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Negli ultimi giorni del 2010 (23 dicembre), dopo il sì di Montecitorio, il Senato ha approvato in via definitiva la proposta di legge bipartisan “Incentivi per il rientro dei lavoratori in Italia”. Il ddl, promosso dall’Associazione 360 di Enrico Letta (primo firmatario) e fortemente sostenuto dal Vice Presidente della Camera Maurizio Lupi e dall’intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, rappresenta uno dei pochissimi casi di legge di iniziativa parlamentare. L’obiettivo è quello di riuscire a fronteggiare quella che sta diventando una vera e propria emergenza nazionale: la diaspora dei cervelli italiani che sempre più numerosi decidono di cercare fortuna all’estero. In effetti, i connazionali che scelgono di trasferirsi in un paese straniero sono sempre più numerosi. Complessivamente gli italiani iscritti all’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, sono più di tre milioni.

Nella maggior parte dei casi si tratta di lavoratori altamente qualificati: i laureati italiani all’estero sono quattro volte quelli tedeschi, due volte quelli francesi, tre volte quelli inglesi o spagnoli (dati Ocse). Basti pensare che in base ad una classifica stilata dalla Via-Academy (l’associazione di accademici espatriati) che valuta le performance scientifiche e la produttività dei nostri ricercatori, la metà dei migliori cento cervelli italiani lavora all’estero.
Peraltro, gli scarsi investimenti del nostro paese in formazione, ricerca e innovazione, oltre a spingere i lavoratori più qualificati ad espatriare, non riescono ad attrarre gli studenti stranieri. Sono infatti pochissimi i giovani che scelgono di studiare in Italia e di continuare a lavorare in un paese che non offre risorse, incentivi economici e prospettive di carriera. Nel 2010 gli studenti immigrati iscritti nelle università italiane rappresentavano appena il 3% degli iscritti, rispetto ad una media dei 33 paesi Ocse dell’8,5%: in Germania sono 10,9% del totale, in Francia l’11,2% e in Gran Bretagna quasi il 20%.
Sono dunque evidenti i costi della fuga dei cervelli dal nostro paese, che per la formazione di ogni giovane fino alla laurea spende circa 100.000 euro. In pratica, ogni anno, l’Italia cede migliaia di risorse umane formate ad altri paesi, perdendo così anche il ritorno economico dei risultati della ricerca scientifica e accademica dei nostri laureati: in base ai calcoli dell’ICom (Istituto per la Competitività) i brevetti registrati dagli scienziati italiani residenti all’estero rendono alle imprese straniere circa 200 milioni di euro l’anno.
Per agevolare il rientro dei talenti con meno di 40 anni e che hanno lavorato all’estero negli ultimi due anni, il disegno di legge prevede forti incentivi fiscali. In particolare per chi decide di tornare è prevista una detassazione sui redditi percepiti in Italia (gli uomini verranno tassati sul 30% del reddito, mentre donne sul 20%). Accanto agli incentivi fiscali, sono previste anche agevolazioni per la casa e facilitazioni per le pratiche amministrative necessarie al rientro in Italia. Inoltre il governo si impegna alla promozione di accordi bilaterali previdenziali con gli Stati stranieri per riconoscere a coloro che rientrano il diritto alla totalizzazione dei contributi.
La condizione per potersi avvalere dei benefici previsti dal ddl? Avviare un’attività di impresa o di lavoro autonomo, oppure essere assunti come dipendenti e trasferire il proprio domicilio in Italia entro tre mesi dall’avvio dell’attività o dell’assunzione.
Le agevolazioni al rientro in Italia sono inoltre estese anche ai cittadini dell’Unione Europea con meno di 40 anni che abbiano risieduto continuativamente in Italia per almeno ventiquattro mesi e che abbiano svolto continuativamente un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori dal Paese di origine e dall’Italia negli ultimi ventiquattro mesi o più.
Questi sono i punti di forza del ddl; tuttavia, è evidente che questa legge da sola non basta ad arginare l’emorragia dei lavoratori più qualificati dal nostro paese. Innanzitutto, la legge si rivolge a quanti hanno già lasciato l’Italia, ma non offre nulla a chi ha intenzione di partire. Inoltre, le sole agevolazioni fiscali non sono di per sé sufficienti a risolvere le cause che spingono i giovani più preparati a lasciare il Paese: scarsa meritocrazia, gerontocrazia, clientelismo e basse retribuzioni. Di qui il deficit strutturale che spinge all’estero i migliori talenti anziché attrarne.
E, in effetti, in passato, altre iniziative simili hanno sortito risultati modesti: i precedenti piani di rientro dei ricercatori italiani all’estero promossi dal governo italiano (2001 e 2004), hanno riportato in Italia, e molti solo per qualche anno, appena 500 ricercatori.
Ben vengano, dunque, tutte le iniziative che cercano di arginare la fuga dei cervelli, ma per un Paese dalla mobilità bloccata sono necessarie politiche complessive e articolate; non è pensabile che una sola legge possa risolvere i problemi occupazionali e formativi dei giovani italiani.

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