In questi ultimi anni molti economisti si sono spesi per interpretare le cause di una delle peggiori crisi economiche che l’uomo fino ad ora ha conosciuto. La diffusione dei mutui subprime, la bolla immobiliare e la conseguente diffusione di prodotti finanziari tossici (i cosiddetti derivati); il crescere della disuguaglianza dei redditi negli Stati Uniti e il successivo rischioso indebitamenteo dei ceti medio-bassi e i persistenti squilibri nelle bilance dei pagamenti di alcuni paesi sono, in estrema sintesi, le cause di origine finanziaria e strutturale che spiegano il dissesto globale dal quale stiamo uscendo a fatica.

Ma accanto a questi aspetti ne esistono altri, fino ad ora trascurati, che andrebbero recuperati per una conseguente azione di politica economica.
Nella spiegazione culturale della crisi si è posto molto l’accento sui dogmi dell’economia neoclassica (il mito della «mano invisibile del mercato», la fiducia cieca nei meccanismi automatici di riequilibrio del mercato, l’ostilità preconcetta alla regolamentazione, ecc), ma dei fattori etici e del contributo delle virtù morali al funzionamento stesso del capitalismo poco si è parlato.
Mi riferisco al fatto che la virtù della temperanza avrebbe potuto mitigare la mentalità del «volere tutto e subito» non facendo indebitare le persone al di sopra delle loro possibilità; la prudenza avrebbe potuto scongiurare la richiesta di prestiti per l’acquisto delle case senza il supporto di adeguate garanzie; l’onestà avrebbe potuto evitare l’accensione di mutui subprime fondati sulle bugie di coloro che chiedevano, senza averne titolo, denaro in prestito a banche che facevano finta di credere, pur di guadagnare, alle menzogne dei loro clienti con il risultato di accollarsi rischi eccessivi.

Una delle tante lezioni che ci è provenuta dalla crisi è infatti che l’etica (e, vorrei aggiungere, perfino la spiritualità) e il capitale sociale, inteso come insieme di relazioni di fiducia tra persone, sono istituzioni necessarie quanto lo Stato al buon funzionamento dell’economia. Si pensi al ruolo giocato nella crisi dal crollo generalizzato della fiducia nel frenare i prestiti tra banche o nel gettare nel panico le Borse. Un corollario che ne deriva è che, in aggiunta ai comportamenti più virtuosi indotti in modo obbligato da regolamentazioni pubbliche più severe in campo finanziario o innescati dall’auto-regolamentazione del settore (grazie alla possibile adozione di codici etici da parte della categoria professionale degli operatori finanziari), per una fioritura più spontanea e graduale delle virtù nelle persone sarebbe necessaria la paideia, nell’accezione greca del termine. La formazione è infatti strategica nel plasmare il carattere degli individui e tutte le agenzie educative (famiglia, scuola, università, chiesa, ecc) dovrebbero impegnarsi nell’infondere, tramite l’insegnamento, le virtù cooperative senza le quali le società non possono funzionare. Lo stesso modo in cui viene insegnata l’economia dovrebbe essere rivisitato nel senso che dovrebbe essere arricchito di conoscenze di filosofia morale e politica, storia, sociologia, antropologia, psicologia. Un’altra via da esperire per la crescita delle virtù civili potrebbe essere quella di portare le persone a ragionare e agire insieme per risolvere i problemi comuni con un apprendimento morale impostato sul learn by interacting.
La salvaguardia dei beni comuni locali potrebbe fungere da palestra per sperimentare la cooperazione tra privati come forma alternativa di gestione di tali beni, talvolta più riuscita rispetto sia alla loro privatizzazione che all’intervento pubblico, come il premio Nobel Elinor Ostrom ha già dimostrato. Anche il recupero di una dimensione del sacro nelle società contemporanee ipersecolarizzate potrebbe aiutare l’accumulazione di capitale morale visto che molte credenze spirituali e/o religiose hanno reso possibile l’interiorizzazione a livello individuale e collettivo di codici morali utili al vivere civile e quindi anche al vivere economico. Peraltro in tante tradizioni spirituali e religiose (buddismo, francescanesimo solo per citarne alcune) viene consigliata la frugalità come stile di vita, attitudine che, oltre a ridurre i consumi superflui, potrebbe ritornare utile anche alla causa della ricerca della felicità (disinnescando il suo carattere paradossale rispetto all’economia) e a quella del rispetto dei limiti ecologici della Terra.

Sarebbe interessante introdurre, nell’analisi della crisi, anche una prospettiva di genere tanto più che le donne non ne sono state dirette responsabili, ma potrebbero averne pagato di più le conseguenze. Le donne sarebbero più legittimate a concorrere al cambiamento del modello di sviluppo in base a due caratteristiche: la maggiore attitudine alla «connessione-interdipendenza» rispetto agli uomini – che privilegiano invece una dimensione di «separazione-indipendenza» – e l’essere depositarie del paradigma del dono, attraverso l’archetipo del lavoro di cura da loro svolto in ogni tempo e in tutte le società.
Sia la relazionalità che il dono sono estremamente necessari sul piano macroeconomico per connotare la qualità dello sviluppo, ovvero per decretarne la sostenibilità economico-sociale-ambientale. Lo sviluppo non dovrebbe infatti minare la coesione sociale, attraverso un incremento della disuguaglianze, perché ciò va a discapito delle democrazia stessa: l’esclusione sociale scoraggia la partecipazione e può sprigionare reazioni, anche violente, da parte di chi è incolpevolmente umiliato ed espulso dai network sociali con il risultato di un deterioramento del capitale sociale e della messa a repentaglio delle stesse istituzioni (come anche i recenti accadimenti della primavera “africana” dimostrano). Lo sviluppo dovrebbe inoltre essere condotto nell’ottica che siamo solo amministratori fiduciari di risorse ambientali che non ci appartengono, ma che ci sono state «donate» dalla natura e che per questo motivo non devono essere consumate in modo dissennato, ma essere utilizzate in modo sostenibile tenendo conto anche dei posteri.
Entrambe le cose (relazioni sociali e dono) sono poi correlate tra loro e si riverberano beneficamente sullo sviluppo economico: il dono (nella sua accezione relazionale, ovvero il dono effettuato all’insegna
della reciprocità) crea o cementa le relazioni sociali all’insegna della fiducia e le relazioni sociali fiduciarie, come già accennato in precedenza a proposito del capitale sociale, costruiscono il mercato e ne fluidificano il funzionamento. L’economia neoclassica ha espulso, per varie motivazioni, sia la relazionalità che il dono dal suo orizzonte teorico e quindi anche le donne in cui entrambe le cose sono esaltate. Il capitalismo d’altro canto è un regime economico di stampo patriarcale dato che condivide con il patriarcato gli stessi valori: competizione, rincorsa alla «top position» alla ricerca della esemplarità, gerarchia, volontà di dominio.
Non stupisce allora che non solo la scienza economica, ma anche lo stesso capitalismo non abbiano dato piena cittadinanza alle donne l’una più sul piano simbolico, l’altro più sul piano reale. E l’insostenibilità economica, sociale, ambientale della crescita economica illimitata è stata la diretta conseguenza di questo esilio. Un recupero investigativo del legame donne-relazionalità-dono-sviluppo economico avrebbe altresì aperto la via al riconoscimento di una pluralità di forme di regolazione dell’economia. L’economia standard ha celebrato acriticamente le virtù del mercato, ignorandone i fallimenti con cui oggi deve invece fare amaramente i conti. I critici dell’economia standard, nel mettere in luce gli errori del mercato, hanno rimarcato, in occasione della crisi, l’importanza dell’intervento dello Stato non solo per rimediare ai suoi fallimenti, ma anche per cambiare il modello di sviluppo. In questa visione polarizzata il rischio è però quello di ricondurre soltanto a due le forme di regolazione dell’economia: lo scambio di mercato e la coazione/redistribuzione esercitate quest’ultime da parte dello Stato tramite rispettivamente la regolamentazione pubblica, il Developmental State e il welfare state.
Le donne ci ricordano, con il loro agire quotidiano, che anche reciprocità e dono dovrebbero stare legittimamente a fianco delle altre due forme di regolazione dell’economia, in un mix variabile a seconda del contesto storico, economico, culturale e politico di ogni paese. Tra l’egoismo del mercato e la solidarietà burocratica dello Stato si può intravedere all’opera anche la fratellanza (o meglio la sorellanza) della società civile che si costruisce attraverso il dono, il terzo paradigma tra individualismo e olismo. Questa riscoperta del dono (che agisce in vari luoghi e perfino nel mercato) avrebbe anche il vantaggio di ricomporre l’artificiosa frattura tra società ed economia, visto che esso è un catalizzatore del mercato, con il risultato di una maggiore efficienza e umanizzazione dello stesso.

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