Come affermano Michael Porter e Mark Kramer nel numero di gennaio/febbraio 2011 dell’Harvard Business Review , “il sistema capitalistico è sotto assedio”. Le imprese sono sempre più viste come una delle principali cause di problemi sociali, ambientali ed economici della comunità. L’effetto degli scandali Enron, BP, Cirio, Parmalat, Fukushima è stato disastroso. L’idea che si è diffusa è che le imprese prosperino “grazie” e a “spese” della collettività.

Nel nostro Paese queste “idea” è poi aggravata da un’antica cultura anti-impresa di forte stampo ideologico che considera le imprese (e con esse i capitalisti, gli imprenditori e i manager) il “male assoluto”. Credo sia urgente ed inderogabile uno scatto d’orgoglio, una nuova visione, un nuovo umanesimo, che ponga al centro di ogni azione economica, l’uomo insieme al business e al profitto.
Il fare impresa deve essere coniugato con altri valori ed in particolare:
■ la sostenibilità ambientale: intesa come rispetto dell’ambiente e delle generazioni future evitando il rischio green wash;
■ la responsabilità sociale: che va indissolubilmente legata alla sostenibilità. Anche le linee guida della nuova ISO 26000:2010, “Guida alla responsabilità sociale”, assegna alla responsabilità sociale il compito esclusivo di contribuire allo sviluppo sostenibile (vedi Box);
■ l’ascolto ed il coinvolgimento degli stakeholder: le imprese devono imparare a rispettare, ad ascoltare, a rispondere ai propri stakeholder. Le parole chiave del coinvolgimento sono: rendicontazione, trasparenza, comportamenti etici.

Obiettivo finale, dicono Porter e Kramer, è quello di creare valore condiviso inteso come “l’insieme delle politiche e delle pratiche operative che rafforzano la competitività delle aziende migliorando, nello stesso tempo, le condizioni economiche e sociali della comunità in cui l’impresa opera”. La creazione di valore condiviso si focalizza quindi sull’individuazione e sull’espansione delle connessioni tra progresso economico e progresso sociale. Valore condiviso non significa, come troppi attori pensano, adottare una politica alla Robin Hood (togliere alle imprese per dare alla società), né pensare che le aziende da sole, siano in grado di risolvere tutti i problemi della collettività. Significa ridare dignità al business e considerarlo strategico per lo sviluppo economico e sociale della società.
Le imprese, per contribuire a raggiungere questo obiettivo, devono però smetterla di considerarsi estranee al bene comune e alla creazione di capitale sociale. Vestirsi di “verde” e di “sociale” non basta più. È necessario cambiare paradigma se si vuole dare una nuova prospettiva, un nuovo futuro al “fare impresa” e con esso una nuova credibilità, dignità, legittimità all’imprenditore. Si tratta di una visione allargata che “utilizza” il sociale e l’ambiente per una nuova tensione creativa tesa alla ricerca di un nuovo sviluppo economico.
Se le imprese sapranno dare una risposta a questi nuovi bisogni, a questi nuovi mercati, in modo creativo e se tutti adotteremo una nuova etica della responsabilità (sia individuale che d’impresa) le performance delle organizzazioni potranno influenzare positivamente:
• il loro vantaggio competitivo;
• la loro credibilità e la loro reputazione;
• la capacità di attirare e mantenere i talenti migliori, i clienti più profittevoli;
• la motivazione, l’impegno e la produttività dei dipendenti;
• la fiducia degli investitori e della comunità finanziaria;
• le relazioni con il processo decisionale pubblico, i mass media, la società civile, la comunità.
Non si tratta, quindi, o almeno non solo, di essere più responsabili ma di fare meglio impresa.

Come creare valore condiviso?
Fare meglio impresa significare adottare comportamenti che hanno l’obiettivo di riconciliare business e società. In altre parole, significa riavvicinare e connettere armoniosamente la sfera economica con quella sociale. Non è più sufficiente infatti, per le imprese, utilizzare singoli strumenti di CSR (bilancio sociale, codice etico, ecc.) o dichiararsi “socialmente responsabili”.
Se il nuovo paradigma vuole andare oltre la CSR, oltre la filantropia e la sostenibilità, se vuole essere un nuovo approccio al successo economico; se vuole stare al “centro” della strategia dell’impresa e non alla periferia, qual è il nuovo framework all’interno del quale collocare il dialogo tra impresa e comunità, in ottica di valore condiviso?
Prima di presentare le ipotesi concrete di Porter e Kramer secondo le quali è possibile costruire valore condiviso, introduciamo, citando Andrea Granelli (L’Impresa n° 5/2011), i pilastri sui quali dovrebbe basarsi un’azienda virtuosa che non guarda solo alla rendicontazione “trimestrale”, ma che guarda oltre se stessa, senza sacrificare né l’ambiente né l’uomo.
L’azienda che non guarda solamente alla crescita come unico valore (e che Granelli chiama “impresa generativa”):
a) costruisce la propria missione sul valore sociale, dove il profitto è strumento non scopo;
b) è organizzata su “base artigianale” nel senso che valorizza sempre il sapere, le conoscenze e la creatività dei singoli, il saper fare (le competenze), il loro saper essere (motivazione, responsabilità, leadership, ecc), il che non esclude l’utilizzo degli strumenti che la contemporaneità e l’innovazione mettono oggi a disposizione;
c) è fortemente radicata nel territorio (“pensa globalmente, agisce localmente”);
d) gestisce le risorse umane con umanità, merito, comprensione e rispetto.

Per far questo l’azienda non può più viversi come un’isola e deve adoperarsi in tutte le fasi della sua vita affinché la comunità in cui opera sia in “buona salute”. La CSR non è quindi più sufficiente e il legame tra l’impresa e la comunità deve diventare centrale e non un fattore da attivare solo in caso di crisi (interna o esterna), di perdita di reputazione, di calo delle vendite.
Porter e Kramer nel ridefinire la catena del valore in ottica di “valore condiviso”, individuano alcune aree nelle quali è necessario concentrare gli sforzi e sperimentare, da subito, il nuovo approccio.

Energia e logistica
Sull’uso dell’energia è già in atto una profonda ristrutturazione: dalla produzione al trasporto; dalla supply chain al risparmio energetico degli edifici; dal riciclo alla cogenerazione, ecc. Le opportunità in questo settore, spesso definito con il termine green economy, sono vastissime.
Esempio: Marks & Spencer che prevede di ridurre l’acquisto di forniture che vanno trasferite da un emisfero all’altro.

Uso delle risorse
In questo ambito c’è molto da fare ma per coglierne le opportunità basti pensare all’utilizzo dell’acqua, al packaging, al riciclaggio e al riutilizzo delle materie.
Esempio: Cola Cola ha già ridotto del 9% il consumo globale di acqua rispetto al 2004 ed è quasi a metà del percorso che dovrebbe farle raggiungere l’obiettivo di una riduzione del 20% entro il 2012.

Acquisti e rapporti con i fornitori
In questo settore si va sempre più diffondendo la consapevolezza che marginalizzare e “sfruttare” i fornitori, aumenta la conflittualità, rende complessi i processi, riduce la qualità. Alcune esperienze nel consumo equo e solidale, anche nel nostro Paese, sono già rilevanti (anche da parte di grandi aziende).

Produttività e benessere dei dipendenti
Si va sempre più diffondendo una nuova consapevolezza sugli effetti positivi che un salario dignitoso, la sicurezza sul lavoro, il benessere, la formazione permanente, la possibilità di conciliare i tempi di lavoro con i tempi di vita, la gestione della diversità, una maggiore attenzione alle pari opportunità, possono avere sulla creazione di valore condiviso. In alcuni casi le esperienze sono solo ai nastri di partenza, in altri le esperienze maturate e trasferibili sono già molte e significative.

Localizzazione

La ricerca del costo di produzione (leggi “costo del lavoro”) più basso non sempre compensa i maggiori costi di trasporto, i costi ambientali, i costi per costruire buoni rapporti con la comunità locale. Se prima si inseguivano i paesi con i più bassi costi di manodopera, oggi i fenomeni più evidenti sono la “catena corta” (vedi l’esperienza dei “prodotti a chilometri zero”) e la riduzione del numero delle sedi produttive (dal produttore al consumatore).

Per concludere, non voglio né illudermi né illudere il lettore. Sicuramente la strada da fare è ancora lunga e richiederà il costante impegno di tutti gli attori a partire dai Governi e dalla Pubblica amministrazione.
Anche le imprese dovranno modificare radicalmente il loro approccio al mercato e dovranno adottare modelli e processi – produttivi e di governance – più attenti all’uomo, alla comunità e all’ambiente. Dovranno inoltre cercare un dialogo sincero e trasparente anche con il variegato mondo del non profit, soprattutto quello dell’impresa sociale.
Di una cosa siamo ormai certi: i “palliativi” della CSR non sono più sufficienti: serve un approccio radicale ed etico alla responsabilità che veda la crescita sociale come obiettivo centrale e non secondario dell’impresa.
La Corporate Social Responsability non va per questo demonizzata (è “solo” marketing!), né va utilizzata per costruire una buona immagine (quando la coscienza è sporca!). “I programmi di CSR – affermano Porter e Kramer – si focalizzano principalmente sulla reputazione e hanno un collegamento limitato con il business, il che rende difficile giustificarli e mantenerli nel lungo periodo. Per contro la creazione di valore condiviso è funzionale alla profittabilità e alla posizione competitiva dell’azienda. Sfrutta le risorse specifiche e le sue expertise per creare valore economico attraverso la creazione di valore sociale”.
Il nuovo paradigma rende di grande attualità le parole pronunciate da Henry Ford nei primi anni del secolo scorso: “L’impresa deve essere gestita con profitto altrimenti muore. Ma quando la gestione mira unicamente al profitto, l’impresa è condannata a morte, perché non ha più alcuna ragion d’essere”. Una sfida che vale la pena affrontare per la nostra stessa sopravvivenza.

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?