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Il tema della responsabilità sociale delle imprese (RSI) è balzato prepotentemente alla ribalta nel nuovo scenario dell’integrazione globale dei mercati.

In un contesto nel quale gli stati e le rappresentanze nazionali sindacali sono sempre più in difficoltà nello svolgere il loro tradizionale ruolo di contrappeso nei confronti delle imprese e nel correggere le esternalità negative che esse possono generare nella loro attività di creazione di valore economico, l’opinione pubblica sollecita, in misura sempre maggiore, la presa di responsabilità da parte delle imprese stesse delle conseguenze sociali ed ambientali della loro azione. I criteri adottati dalle principali agenzie di rating sociale a livello internazionale (Domini, Ethibel, ecc.) ci aiutano a formulare una definizione sintetica di RSI in termini di parziale cambiamento della “funzione obiettivo” dell’impresa, con il passaggio dalla massimizzazione della ricchezza degli azionisti alla massimizzazione benessere di un insieme di portatori d’interesse (stakeholder) che include i dipendenti, i fornitori, le comunità locali, le generazioni future.
La posizione più critica nei confronti della responsabilità sociale d’impresa nel dibattito teorico tra gli economisti è quella di chi sostiene che la RSI rappresenti una violazione del mandato dei manager nei confronti degli azionisti (Friedman, 1962)ritenendo che, data la complessità della funzione obiettivo modificata e la difficoltà di calibrare al suo interno i pesi degli interessi vari stakeholder (Jensen, 2001), essa possa facilmente dare adito ad eccessi di discrezionalità da parte dei manager. All’altro estremo si ritiene invece che la RSI possa rappresentare la scelta ottimale dell’impresa al fine di minimizzare i costi di transazione con i diversi stakeholder (Freeman, 1982). Interessante inoltre la considerazione che la scelta di RSI può implicare, date le premesse, una minore remunerazione del capitale sociale e dunque una maggiore vulnerabilità dell’impresa a eventuali takeover (Tirole, 2001).
La presenza di un numero sempre più vasto di imprese (il 52% delle 100 maggiori imprese nei 18 paesi più industrializzati secondo il rapporto KPMG del 2005) che redigono un bilancio sociale (anche se, come ben noto, di per sé questo non basta a caratterizzare una scelta di RSI) sollecita una riflessione più approfondita sui costi e benefici di tale scelta per imprese che competono sui mercati. Se, da una parte, il cambiamento di “funzione obiettivo” dell’impresa implica necessariamente dei costi (in termini di maggiori benefici monetari e non corrisposti a portatori d’interesse diversi dagli azionisti), la scelta di RSI ha almeno quattro benefici potenziali nell’attuale contesto economico. Il primo è quello relativo all’opportunità di soddisfare la crescente disponibilità a pagare per il valore sociale ed ambientale dei prodotti da parte dei consumatori (i dati dell’Indagine Mondiale sui Valori, corretti per le distorsioni tipiche di questo tipo di indagini, indicano una quota di circa il 20 percento di intervistati nei vari paesi del mondo disposti a pagare per il valore sociale o ambientale dei prodotti), il secondo è la riduzione dei rischi derivanti da controversie con gli stakeholder, il terzo è l’opportunità di dare un segnale positivo sulla qualità (a prescindere dagli elementi di responsabilità sociale) del proprio prodotto in un contesto di asimmetria informativa, il quarto è la possibilità di incidere positivamente sulla produttività aziendale aumentando la prossimità tra obiettivi aziendali e motivazioni intrinseche dei lavoratori. Questo spiegherebbe perché sempre più imprese tendono a creare delle onlus al loro interno o consentono ai lavoratori di sostituire alcune ore di lavoro con ore di volontariato.
Solo in tempi recenti la letteratura empirica ha iniziato a testare il peso relativo dei costi e benefici sopra descritti verificando il nesso tra responsabilità sociale d’impresa e performance. Le ricerche empiriche su dati di bilancio presentano risultati non univoci per via dell’eterogeneità delle metodologie, dei campioni e degli intervalli temporali considerati e dei criteri adottati per la classificazione delle imprese SR e del campione di controllo. Ciò che sembra comunque emergere è che la scelta di RS determina in genere un effetto debolmente negativo sul ROE ed un effetto debolmente positivo sul valore aggiunto per addetto (Becchetti et al. , 2005). Tali risultati apparirebbero coerenti con il mutamento di funzione obiettivo dell’impresa e sembrerebbero indicare una creazione di valore economico uguale o maggiore con una fetta attribuita agli azionisti uguale o minore.
La scelta di RSI dunque penalizzerebbe gli azionisti ?
Il filone di studi empirici che analizza il suo impatto sui mercati finanziari sembrerebbe escludere una tale relazione.
Se infatti studiamo la performance di strategie passive su portafogli di titoli di imprese SR rispetto ad un campione di controllo osserviamo un rendimento significativamente inferiore, ma anche un rischio significativamente minore (sia in termini di deviazione standard che secondo indicatori più sofisticati come quello della volatilità condizionata asimmetrica). Valutando i due portafogli (imprese SR e campione di controllo) in una prospettiva di rendimenti aggiustati per il rischio dunque il risultato sembra capovolgersi e i portafogli di imprese SR sembrano caratterizzati da una performance uguale o superiore (Becchetti-Ciciretti, 2006). Le due interpretazioni principali di questo risultato sono che la minore rischiosità potrebbe dipendere dalle imprese (riduzione dei costi di transazione con gli stakeholders e dei rischi di controversie legali) o dalla natura degli investitori. La composizione degli investitori nei portafogli di imprese SR si caratterizza infatti per la quota assai elevata di investitori istituzionali con orizzonti di lungo periodo (il più noto è il fondo pensione californiano Calpers con un patrimonio investito di circa 177 miliardi di dollari nel 2005) e assai minore di investitori individuali con orizzonti di breve.
I limiti di questo tipo di analisi sono legati all’impossibilità di controllare il risultato ottenuto per la situazione controfattuale (quale sarebbe stata la performance delle imprese incluse nel campione delle SR se non avessero fatto questa scelta ?), nè per il problema dell’endogeneità (è la buona performance finanziaria, aggiustata per il rischio, che spinge le imprese a scegliere la RS, o la RS a migliorare la performance finanziaria delle imprese ?).
Inoltre, per valutare le performance relative di investitori in portafogli SR è necessario esaminare anche, da un punto di vista teorico ed empirico, i risultati delle strategie attive dei gestori e l’effetto dei costi di transazione. In teoria, per i fondi SR esistono tre costi aggiuntivi: i) il limite alla diversificazione potenziale del proprio portafoglio (per l’esclusione dei titoli di imprese non RS dal novero dei titoli acquistabili); ii) il costo aggiuntivo per l’ottenimento di informazione sulla SR d’impresa; iii) il costo di disinvestimento da un titolo che non rispetta più i criteri di RS in un momento che non necessariamente coincide con quello ottimale per la vendita del titolo stesso. Da un punto di vista empirico Bauer, Koedijk e Otten (2002) in un interessante lavoro valutano la performance relativa di fondi etici, gestiti con strategie attive, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, evidenziando risultati misti, ma sottolineando un effetto di apprendimento positivo dei gestori sulla performance dei fondi etici.  
 
I risultati empirici più recenti sono dunque non univoci e rappresentano soltanto fotografie parziali di un fenomeno in continua evoluzione. L’oggetto di osservazione è infatti in movimento ed il rapporto tra scelta di RSI e performance e gli effetti della RSI sul benessere collettivo dipenderanno dalla dinamica futura delle interazioni tra imprese, istituzioni e “voto con il portafoglio” della società civile.
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