La notizia della prostituzione da parte di giovani e giovanissime ragazze continua ormai da mesi a tenere banco sia nei talk-show che nelle discussioni private. Il fatto di per sé è abbastanza anomalo poiché nel tempo dell’informazione globale – in cui le notizie si susseguono da ogni parte del mondo istante dopo istante – un tema che rimanga così sentito, partecipato e dibattuto, rappresenta di per sé stesso un elemento di riflessione. L’interesse non sembra interamente riconducibile a mere questioni politiche ma, nell’arena mediatica, sembrano affiorare ragioni più profonde, ancorché non pienamente espresse.
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I fatti sono noti e coinvolgono il mestiere più antico del mondo, la prostituzione, ossia la vendita dei servizi offerti per il tramite del proprio corpo in cambio di denaro o favori. Ma proprio perché il mestiere è antico non si capisce il clamore mediatico se non valutiamo l’ipotesi che, in questo preciso momento storico, si stiano confrontando due modelli antropologici differenti.
Il primo modello antropologico si basa sull’idea della raggiunta maturità dell’uomo che, libero da precetti morali o religiosi vuole affermare sé stesso, ed in particolare la sua libertà, intesa come capacità di disporre pienamente e completamente dei propri beni, di cui la ricchezza e il corpo ne rappresentano il vertice, secondo la personale e non criticabile visione della vita. Questo particolare modello antropologico si fonda sulla liberazione dalla vita dell’uomo, per il tramite della ragione, di tutti i miti e le superstizioni che limitavano la capacità di pensiero e di azione. E’ nel XX secolo che trova la sua massima diffusione poiché passa da fenomeno di èlite, da tema di discussione nei salotti di intellettuali e filosofi, alla gente comune, in cui il credo unico o prevalente diviene la fiducia nella tecno-scienza che sembra offrire tutte le soluzioni ai problemi ed ai mali dell’uomo. Tutto sembrava alla portata dell’homo technologicus. In questo contesto veniva esaltata la libertà intesa come capacità di piena autodeterminazione.
La trasposizione dell’homo technologicus e della sua libertà in ambito economico, ossia nella scienza sociale che studia il problema dei bisogni dell’uomo in un contesto di risorse scarse, è l’homo oeconomicus, il cui nucleo centrale è riconducibile all’idea di Adam Smith secondo cui l’individuo è intrinsecamente egoista ma, perseguendo il proprio personale interesse, svolge una funzione sociale a vantaggio di tutti. Detto in altri termini, il produttore non desidera produrre per spirito altruistico ma, animato dalla logica del profitto e del guadagno, concorre a determinare il benessere collettivo poiché rende disponibili i beni da lui prodotti. Ma importanti contributi sono anche riconducibili a Lèon Walras, economista francese di fine ‘800, padre del modello di equilibrio economico generale che ha profondamente influenzato il pensiero moderno, e all’italiano Vilfredo Pareto del quale, unitamente ai vastissimi contributi scientifici, si ricorda l’affermazione secondo cui non vi è nessun bisogno di sapere chi sia il consumatore poiché tutto quanto si richiede è la conoscenza delle curve indifferenza e del vincolo di bilancio (Palma). Proprio il vincolo di bilancio, unitamente al vincolo tecnologico per l’imprenditore, sono i soli limiti al principio di razionalità secondo il quale tutti gli agenti economici massimizzano, o minimizzano, una qualche funzione obiettivo. E’ la massima espressione della libertà assoluta ricercata dall’uomo.
L’importanza del movente egoistico nei comportamenti economici non viene pienamente compresa se non si ricorda il contributo di un altro grande filosofo che ha scritto di economia, Jeremy Bentham, il quale, partendo dall’assunto che «la natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare ciò che è giusto o ingiusto», evidenzia come ciascun individuo agisca in base alla personale utilità (si parla infatti di utilitarismo) che desidera massimizzare. Cosa sia l’utilità lo chiarisce lo stesso Bentham il quale afferma che un bene è utile in quanto in grado di procurare piacere (definizione edonistica): «Per utilità si intende quella proprietà di un oggetto qualsiasi di produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità … o di impedire l’accadimento di pene, male o infelicità a colui del cui interesse si tratta». Un suo collega, Francis Edgeworth arrivò a pensare uno strumento chiamato edonimetro che fosse in grado di registrare in modo continuo l’utilità individuale, calcolata evidentemente come la somma (l’integrale) dell’utilità misurata nel tempo. Un individuo è dunque tanto più felice quanto più si nutre di piacere, accresce il consumo di beni che gli procurano utilità, in modo totalmente personalistico (self interest). «In condizioni normali di vita, in ogni cuore umano, l’interesse proprio predomina su tutti gli altri interessi economici … L’interesse proprio ha luogo ovunque» (Bentham).
Ultimo importante corollario per l’homo oeconomicus è rappresentato dalla necessità di minore regolamentazione possibile: il laissez faire. Regolamentare, vietare, infatti, sono elementi limitativi della libertà dell’uomo ma, soprattutto, impediscono al mercato di svolgere pienamente il proprio ruolo di produzione e allocazione dei beni e delle risorse secondo il principio della massimizzazione della felicità. A livello economico si è ricorso ad una sorta di provvidenza mercantilista espressa dalla “mano invisibile” per cui, in assenza di regolamentazione, il mercato riesce ad assicurare spontaneamente la migliore allocazione possibile delle risorse.
Queste idee hanno permeato completamente il ‘900, determinando l’ascesa delle economie occidentali laddove le ideologie economiche basate su un pianificatore sociale quali quelle socialiste dell’Est Europa, fallivano dopo neanche un secolo di vita. L’esaltazione e l’uso della ragione, della tecnica e della scienza è stato un fenomeno proficuo in tutti i campi del sapere e, soprattutto, del vivere. E’ cresciuto il benessere economico, l’istruzione è divenuta appannaggio di tutti, è aumentata l’aspettativa di vita. Anche la religione, in particolare quella ebraica e cattolica hanno tratto profitto dalla ragione e dal metodo scientifico, tanto che per un credente cattolico costituisce un punto fermo l’affermazione contenuta nell’enciclica Fides et Ratio «la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità».

E’ però ragionevole affermare che questo modello antropologico sia implicato, in modo profondo e sostanziale, nella crisi finanziaria che tutto il mondo ha sperimentato nel 2007-2008 e dalla quale si è originata la crisi del settore reale dell’economia. Voler imputare questa crisi unicamente all’eccesso di debito del settore privato (famiglie) negli Usa e, successivamente, di debito del settore pubblico in Europa, alla diffusione della finanza strutturata e alla sostanziale assenza di chi doveva prima regolamentare e poi supervisionare i mercati è una visione, a nostro avviso, riduttiva che non coglie appieno le cause profonde. I comportamenti di tutti gli agenti economici coinvolti, infatti, non sono esogeni ma piuttosto rappresentano l’espressione delle forze e del modello economico e culturale che abbiamo precedentemente delineato e che ne costituiscono il DNA. Questo approccio “riduttivista“ non è, in ultima analisi, in grado di spiegare la persistenza della crisi né l’inerzia con la quale i Governi ed i regolatori stiano implementando concrete soluzioni. La crisi finanziaria è stata solo l’ultimo anello, se vogliamo il detonatore (trigger), di una problematica globale. Si è vissuti, forse, con l’illusione che l’abbattimento delle barriere alla circolazione di uomini, merci, servizi, capitali, e quindi di idee e di modelli culturali, quella che viene comunemente definita globalizzazione, potesse far crescere l’uomo in tutti i campi, soprattutto in quello economico. E’ evidenza condivisa come, al contrario, la globalizzazione non abbia realizzato una autentica comprensione e mescolanza di culture. Anzi, abbia aumentato la diffidenza verso altri popoli e altri modelli produttivi e sociali. La globalizzazione è concausa dell’attuale crisi poiché ha permesso il diffondersi di titoli “tossici” nei portafogli delle banche. L’ipotesi di catch-up nella crescita economica da parte dei paesi che partivano con una minore dotazione di capitale si è solo in parte verificata: pensiamo alla situazione di gran parte dei paesi dell’Africa. Nel mondo globalizzato sono rimasti ben visibili i punti cardinali che identificano e separano i paesi ricchi dai paesi poveri, lontani dall’idea di villaggio globale sognata dal sociologo canadese Marshall McLuhan ma anche dalle aspettative dello stesso Joseph Stiglitz che in un suo famoso quanto controverso libro sulla globalizzazione scrive: «La globalizzazione, oggi, non funziona per molti paesi poveri del mondo. Non funziona per gran parte dell’ambiente. Non funziona per la stabilità dell’economia globale”. E prosegue più avanti lo stesso autore: “Tutto viene sempre enunciato in termini di interesse generale. Per poter valutare le ripercussioni che una particolare politica avrà sull’interesse generale occorre un modello, una visione di come funziona il sistema nel suo complesso. Adam Smith fornì un modello di questo genere, argomentando a favore dei mercati».

E’ probabilmente necessario riflettere e ripensare alcuni paradigmi del comportamento degli agenti economici e, in ultima analisi dell’uomo, non già per disfarsi di tutto il progresso e le conquiste fino ad ora ottenute, quanto per crescere e maturare su basi diverse che interpretino il cambiamento dell’uomo, delle sue esigenze, delle sue aspirazioni. L’uomo non è un oggetto statico e immutabile ma è realtà complessa portato, per sua natura, al cambiamento e all’evoluzione, anche e soprattutto nel pensiero. Se l’uomo è cambiato – e ne abbiamo un forte indizio che traspare sia dal desiderio di libertà che è esploso in gran parte del mondo mussulmano, in particolare del Nord Africa ma anche del Medio Oriente, che dalla crescente insoddisfazione dell’uomo occidentale verso la sua qualità di vita – è necessario che la scienza, la filosofia e l’economia ne tengano conto.
Se in presenza di un cambiamento dell’uomo interpretiamo la realtà utilizzando il “vecchio” modello culturale, scientifico ed economico, rischiamo di non capire più l’uomo e dunque la società, di non cogliere le ragioni profonde e le divisioni emerse dal dibattito sulla questione della prostituzione. E’ stata una delle poche volte, nei tempi recenti, in cui su questo tema è avvenuta una manifestazione spontanea, ossia non organizzata né da partiti politici né da sindacati, che non abbia avuto come oggetto una rivendicazione economica. Ricordiamo infatti, come già evidenziato da chi scrive in altro articolo, disponibile a richiesta, che la prostituzione rappresenta effettivamente un mercato caratterizzato da una domanda e da una offerta e che può validamente e legittimamente essere analizzato con gli strumenti offerti dall’analisi economica, trattandosi di un scambio di servizi contro moneta in cui ciascun individuo coinvolto accresce la propria utilità ossia, secondo l’idea di Bentham, il personale piacere.

A questo primo modello si contrappone, necessariamente un altro modello antropologico che trova i fondamenti sociali e scientifici nell’incapacità da parte della tecno-scienza di realizzare le promesse di conquiste definitive, di offrire una spiegazione alla morte e, in ultima analisi, di capire nel profondo l’uomo. Scrive Martin Heidegger: «la nostra epoca ha accumulato una quantità straordinaria di conoscenze assai varie sull’uomo, diffuse e facilmente accessibili, eppure, nonostante questo, nessuna epoca ha saputo meno che cosa è l’uomo». L’uomo perde la dimensione di quel rapporto con il mondo, con la realtà, che era l’antica dimensione aristotelica dello stupore e della meraviglia. Il mondo diventa materia infinitamente manipolabile e, in quanto mutabile, concorre da una parte a determinare la perdita delle presunte certezze sul futuro e, dall’altra, il moltiplicarsi delle possibilità di scelta alle quali, però, non segue una effettiva capacità di compierle poiché è venuta meno la metrica con cui effettuare la scelta. Scrive Christian Albini: «Ciascuno di noi, nella propria vita, può avere potenzialmente i mezzi per scegliere tutto e il contrario di tutto, senza avere i mezzi per orientarsi. Siamo in presenza di una infinità di porte, possediamo un certo numero di chiavi, ma non sappiamo quali porte aprano. E’ accaduto che il progetto della modernità non ha retto». A questa incapacità si associa la disillusione verso le teorie che dovevano aiutare l’uomo a realizzare pienamente se stesso ma, alla prova dei fatti, non vi sono riuscite. «La cultura postmoderna è segnata da una crescente disillusione nei confronti delle teorie dominanti riguardanti il mondo, l’uomo e la società. Le grandi narrazioni come le religioni, le ideologie politiche e perfino le scienze non sono più viste come portatrici di tutte le risposte alle domande dell’umanità. Si assiste al passaggio da una fiducia in alcune presunte certezze e verità alla ricerca di elementi più particolari e frammentari» (Mannion).
In questo contesto si assiste ad un ritorno della dimensione spirituale, sia pure non necessariamente nella forma delle religioni tradizionali (Beck, ma anche Roy), che continuano ad esaltare l’uomo e la sua libertà, intesa in una accezione differente.
Libertà infatti non viene intesa come possibilità di fare “ciò che si crede”, quanto piuttosto libertà da tutto ciò che rende schiavo l’uomo. L’uomo libero è colui che non è schiavo di nulla, delle passioni, della ricchezza, della propria superbia e, in quanto libero, è in grado di valutare gli avvenimenti e le problematiche senza un interesse personalistico. L’idea che l’uomo affermi pienamente sé stesso e quindi sia completamente libero quando non risulti schiavo dei propri istinti e passioni, è una forma di libertà non scontata anche se molto antica poiché enunciata in maniera forte dalle religioni tradizionali. Si pensi all’idea di uomo presente nella religione ebraica e ancora di più in quella cristiana, ma anche nella filosofia buddista in cui l’ottuplice sentiero (eightfold way) indica il percorso per liberarsi dalla schiavitù delle passioni, delle ansie, del’avidità, volto a raggiungere la perfetta saggezza e quindi rendendo più probabile la reincarnazione in un essere superiore. Questa idea di libertà si fonda necessariamente, a livello culturale, su una valutazione delle azioni dell’uomo, identificando virtù e vizi ma soprattutto basandosi su una definizione di bene e male.
Il salto antropologico è profondo. Ma per comprenderlo appieno dobbiamo porre sulla corretta scala temporale i due modelli. Infatti il modello antropologico basato sulla libertà da ogni schiavitù in cui non si può conoscere da sé medesimi ciò che è bene e male, è il modello storico dal quale l’uomo si è distaccato finendo per ripiegare su sé stesso, abbandonando in ultima analisi la volontà/capacità di giudicare ciò che è bene e ciò che è male, non esprimendo più alcun giudizio o posizione ma trattando gli avvenimenti e i beni in maniera “neutra”, senza appunto giudizi di valore. La conseguenza di questo atteggiamento è, per esempio, il rifiuto di parlare e di far entrare in qualsiasi argomento pubblico e meno che mai economico, l’idea di morale. Questo risultato è sorprendente poiché, come aveva ben evidenziato Immanuel Kant, l’obbligo che riviene dalla morale non può in nessun modo essere inteso come riduzione della libertà dell’uomo poiché egli obbedisce ad un comando che liberamente si è dato in conformità alla sua natura razionale.
Proprio la morale ma, più in generale, tutti gli elementi che sono connaturati e costitutivi dell’uomo, oltre la pur importante e fondamentale ragione, sono rientrati in gioco a livello economico in un recente nuovo filone denominato economia cognitiva che si basa, tra gli altri, sull’importante contributo offerto dal premio Nobel per l’Economia (2002) Daniel Kahneman.
Il punto di partenza di questa letteratura risiede nella critica basata su evidenze empiriche, ossia riveniente da esperimenti scientifici (che si contrappone al modello teorico precedentemente illustrato) che l’individuo (razionale) scelga sulla base del principio dell’utilità attesa – approccio definito grazie ai contributi della metà degli anni ’40 del secolo scorso di Von Neumann e Morgenstern – ossia dell’utilità misurata in un contesto di incertezza (tipico quello delle lotterie ma in generale tutte le scelte che riguardano eventi non certi ma solamente possibili) in cui ciascun individuo assegna delle probabilità al verificarsi di eventi futuri.
In particolare fu evidenziato nel 1953 il famoso paradosso di Allais, dal nome dell’economista francese premio Nobel nel 1988 che lo ha presentato, che andò a minare uno dei presupposti della teoria delle scelta basata sull’utilità attesa, ossia il postulato di indipendenza, evidenziando come gli individui chiamati ad effettuare una scelta sulla base del criterio dell’utilità attesa si comportavano diversamente di fronte a due scelte virtualmente uguali in termini di risultato atteso ma presentate in modalità sequenziale. La spiegazione di questo paradosso risiede nella complessità dell’uomo che compie le scelte in modo molto più ampio rispetto alla pura e semplice massimizzazione del piacere/utilità.
Scrive Kahneman: «Molte decisioni vengono prese sulla base di convinzioni riguardanti la probabilità di eventi incerti che il più delle volte sono espresse con frasi come – penso che; ci sono buone possibilità che; è improbabile che – che alcune volte assumono perfino la forma numerica, con l’enunciazione di quote o probabilità soggettive». In quest’ultimo caso Kahneman ha evidenziato che l’individuo tende a sovra-pesare episodi che sono rari o recenti mentre è incapace di produrre valutazioni corrette di esperienze che abbiano una durata temporale determinando una inaccurata rappresentazione del concetto di utilità di tipo classico. Nella formulazione di queste probabilità soggettive, evidentemente, concorrono tanti elementi, tutto l‘uomo con la sua ragione, i suoi sentimenti, le sue aspirazione, la sua morale e le sue credenze.
L’uomo, scosso e turbato dagli avvenimenti riportati in questi mesi dai mass-media, sta evidentemente valutando non già sulla base dell’utilità attesa, ossia di un mero modello economico neutrale a tutto ciò che non è matematicamente modellabile e quindi esprimibile in forma analitica, ma riconosce che altri elementi entrano nella valutazione delle scelte, utilizzando probabilmente, anche se non ancora pubblicamente affermato con la dovuta forza, una personale valutazione morale dei comportamenti (ma auspicabilmente non delle persone).
Se questa analisi fosse condivisa, al libero mercato fatto di scambi basati sulla mera utilità individuale, si dovrebbe sostituire un mercato che sia sempre libero ma ancorato all’etica e alla morale. A questo proposito riteniamo importante puntualizzare che il mercato è un luogo, fisico o virtuale, nel quale avvengono gli scambi dei beni e servizi contro moneta. Etica e morale non possono pertanto essere connaturati a oggetti o luoghi. Sono gli agenti che costituiscono il mercato, ne determinano il meccanismo e le regole di funzionamento ed infine vi operano, che portano il loro credo, la loro morale, la loro etica. In questo senso il mercato è etico o morale se costituito e formato da operatori che operino in accordo a principi etici o morali. In ultima analisi è sempre l’uomo il primo portatore di morale ed etica che trasferisce al mercato mediante leggi, regolamenti ed azioni. E proprio perché il mattone fondamentale del mercato è l’uomo, possiamo validamente supporre che la forza delle idee e soprattutto dei comportamenti di ciascun individuo, sia in grado di imporsi e di richiedere regole che corrispondano ad un senso di giusto e di bene che sia il più unanimemente condiviso. L’uomo non è vittima del mercato ma è artefice del mercato: si può sempre decidere se e cosa acquistare o vendere; da chi acquistare o a chi vendere. Perseguire questa direzione significa richiedere regole e trasparenza, consapevoli e disposti però ad accettarne gli inevitabili costi, non solo monetari. L’homo post-oeconomicus non può accettare di barattare i costi della regolamentazione e della trasparenza con il concetto di bene, anche se questo rischio oggettivamente esiste in una società competitiva quale quella. Scrive il noto economista Andrei Shleifer, in un articolo in cui si domanda se la concorrenza distrugga i comportamenti etici valutando cinque comportamenti riprovevoli (lavoro minorile, corruzione, retribuzione dei manager, false comunicazione societarie relative agli utili, attività commerciali delle Università), che è possibile che la condotta etica risenta delle condizioni economiche al contorno ma, ed è la sua risposta, dal momento che la concorrenza è la fonte primaria per lo sviluppo tecnologico e per la crescita economica, è più probabile che la disponibilità a pagare per comportamenti etici cresca da parte di una società che diviene via via più ricca. Anche se, in questo caso, muta la visione di ciò che è etico (B. Friedman).
Insomma, bene e male sono valori e non beni e quindi non dovrebbero costituire oggetto di scambio sul mercato né tantomeno di formazione di alcun prezzo.
A livello economico, ma anche sociale, il convincimento di aggiungere alla valutazione economica un giudizio, personale, sulla liceità dei beni scambiati nel mercato e sugli effetti che lo scambio produce su altri individui, si estrinseca nella visione del bene comune, via autentica per la felicità (Becchetti ma anche Zamagni). Afferma l’economista e filosofo inglese John Stewart Mill che «sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell’umanità, perfino qualche arte, o occupazione perseguiti non come mezzi ma come fini ideali in se stessi. Aspirando in tal modo a qualche altra cosa trovano la felicità lungo la strada». Reinterpretando completamente l’idea dell’utilitarismo di Bentham, sostiene inoltre che «nella regola d’oro di Gesù di Nazareth possiamo leggere tutto lo spirito dell’etica utilitarista. Fare agli altri quel che si vorrebbe gli altri facessero a noi, e amare il prossimo come se stessi, costituiscono la perfezione ideale della moralità utilitarista».

L’idea di bene comune si contrappone in modo radicale all’idea di individuo egoista. L’approccio al bene comune riconosce che il rapporto di relazione – perché l’uomo è tale in quanto si relaziona con gli altri – ha un valore intrinseco importantissimo e che la felicità dell’uomo non è rappresentata solo dal consumo del bene ma anche dal condividere con gli altri le proprie capacità ed i propri mezzi, sia pure in condizioni di economicità. Il bene comune è il considerare l’altro con cui si interagisce come individuo dotato di fini, aspirazioni, segnato dalla sofferenza e animato dalla speranza, portatore di sogni, idee, valori che hanno la medesima dignità di quelli di cui noi stessi siamo portatori e con il quale pertanto si può condividere un percorso comune. L’altro passa da essere un numero che identifica la sua carta di credito o il suo conto corrente a persona e, quindi, da mezzo per ottenere un profitto a fine dell’azione dell’uomo come ben sottolinea Kant: “Agisci in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine, mai come semplice mezzo”. L’uomo ha valore assoluto, ben distinto dal prezzo di un bene che esprime un valore relativo.
Dal rapporto di relazione dell’uomo deriva il concetto non scontato di dono, inteso non necessariamente, o non primariamente, nella sua dimensione purista di atto gratuito, unilaterale, disinteressato e discontinuo. Scrive Cristina Montesi: «Dono, nell’interpretazione relazionale non è un atto gratuito dato che pretende di essere contraccambiato, implica reciprocità, anche se questa è assai diversa dallo scambio di mercato sotto vari profili (il più importante è il fatto che la restituzione nel caso del dono è libera e lontana dal rispetto dell’equivalenza). La non sicurezza di essere contraccambiati presuppone inoltre una grande fiducia negli altri, fiducia che è alla base di ogni convivenza civile e del mercato stesso». Il dono, l’atto del donare parte del proprio tempo, delle proprie capacità, dell’ascolto e del consiglio, ma anche la rinuncia a quel che si potrebbe compiere ma che non si ritiene giusto, è l’aspetto più evidente del progredire del bene comune. Scriveva David Hume tre secoli fa: «Chi è così pazzo da negare l’esistenza della generosità ha perso il contatto con la sua realtà emotiva».
Concretamente si coopera alla realizzazione del bene comune ogni volta in cui, potendo produrre e ottenere profitto da beni che sono mali per la società (si pensi ai cibi e alle bevande adulterate), ci si astenga dal farlo poiché si produce un danno all’altro e, in uno schema di preferenze basato su valori condivisi, diventa predominante la funzione di utilità comune rispetto all’extra-profitto a cui individualmente si rinuncia. Pensare al bene comune può significare per il consumatore, ad esempio, spendere di più per acquistare prodotti del mercato equo e solidale in modo da aiutare le popolazioni più disagiate o richiedere lo scontrino nei negozi e la fattura dai professionisti. Per l’investitore finanziario non comprare azioni o obbligazioni di imprese che producano o vendono beni considerati mali per la società, quali il tabacco o le armi. Il bene comune è quello spazio che parte dall’individuo, dai suoi desideri, dalle sue preferenze e li allarga fino a considerare i desideri e le preferenze del prossimo, condividendo appunto uno spazio che si chiama bene.
Quest’ultimo concetto è, a nostro avviso, importante.
Parlare di bene significa assumere un preciso orientamento morale, sociale ed economico. Implica il ritorno di quell’insieme di valori che permettono di poter distinguere ciò che è bene da ciò che è male per i quali «la linea che separa il bene dal male non passa fuori dagli uomini ma dentro il cuore di ciascuno» (Vincenzo Paglia). E dal momento che intorno al concetto di bene si crea uno spazio comune, vuol dire che viene condivisa la metrica con cui si effettua una simile valutazione. Si abbandona quindi l’idea secolare del relativismo, in cui non vi era spazio per una autentica condivisione di valori poiché ciascun individuo aveva la pretesa di avere una personale, e quindi unica, idea di bene. Parlare allora di bene comune significa non solo enunciare il diritto di re-introdurre valutazioni morali ma anche che tali valutazioni possano essere condivise a livello sociale ed economico e sulla base delle quali si possano e si debbano operare le scelte individuali.
L’effetto ultimo della condivisione di un orientamento morale è la possibilità di imporlo al legislatore e, dunque, al mercato, cioè al luogo in cui ciascun individuo mette in gioco non solo il proprio reddito e la propria ricchezza, ma anche e soprattutto la personale dignità di uomo.

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