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Nei bilanci, nei budget e in generale in tutti gli strumenti che guidano la gestione dell’impresa, così come nella maggioranza delle teorie economiche il concetto di residualità rappresenta il cardine su cui si snodano le più importanti decisioni aziendali.

All’azionista viene assegnata la parte residuale della ricchezza. Una volta detratti tutti i costi e pagate le tasse all’azionista rimane infatti il reddito.
Ecco allora che, manager e imprenditori potrebbero, e purtroppo in molti casi lo fanno veramente, considerare tutti gli altri stakeholder (soprattutto quelli interni) come dei nemici da combattere in quanto componenti che rischiano, trasformati in spese, di compromettere l’esistenza stessa della parte residuale e cioè il reddito.
Nella stessa terminologia ragionieristica è enfatizzato questo concetto quando parliamo di prospetto Profitti e Perdite. La remunerazione del lavoro è una Perdita.
In un sistema così delineato molti studiosi comunque affermano l’assoluta sovrapposizione fra il bene dell’impresa e la remunerazione dell’azionista. Se l’impresa fa reddito allora il manager e l’imprenditore hanno fatto il loro dovere e hanno contribuito al bene comune.
C’è spazio all’interno della residualità per la bontà a cui ogni buon cristiano è chiamato? Il tutto non si riduce semplicemente a una quota del “proprio e sudato” reddito che l’azionista destina ad altri fini come una sorta di beneficenza?
Tutte le azioni si trasformano in Perdite e addirittura la scelta di rispettare semplicemente gli obblighi contrattuali e di legge rischia di essere fatta in funzione dello stato d’animo di chi ha in mano le leve dell’impresa. Quando concorrenza e difficoltà del mercato o problemi organizzativi prendono la prevalenza, allora la bontà, e ancora prima l’etica, vengono considerate un intralcio stolto.
Ma "la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1Cor.) ed ecco che l’imprenditore e il manager cristiano dovrebbero avere delle leve diverse su cui misurare la loro attività per non cadere nella trappola dell’equazione “spese uguale nemici”.
Anni e anni di ragioneria, sperando con questo di non attirarmi le ire di qualche collega, hanno contribuito a rendere questa trappola quanto mai efficace.

Perché quando parliamo di ricchezza di un Paese parliamo di PIL (la somma dei valori aggiunti) e poi quando parliamo di impresa parliamo di reddito? Adottando lo stesso criterio utilizzato per misurare la ricchezza aziendale dovremo forse parlare di ricchezza di un Paese in funzione delle imposte che riesce a raccogliere?
Perché anche in sede OCSE si sta discutendo di andare oltre il PIL non ritenendolo più adeguato e addirittura fuorviante e quando poi analizziamo le nostre responsabilità come produttori dei PIL aziendali, che una volta tutti sommati vanno a formare il PIL nazionale, ci limitiamo a guardarne solo una fettina?
Perché un imprenditore che effettua una scelta di delocalizzazione non tiene conto della porzione di PIL che viene portata in un altro paese e che, se non riesce a ricreare lavoro, Lui manterrà la propria fetta di ricchezza, ma vivrà in un paese più povero?

Iniziare a diffondere all’interno delle imprese e degli enti la concezione di valore aggiunto rappresenta, secondo me, una piccola e silenziosa rivoluzione: e sono convinto che alla fine potrebbe essere un silenzio assordante.
Attraverso l’analisi del valore si ha una più chiara percezione dei momenti che caratterizzano la vita dell’impresa: la creazione di ricchezza e la sua successiva distribuzione.

La creazione della ricchezza
. Utilizzando risorse della terra (materie prime a loro volta arricchite del lavoro di altre imprese ed energia), il sapiente lavoro degli uomini crea prodotti per migliorare la vita di altre persone.
Il momento di creazione della ricchezza attraverso il lavoro trova ampio spazio nella Parola di Dio. La sintesi di materia e lavoro è presente nel momento centrale della Celebrazione Eucaristica: “frutto della vite e del lavoro dell’uomo”.
Perché allora parlare solo del profitto del vignaiolo?
In questo lavoro creativo di sintesi fra materia e lavoro, donati entrambi da Dio all’uomo, l’orientamento al bene comune pone di fronte questioni che possono toccare profondamente la coscienza imprenditoriale.
Prima questione fra tutte proprio il tipo di prodotto: ha senso produrre e ricercare soluzioni per una fascia di popolazione sempre più ricca ed esigente o dovremo indirizzare una parte della nostra forza creativa per trovare prodotti e soluzioni per le esigenze delle persone meno abbienti, dei più deboli, se non addirittura verso i poveri in modo da migliorare la loro esistenza?
Particolarmente significativo a questo proposito è il contributo di Porter, quando parla di valore condiviso che dal punto di vista strategico implica realizzare prodotti che contribuiscano al bene dell’impresa, ma che contribuiscano anche a migliorare le condizioni umane sulla terra
Con questo orizzonte anche la parola Competizione assume il significato che a noi cristiani è particolarmente caro: non è mors tua vita mea, ma la vittoria di chi ha saputo trovare la soluzione migliore.

E’ assolutamente banale affermare che il valore dei prodotti realizzati deve essere maggiore di quello che viene acquistato, ma anche qui una coscienza per il Bene Comune impone delle riflessioni. Il valore creato deve per forze essere il massimo?
Ha senso chiedere al fornitore sempre il prezzo più basso e le condizioni più favorevoli?
In un’azienda metalmeccanica quotata alla Borsa Valori di Milano, il nuovo Direttore Finanziario propose all’Imprenditore di allungare i termini di pagamento di tutti i fornitori. La risposta fu di non farlo con i piccoli artigiani che avrebbero dovuto chiedere affidamenti bancari ad un costo superiore a quello ottenibile dall’azienda.
E che valore ha la fedeltà di un cliente o la serietà di un fornitore? Sono quesiti che imprenditori e manager si pongono tutti i giorni, ma che possono trovare veramente nuove risposte attraverso il discernimento personale che una coscienza orientata al bene comune porta a fare considerando la propria impresa come luogo di creazione di ricchezza.
Il risparmio di un componente non viene più visto solo come un minor costo, ma rappresenta prima di tutto un minor utilizzo delle risorse del pianeta o addirittura la possibilità di rendere accessibile un buon prodotto a una fascia più ampia di persone.


La distribuzione di ricchezza
. La differenza quindi fra i ricavi dai clienti e la remunerazione ai fornitori per materie prime ed energia determina la ricchezza prodotta dall’impresa. Il nuovo orizzonte è oggi utilizzare il driver della distribuzione del Valore Aggiunto nella vita di tutti i giorni e non solo al momento di redazione di un Bilancio Sociale.
Una volta assolti obblighi contrattuali minimi, la distribuzione di una parte della ricchezza a uno stakeholder rispetto ad un altro – inclusi gli azionisti – è una scelta che dipende dai valori di chi ha le deleghe formali e morali nella gestione.
Un corso di formazione o la realizzazione di un asilo nido non è più un atto di magnanimità o di beneficenza che l’imprenditore fa togliendosi una parte di reddito, ma una scelta di distribuzione di una maggiore fetta di ricchezza alla “comunità interna” che chi gestisce l’impresa compie unendo considerazioni legate alla razionalità, come ad esempio la volontà di avere più attaccamento all’impresa, ma anche a considerazioni legate alla sfera dei valori: vale più il sorriso dei bimbi e la possibilità per le mamme di continuare a lavorare o vale di più qualche punto percentuale di EBITDA?
E’ indiscutibile che questo tipo di decisioni diventa particolarmente difficile quando il valore creato stenta addirittura ad assolvere gli obblighi contrattuali o impedisce all’impresa di reinvestire per il proprio sviluppo.
E’ però in questa fase che credo si manifesti realmente quella coscienza per il Bene Comune su cui si deve lavorare.
E’ qui che le decisioni non dipendono solo dal “sapere” e dal “saper fare”, ma anche e soprattutto dal “saper essere”.
L’amore per il prossimo prende allora il sopravvento sull’egoismo: il vitello d’oro rappresentato dalla smania di arricchimento personale lascia il posto all’emozione intima e profonda di aver creato dei posti di lavoro, di avere messo in moto e aver creato valore per clienti e fornitori, di aver contribuito al miglioramento della vita umana sulla terra.
Infosys Technologies è una società indiana, quotata in USA, che ha un volume di affari di oltre 25 miliardi di dollari, ma i suoi fondatori, la signora e il signor Murty, hanno un budget familiare di 130 euro mensili. Narayan Murty afferma in una intervista “il benessere va distribuito affinché l’eccedenza di ricchezza di pochi diventi il futuro di molti”.

Solo in questa ottica di creazione e di distribuzione della ricchezza diventa possibile comprendere le parole del Maestro che a volte sembrano un paradosso all’interno della vita economica: non potete servire Dio e il denaro.
Qualche anno fa un’imprenditrice nel settore della Consulenza di Direzione in un paese asiatico, dopo aver raccontato le politiche della sua società nei confronti delle due Comunità, Interna ed Esterna all’impresa, chiuse la propria testimonianza affermando che il reddito della sua impresa aveva un ranking più basso rispetto alle società internazionali che operavano nel suo paese e affermò testualmente: “ma a noi sta bene così!”.

Anche a noi cristiani, forse, dovrebbe “star bene così”.

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