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di Mario Compiani*
rnL’iniziativa Foldit, lanciata da gruppi di ricerca statunitensi, mira ad affrontare in modo originale un problema della scienza delle proteine che da anni resiste agli sforzi reiterati di mezzo mondo, il problema di sapere quale forma tridimensionale acquisterà una proteina sotto la spinta di forze che sono dettate principalmente dalla composizione chimica della proteina e dell’ambiente circostante. La questione è ovviamente fondamentale dato che le proteine, oltre al DNA, sono i costituenti basilari degli esseri viventi. Per rendere l’idea, se la proteina allo stato grezzo è, di suo, un lungo filamento, si tratta di sapere come poi si avvolge su se stessa. Darà luogo ad un gomitolo tondeggiante, con o senza nodi, a una matassa compatta oppure lasca?

La trovata del gruppo americano sta nell’aver riformulato il problema strutturale in modo da poter coinvolgere un pubblico di non scienziati quanto mai eterogeneo. Più precisamente, il problema della determinazione della struttura tridimensionale delle proteine è stato messo in forma tale da assomigliare ad un videogioco simile a quello che andava per la maggiore qualche tempo fa (Tetris), ma in tre dimensioni. A questo punto si solletica l’amor proprio o lo spirito di competitività di schiere di giocatori dando punteggi alle varie soluzioni trovate e il gioco, è il caso di dire, è fatto.
Legioni di volonterosi nelle varie zone del globo dedicano tempo e sforzi a combinare i pezzi proteina come in un Lego tridimensionale allo scopo di realizzare la struttura che totalizzi il massimo punteggio. Naturalmente il punteggio è stato pensato in modo da privilegiare la conformazione che soddisfi tutti i requisiti significativi da un punto di vista biologico e chimicofisico.
Ma perchè non demandare le operazioni ad un computer? Il coinvolgimento di giocatori umani si spiega col fatto che questi ultimi riescono a mettere in campo capacità intuitive di coordinamento spaziale, che le macchine posseggono in misura decisamente inferiore.
Franca D’Agostini (Corriere della Sera di Sabato 1 Ottobre 2011) ha commentato l’iniziativa Foldit e indicato senza esitazioni il nuovo stile di ricerca basato sul concorso di non scienziati, come esempio di “democratizzazione della verità”. Mi pare che pecchi di ottimismo e che il giudizio non sia appropriato.
A ben guardare, si tratta sì di un allargamento della base dei soggetti coinvolti nell’impresa, ma con una delega molto elementare. Direi piuttosto che in questo caso vediamo ancora una volta i principi del fordismo e del taylorismo che sono già stati applicati all’organizzazione del lavoro scientifico, anzi, di quel lavoro che ha pretese molto più ridotte, che è il lavoro di calcolo. E’ successo nei laboratori di Los Alamos durante la costruzione della bomba atomica, dove i calcoli di integrali o di
espressioni complicate venivano spezzettati in frammenti elementari che erano poi affidati, ciascuno, ad una singola operatrice la quale si limitava ad eseguire operazioni semplici e ripetitive sui dati che le pervenivano da un’altra operatrice situata a monte nella catena umana. I risultati venivano poi passati ad un’ulteriore operatrice a valle e così via. Più vicino a noi, negli anni Trenta, anche negli uffici dell’ISTAT le cose andavano così.
Si tratta allora di un principio di eccellenza limitata, consistente nel circoscrivere e nel rendere ripetitive le mansioni di ogni operatore in modo da raggiungere la massima affidabilità. Poco ma bene, e sempre lo stesso poco. Va da sè che le operatrici nulla sapevano del senso fisico o statistico del calcolo che pure contribuivano ad eseguire. Tornando a Foldit, in questo gioco si mette in opera una analoga strategia di divisione del lavoro, ma con modalità parallele piuttosto che seriali. Vale a dire che a Los Alamos un unico compito era segmentato e distribuito tra diversi operatori agivano sequenzialmente, mentre in Foldit il medesimo compito viene eseguito indipendentemente da tanti operatori al fine di disporre di più soluzioni tra le quali selezionare quella ottimale. L’ulteriore novità rappresentata da Foldit è che si mimetizza un complesso problema scientifico dandogli le parvenze di un videogioco, in modo da sfruttare le capacità combinatorie di enormi schiere di pervicaci giocatori per cercare la combinazione ottimale. Sempre per rendere la cosa un po’ più familiare, sarebbe come sfruttare le capacità delle scimmie di pigiare i tasti di una tastiera, ed attendere che dagli sforzi congiunti e casuali di un esercito di siffatti “poeti” uscisse prima o poi una terzina dantesca. Quand’anche ci si riuscisse, vedo difficile sostenere che si sia realizzata una “democratizzazione della poesia”. Quegli onesti primati hanno pigiato tasti, ma nulla sanno di metrica e di ispirazione poetica. Qualcun altro decide quale sia la terzina soddisfacente, questo è il punto. E se la conoscenza sta altrove ed è appannaggio di altri, non si può certo parlare di democratizzazione. Vale la pena di ricordare in proposito le opinioni di Bobbio secondo cui il segreto tecnocratico è foriero di antidemocrazia. Ci troviamo quindi agli antipodi della presunta “democratizzazione della verità”.

C’è un altro aspetto che merita di essere approfondito. Mi pare che la strategia di Foldit rientri nel quadro dell’opera di ludicizzazione (in inglese hanno coniato il neologismo gamification) che sta guadagnando terreno nei campi più disparati. Il termine sta ad indicare la traduzione di operazioni o condotte umane in termini ludici, allo scopo di motivare gli attori riottosi o refrattari che sarebbero insensibili alle motivazioni reali, troppo poco coinvolgenti ed accattivanti. Si tratta di quello che una volta si diceva “indorare la pillola” e un buon esempio viene illustrato nell’articolo “The Recycle Bank” di cui il Corriere ha parlato il Sabato 15 Ottobre scorso. In quel frangente si tratta di indirizzare la cittadinanza neghittosa a praticare la raccolta differenziata dei rifiuti, facendo leva sull’istinto ludico dei più. La filosofia è sempre quella di travestire il compito di per sé poco attraente tramutandolo in una versione giocosa con tanto di premi e punteggi. Foldit dunque come esempio di ludicizzazione con la sfumatura, che a mio giudizio è aggravante, che qui gli attori sono praticamente all’oscuro delle ragioni che stanno dietro al gioco. Fatico comunque a vedere il lato positivo di questo approccio ludico alle difficoltà, che mira a motivare i cuccioli d’uomo ad assumere comportamenti che pure hanno valide e a volte inoppugnabili giustificazioni razionali. Lo si fa con gli infanti, quando ancora non sanno capire. Ma mi pare deleterio perseverare con gli adulti perché significherebbe prender atto di una irrimediabile difficoltà di crescere e di recepire argomentazioni razionali.

Ulteriore ripercussione discutibile di Foldit è che l’impresa sfrutta quella dedizione compulsiva ai videogiochi o al mondo di Internet che non ha affatto bisogno di essere incoraggiata, visto che già costituisce un motivo di allarme. Si veda in proposito l’inaugurazione nel 2009, presso il Policlinico Gemelli di Roma, di un’unità per il trattamento delle patologie legate all’abuso di Internet. Ma anche nella Corea del Sud, tanto per citare un esempio non europeo, la dipendenza da Internet è una delle emergenze più preoccupanti nel campo della salute pubblica (v. American Journal of Psychiatry, 2008). Il guaio di queste patologie è che si accompagnano ad una progressiva riduzione della partecipazione attiva alla vita civile e all’impegno politico. E ne vediamo gli effetti devastanti! Ma la cosa non finisce qui. Il panegirico di Foldit prosegue, sempre sul Corriere della Sera, in data Sabato 10 Dicembre 2011. Nell’articolo di Viviana Mazza si riportano le parole entusiastiche di Zoran Popovic, l’informatico dell’università dello stato di Washington che, in collaborazione con il dipartimento di biochimica, ha lanciato il gioco Foldit. Popovic saluta “l’emergenza di una nuova specie di esperti di biochimica” e conclude che Foldit “è il primo gioco che ha mostrato che è possibile trasformare dei principianti in individui abilissimi a risolvere problemi complessi. E’ il primo progetto di citizen science che ha mostrato che l’ambiente dei giochi sociali è un naturale luogo di inclusione di piattaforme di apprendimento.” La giornalista, a sua volta, saluta con estremo compiacimento la transizione dal citizen journalism alla citizen science. Mi pare evidente che il fraintendimento dei termini reali della questione accomuni questo articolo al precedente, ma in aggiunta apprendiamo che il duplice fraintendimento giornalistico è figlio di un fraintendimento o di una mistificazione originari, palpabili nel commento di Popovic. Semplificando un po’, è mia opinione che le abilità che si sfruttano in Foldit sono le stesse dell’uomo pleistocenico che è in ciascuno di noi, come diceva Gadda, per cui è difficile credere che i giocatori di Foldit diventino abilissimi risolutori di rompicapi scientifici. Condividere l’entusiasmo di Popovic equivarrebbe a dire che il soldato americano medio durante la guerra del Vietnam è stato un eccellente tiratore; peccato però che si stima che per ogni nemico ucciso siano stati sparati 50 mila colpi. Evidentemente tra un esperto biochimico e il giocatore di Foldit passa la stessa differenza che esiste tra un cecchino provetto e il fante americano medio nel conflitto vietnamita.
Per quanto cinico possa essere il paragone, in entrambi i casi il bersaglio può essere cercato alla cieca o secondo un’arte consumata e una tecnica affinata. Ma è proprio in questi termini che si misura l’abissale divario tra lo scienziato addestrato e il giocatore di Foldit.

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*Dipartimento di Scienze chimiche – Università di Camerino

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