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Di recente mi è capitato di viaggiare all’interno di mezzi pubblici sempre più affollati. Mi sono chiesta: è peggiorato il servizio o siamo aumentati noi? Non so dare una risposta, ma raccogliendo qua e là gli umori della gente, la sensazione generale è che (gli altri) sono sempre troppi, le risorse scarseggiano e in futuro la coperta sarà sempre più corta.

Questa teoria, dal sapore “vagamente” malthusiano, ci porta spesso a pensare che la crescita demografica sia uno dei mali del nostro tempo, una bomba che prima o poi esploderà. Ma come, noi che dopo il baby boom (nel 1964 in Italia nascevano oltre un milione di bambini) siamo oggi il paese con un tasso di fecondità tra i più bassi d’Europa, crediamo ancora a queste leggende? Pensiamo veramente che basti estrapolare i trend di crescita del passato per avere un’idea del futuro? Piuttosto dovremmo mettere da parte i nostri timori primitivi e comprendere i meccanismi di riequilibrio che, nel corso della storia, sono passati attraverso lo sviluppo economico e quella che gli studiosi chiamano “transizione demografica”, cioè il passaggio dal vecchio regime, caratterizzato da alti livelli di natalità e mortalità – e un rapporto generazionale stabile- a quello contemporaneo, dove la vita media si è allungata di molto, il rischio di mortalità è diminuito drasticamente e con esso, anche il numero di nascite.
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rnNel recente libro Goodbye Malthus, gli autori Alessandro Rosina e Maria Letizia Tanturri ci spiegano in modo chiaro ed efficace perché la tanto temuta bomba demografica sia in fase di disinnesco.
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rnSecondo le stime più recenti, si prevede che la popolazione mondiale, dagli attuali 7 miliardi, nel 2050 supererà la soglia dei 9 per poi tendere alla stabilizzazione. Oltre 1 miliardo in meno rispetto alle previsioni di 15 anni fa. In più, secondo l’Onu, nella seconda metà del XXI secolo entreremo in una fase di crescita zero. Se siamo molti di più oggi è perché viviamo molto più a lungo e, a dispetto delle previsioni di Malthus, le nostre condizioni di vita nel tempo sono notevolmente migliorate. Del resto, non era forse questo l’obiettivo dell’uomo, di superarsi continuamente?
rnLe previsioni del demografo inglese e dei suoi seguaci sono legate all’idea della crescita esponenziale che caratterizza la fase centrale della transizione, quando la mortalità si riduce, ma la fecondità rimane elevata: si tratta di una parentesi temporanea e lo dimostra il fatto che oggi nella maggior parte dei paesi del mondo il numero medio di figli per donna è al di sotto del livello di rimpiazzo generazionale.
rnLa rivoluzione industriale, inoltre, ha smentito quanti credevano la ricchezza non potesse crescere a ritmo superiore rispetto alla popolazione. Quindi stiamo meglio, senza dubbio, dei nostri avi, salvo poi dover dover fare i conti con le conseguenze drammatiche delle diseguaglianze distributive tra Nord e Sud del mondo.
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rnIl punto è che il benessere del XXI secolo non dipenderà tanto dal numero di persone che popoleranno il nostro pianeta, quanto dal modo in cui riusciremo ad affrontare una serie di nuove sfide: l’allungamento della durata di vita, la bassa fecondità, i flussi migratori dai paesi poveri e i cambiamenti di carattere culturale che hanno portato a nuovi modi e tempi di formazione delle famiglie.
rnL’infecondità volontaria, ad esempio, è un fenomeno ancora poco studiato, ma come ci mostrano gli autori, essere childfree oggi è una tendenza sempre più diffusa. La scelta di non avere una famiglia numerosa o addirittura di non avere figli risente dei cambiamenti sociali e culturali oltre che economici: le donne sono sì entrate nel mercato del lavoro, ma si trovano spesso a dovervi uscire. Senza strumenti efficaci di conciliazione l’arrivo di un figlio si traduce, nel bilancio famigliare, in maggiori uscite, (pensiamo solo all’istruzione!) e minori entrate; i costi poi salgono col numero e l’età dei figli e quindi decidere di averne uno in più vuol dire sempre meno tempo libero e minor benessere economico.
rnAnche la longevità, diventando un bene sempre più diffuso, contribuisce a un vero e proprio squilibrio intergenerazionale. E a pagare il prezzo più alto sono sempre le donne, le rappresentanti della “generazione sandwich” schiacciate tra il lavoro di cura dei figli (che stentano ad abbandonare la famiglia d’origine) e dei genitori anziani.
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rnIl divario che si è venuto a creare negli ultimi decenni rappresenta un problema a livello macroeconomico e previdenziale: oggi, in Italia, 100 persone in età lavorativa ne mantengono 52, tra anziani e giovani. Questo indice di dipendenza strutturale, secondo le proiezioni ISTAT nel 2050 dovrebbe salire a 85 non lavoratori su 100. I sistemi pensionistici dei paesi sviluppati sono al collasso e sarà difficile trovare un giusto equilibrio tra i diritti dei vecchi lavoratori e criteri di equità tra le generazioni.
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rnSu cosa si dovrebbe investire per prepararsi a questo scenario? Secondo la ricetta dei ricercatori, le leve sulle quali puntare oggi sono: giovani, donne e stranieri. Lo sentiamo spesso nei proclami politici: le donne sono una risorsa per lo sviluppo, ma nel concreto, soprattutto in Italia, si fa poco per incoraggiare l’occupazione femminile il cui tasso oggi rimane attorno al 46% (siamo penultimi nell’Europa a 27). Quante volte abbiamo sentito ribaltare l’equazione “+ lavoro – famiglia”? Dovrebbe oramai essere di dominio pubblico che i paesi dove si fanno più figli sono quelli in cui le donne sono occupate in proporzione maggiore e dove si riscontra un’effettiva uguaglianza di genere.
rnRiguardo alla spesa sociale poi, quello che manca è il riconoscimento che il sostegno alle famiglie non è un costo, ma un investimento per il futuro, in termini di crescita economica e uguaglianza sociale; oggi la crisi economica è un alibi in più per non dare una risposta a un problema che, come una spirale al ribasso, porterà in nostro paese verso un futuro quanto mai incerto.
rnIn questi giorni si è ritornati a parlare della ridefinizione del sistema fiscale nazionale. Bene, se sono in programma degli interventi strutturali, così come è stato detto, perché non riconsiderare il tanto sbandierato quoziente familiare o, comunque, un fisco più vicino alle famiglie?
rnRiguardo agli immigrati, sappiamo bene che grazie a loro le culle italiane sono meno vuote. Ma tocca agli stranieri sanare i nostri squilibri demografici? Gli esperti dell’ONU hanno stimato il fabbisogno di stranieri nelle aree sviluppate per rispondere al declino della popolazione: nel nostro paese, per mantenere stabile l’ammontare totale occorrerebbe un flusso di 250 mila stranieri l’anno. Una cifra considerevole che non saremmo in grado di gestire senza una politica d’integrazione e un welfare veramente lungimiranti: “è stato dimostrato che una politica ostile nei confronti degli stranieri […] non riduce la quantità dell’immigrazione, ma ne abbassa solo la qualità. Sia perché scoraggia l’arrivo del capitale umano migliore […] sia perché non consente a chi è qui di migliorarsi e di dare il meglio di sé”.
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rnQuindi, ciò che ci resta da fare è attrezzarsi al cambiamento: “Siamo a un passaggio unico nella storia. Una società nuova deve essere costruita, ridisegnata attorno alla permanente presenza di un’abbondante quota di popolazione ricca d’età. Una società più riflessiva e moderata, ma non necessariamente più rigida e chiusa. Una società nella quale vanno ripensate e riplasmate le varie fasi di vita”.
rnPer i nostri studiosi, la strategia vincente nell’era del rischio è quella di imparare a gestirlo, assumendosi le responsabilità del cambiamento che è in atto con consapevolezza e maturità. Occorre cambiare paradigma, passare dalla riduzione della quantità al miglioramento della qualità; occorrono sviluppo tecnologico e innovazione energetica, un’azione decisa delle istituzioni per favorire lo sviluppo del capitale umano, che si tratti di giovani, meno giovani, donne e immigrati; un cambiamento negli stili di consumo da parte di ognuno. Continuare a pensare che sono gli altri ad essere troppi non porta a nulla: la qualità del nostro futuro dipende anche dai nostri comportamenti, dalla nostra coscienza di cittadini responsabili.
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