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Una versione ridotta del presente articolo è apparso su “L’occidentale” il 27/9/2008.
Tanto i critici quanto i sostenitori di George W. Bush tendono a dipingere la sua Presidenza in campo economico come un punto di svolta: alcuni ritengono che sia stato il migliore presidente della storia statunitense, altri il peggiore…

Come ha recentemente sostenuto Zbigniew Brzezinski, l’ex National Security Adviser, il quale nel suo libro: Second Chance: Three Presidents and the Crisis of American Superpower, ha intitolato il capitolo dedicato a Bush “Catastrophic Leadership. A calamity”, definendo la presidenza di Bush: “A historical failure”. In realtà, sostiene Jonathan Rauch, analista del “National Journal”, la sua politica economica sarebbe stata in continuità con i suoi predecessori e, date le premesse, è presumibile che chiunque andrà alla Casa Bianca non si distaccherà di molto dall’attuale presidente. In definita, secondo il nostro analista, sotto il profilo economico, Bush Jr. sarà ricordato come un personaggio minore nella storia dei presidenti statunitensi.

L’analisi del lascito economico di Bush non può non condurci a guardare criticamente quanto sta avvenendo sui mercati finanziari di tutto il mondo e spingerci ad una considerazione che incontra la puntale osservazione di Ettore Gotti Tedeschi pubblicata su “L’osservatore Romano” di martedì 24 settembre: il “mondo occidentale […] non ha saputo definire un modello di sviluppo capace di garantire una ricchezza stabile. La lezione è semplice: lo sviluppo finanziario non è sostenibile, quindi o si ritorna a uno sviluppo reale, fatto di equilibrata crescita demografica, o ci si deve preparare a vivere con sobrietà”. In questo contesto, anche il più insolente ed ottuso dei sostenitori dell’attuale presidente USA dovrà ammettere che l’eredità economica di Bush è pesante ed amara. Le stime dicono che, sommando il costo del “Piano Paulson”: circa 700 milioni di dollari, i 50 milioni per sostenere il mercato monetario e gli 85 milioni di prestito all’AIG, si sfiora la cifra di 1.000 miliardi di dollari.

Alessandro Merli, su “Il Sole 24 Ore” di domenica 21 settembre, ha fatto notare che, ad ogni modo, una simile fantasmagorica cifra rappresenta appena il 7% del PIL statunitense e che il salvataggio delle “Seavings & Loans” negli anni ottanta attraverso la Resolution Trust Corporation costò il 3,2% del PIL, mentre il salvataggio delle banche svedesi nei primi anni novanta significò il 4% del PIL. In realtà, l’aspetto più significativo di quest’ultima crisi e dei rimedi adottati dall’Amministrazione Bush risiederebbero nel fatto che sembrerebbe farsi strada l’opinione che sia necessario un ripensamento delle regole che disciplinano l’industria finanziaria. Merli sostiene che sarebbe ormai finita un’epoca durata circa vent’anni, l’epoca nella quale il denaro a buon mercato e l’innovazione finanziaria hanno contribuito a ridurre in modo drastico la percezione del rischio. La fine di un’epoca nella quale la “distrazione” dei regolatori e “l’ingordigia” e/o “l’ignoranza” dei manager hanno consentito lo sviluppo di prodotti ad alta tossicità. La fine di un’epoca nella quale l’offerta di finanza era eccessiva e l’uso della leva finanziaria del tutto fuori controllo. Di fronte ad un simile cambio di scena, l’intervento dell’Amministrazione Bush, tardivo e necessario, appare come il tentativo di aprire una nuova epoca, nella quale assumono rilevanza gli strumenti del “contenimento”, della “ristrutturazione” attraverso l’intervento pubblico e della “riforma della regolamentazione”. In altri termini, argomenta Gotti Tedeschi, “Il sistema bancario dovrà tornare al mestiere originale di intermediazione e di raccolta attraverso depositi (come avvenuto per Morgan Stanley e Goldman Sachs), dovrà assorbire le conseguenze degli eccessi ricapitalizzandosi e dovrà probabilmente anche sottoscrivere i titoli emessi dai Governi per gestire la crisi. Conseguentemente, sarà obbligato a ridurre drasticamente i costi e dovrà essere più selettivo nel credito, con effetti immaginabili sull’economia reale”.

Nel corso dell’estate era già intervenuto Mario Monti con una bella intervista rilasciata a “Il Sole 24 Ore”, nella quale metteva il dito nella piaga, affermando che “gli Stati Uniti hanno fallito in quella ‘specialità’ che per molti decenni avevano invece insegnato con successo all’Europa e ai Paesi emergenti: la governance dell’economia di mercato. Con la crisi finanziaria che si è generata al loro interno, hanno inflitto un vulnus severo e durevole all’immagine e all’accettabilità, nel mondo, dell’economia di mercato. Ha ragione Alan Greenspan a temere (Financial Times, 5 agosto) che questa crisi indurrà molti Governi a ‘intensificare la presa sulle questioni economiche’ e che questo potrebbe ‘invertire il corso della globalizzazione’.

Invero, fu proprio Greenspan nel 2005 ad invitare il Congresso americano a considerare quanto fosse urgente agire nel modo più chiaro possibile e, con riferimento alla Fannie Mae e Fraddie Mac, affermò: “Se Fannie e Freddie continuano a crescere, se continuano ad avere il basso capitale che hanno, se continuano a gestire i loro portafogli con dinamiche hedging, potenzialmente creano un rischio sistematico ed esponenziale fuori controllo” e concludeva: “Stiamo posizionando l’intero sistema finanziario futuro in un sostanziale rischio”. A questo punto – siamo nel 2005 –, il Senato americano, su proposta di un ristretto gruppo di tre senatori repubblicani, volendo far proprio l’avvertimento di Greenspan, in sede di Senate Banking Committee approvò una norma che se fosse divenuta legge avrebbe, presumibilmente, aumentato il livello dei controlli e tentato di arginare l’irresponsabilità di alcuni potenti operatori finanziari. La norma prevedeva un potere regolatore che avrebbe potuto operare un significativo giro di vite e avrebbe obbligato le compagnie a rinunciare ad investimenti “tossici”. Quella norma non divenne mai legge per l’opposizione dura del partito democratico e per la decisione dei repubblicani di non procedere a colpi di maggioranza.

Non è affatto vero che la storia non si fa con i “se”. Per comprendere le ragioni di un fenomeno è necessario procedere per via congetturale, e l’ipotesi di una legge che andasse nella direzione auspicata da Greenspan, così come evidenziata dall’intervista di Monti, avrebbe potuto contribuire ad evitare l’attuale disordine finanziario ed il discredito degli strumenti della concorrenza e dell’economia di mercato. È interessante ricordare che tra i tre senatori che presentarono la riforma mai approvata c’era anche il senatore McCain che oggi compete per la Casa Bianca.

Abbiamo introdotto il tema così attuale e complesso della crisi finanziaria mondiale per sottolineare un doppio approccio all’analisi in merito all’eredità economica di George W. Bush. Esiste una dimensione internazionale ed una domestica, in entrambi i casi i giudizi sono controversi e meritano di essere attentamente valutati.

Rispetto alla dimensione domestica della politica economica americana, i critici di Bush argomentano che egli avrebbe ridotto la finanza statunitense a mera spazzatura. Avrebbe operato un taglio delle imposte estremamente selvaggio, avrebbe affrontato una guerra assai dispendiosa senza copertura finanziaria, avrebbe, infine, ampliato il sistema sanitario, lasciando senza controllo la spesa federale, trasformando il surplus in deficit cronico; il tutto, mentre l’economia statunitense e quella mondiale cominciavano a dare segni di cedimento.

“Abbiamo una forma fiscale di gran lunga peggiore oggi che nel 2001”; sono le dure parole di David Walker, l’economista che fino a non molto tempo fa guidava il Government Accountability Office (GAO) e che attualmente presiede la Peter G. Peterson Foundation. Secondo gli analisti del GAO, l’esposizione fiscale degli USA sarebbe più che duplicata tra il 2000 e il 2007, passando da 20,4 trilioni di dollari a 52,7 trilioni. Inoltre, Walker afferma che il buco di 53 trilioni di dollari sarebbe cresciuto di due-tre trilioni di dollaro ogni anno a causa dell’aumento dei costi sanitari, dei mutamenti demografici (un numero sempre minore di lavoratori mantiene un numero sempre maggiore di pensionati) e del pagamento degli interessi passivi sul debito nazionale.

Molto probabilmente, sostiene Rauch, la spericolatezza fiscale rappresenta l’argomento più forte contro la Presidenza Bush, benché non manchino possibili contro argomenti.

Grazie soprattutto ad un’economia in crescita, come si può notare dal grafico, durante il secondo mandato di Bush il deficit è diminuito in ragione dell’andamento economico. Durante l’anno 2007, il deficit era l’1,2% del prodotto interno lordo, ben al di sotto della media degli ultimi quarant’anni. Nel 2008 il deficit è salito a circa il 2,9% del PIL, in linea con le proiezioni dell’Amministrazione, sebbene sia rimasto ancora leggermente al di sotto della media degli ultimi quarant’anni e le cause siano innanzitutto cicliche piuttosto che strutturali, dal momento che lo sviluppo economico ha cominciato a rallentare.

 

Ed ancora, per quanto concerne la critica di aver posto fuori controllo la spesa pubblica, un possibile contro argomento sarebbe che le uscite sono rimaste nella media degli ultimi quarant’anni; invero, afferma Rauch e come si può osservare dal grafico, le politiche di spesa federale eccezionali furono quelle di Ronald Reagan e di Bill Clinton, non certo di Bush.

Riguardo al taglio delle tasse, assumendo una prospettiva storica, esso rappresenta certo un segnale importante, un indicatore rilevante della politica economica di Bush, ma non certo un punto di svolta epocale. Dopo tutto, le tasse sono scese all’inizio di questa decade per poi tornare a crescere di nuovo. Nel 2007, il prelievo federale era il 18,8% del PIL, leggermente al di sopra della media degli ultimi quarant’anni che si attesta al 18,3%. Volendo assumere che le conseguenze della politica fiscale di Bush si estenderanno al 2010, oltre la fine del suo mandato, ed assumendo che il Congresso fissi una “minimum tax”, frenando la lenta tendenza al rialzo, il Congressional Budget Office prevede che il prelievo fiscale ruoterà intorno al 19% del PIL.

L’opinione di Rauch è che Bush e il Congresso, dunque, non avrebbero distrutto l’erario, bensì lo avrebbero semplicemente ricondotto nel proprio solco tradizionale. Tale solco sembra delineare una sorta di margine storico, così come suggerito dal recente rapporto del Tax Policy Center in merito al programma fiscale di Obama, il quale dovrebbe mantenere le entrate all’incirca al 18,4% del PIL fino al 2018; esattamente in regola con la media storica.

Con riferimento all’allocazione del peso fiscale, Obama promette di tagliare le tasse alla base e di alzarle al vertice. Innalzerebbe l’aliquota fiscale sul reddito al 39,5%, riportandola esattamente lì dove il presidente Clinton l’aveva lasciata.

Non v’è alcun dubbio, afferma Rauch, che Bush abbia fallito rispetto al problema di lungo periodo. Lascia un bilancio peggiore di quello che aveva trovato e i suoi tentennamenti sulla riforma della previdenza sociale l’hanno resa politicamente più difficile. È stato Stuart Butler, analista dell’Heritage Foundation (storico think-tank repubblicano) ad affermare: “Credo che abbiamo perso una grande opportunità durante il periodo di Bush e, invero, nell’ultima parte dell’amministrazione Clinton”.

Dunque, stando al giudizio di Butler, gli errori di Bush non sarebbero stati una sua esclusiva. I suoi predecessori hanno evaso molti problemi e si teme che chi gli succederà non potrà, non vorrà o non saprà fare meglio. Il fallimento fiscale di Bush, in breve, rischia di non essere eccezionale, bensì drammaticamente ordinario.

Una riflessione (spero percepita) onesta sull’eredità economica della Presidenza Bush ci ha condotto ad esaminare, sebbene in  modo succinto, la dimensione internazionale e quella domestica, in entrambi i casi abbiamo evidenziato luci ed ombre; probabilmente più ombre che luci. Un verdetto netto di assoluzione o di colpevolezza appare impossibile, anche perché bisognerebbe sempre distinguere tra “eredità” e “responsabilità”. Sembrerebbe che, almeno a livello politico, la responsabilità della drammatica situazione dell’industria finanziaria sia in gran parte condivisa tra repubblicani e democratici, anche se è indubbio che si tratta di un’eredità dell’Amministrazione Bush. La speranza è che la consapevolezza che sia finita un’epoca conduca le classi dirigenti economiche, politiche e culturali a livello globale a riconsiderare la rilevanza delle regole per la disciplina dei mercati. La libera concorrenza è un bene troppo importante perché affondi sotto i colpi dell’irresponsabilità, dell’ingordigia o dell’ignoranza di banchieri, di manager e di politici. È necessario comprendere che il libero mercato non esiste al di fuori delle regole della libera concorrenza, così come ci hanno insegnato teoricamente e nella quotidiana azione politica i padri dell’economia sociale di mercato. Autori ai quali dobbiamo l’elaborazione dei principi economici e giuridici che, all’indomani della seconda guerra mondiale, hanno consentito alla vecchia e distrutta Europa di rialzare il capo, garantendo anni di pace e di prosperità.

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