo globalizzato, devono essere ancora gli oligopolisti industriali e finanziari oppure il pianificatore statale ovvero il libero mercato a rispondere ai seguenti quattro problemi: “che cosa produrre”, “per chi produrre”, “come produrre”, “per quando produrre”. In altre parole, i paesi liberi devono continuare a rappresentare i campioni della “società aperta”? Ovvero dovrebbero inchinarsi di fronte alla tanto infondata quanto ostentata superiorità morale, politica ed economica della “società chiusa”? Chiusa e soffocata dalla “presunzione fatale” del feroce Laviatano, incupita dalla triste ottusagine del grande pianificatore ed impoverita dalla miope prepotenza dei monopoli e degli oligopoli, pubblici o privati che siano, dell’industria reale ovvero dell’industria finanziaria, e dalla loro invadente centralità nella vita civile?

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