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La crisi finanziaria, iniziata nell’estate 2007 negli Usa e poi diffusasi per contagio nel resto del mondo, ha natura sistemica. Essa è il punto di arrivo, inevitabile, di un processo che da oltre trent’anni ha modificato alla radice il modo di essere e di funzionare della finanza, minando così le basi stesse di quell’ordine sociale liberale che è cifra inequivocabile del modello di civiltà occidentale. rnrnrn

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I fattori di crisi strutturali sono raggruppabili in tre blocchi.

Il primo concerne il mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a consolidare nel corso dell’ultimo trentennio. A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, la più parte dei paesi occidentali hanno condizionato le loro promesse in materia pensionistica ad investimenti che dipendevano dalla profittabilità sostenibile dei nuovi strumenti finanziari. Al tempo stesso, la creazione di questi nuovi strumenti ha via via esposto l’economia reale ai capricci della finanza, generando un bisogno crescente di destinare alla remunerazione dei risparmi in essi investiti quote crescenti di valore aggiunto. Le pressioni sulle imprese derivanti dalle borse e dai fondi di private equity si sono trasferite in pressioni ancora maggiori in altre direzioni: sui dirigenti ossessivamente indotti a migliorare continuamente le performance delle loro gestioni allo scopo di ricevere volumi crescenti di stocks options; sui consumatori per convincerli, mediante l’impiego di sofisticate tecniche di marketing, a comprare sempre di più pur in assenza di potere d’acquisto; sulle imprese dell’economia reale per convincerle ad aumentare il valore per l’azionista (shareholder’s value). E così è accaduto che la richiesta persistente di risultati finanziari sempre più brillanti ha cominciato a ripercuotersi, attraverso un tipico meccanismo di trickle down (di sgocciolamento), sull’intero sistema economico, fino a diventare un vero e proprio pattern culturale. Per rincorrere un futuro sempre più radioso, si è così dimenticato il presente.

Dopo oltre trent’anni di finanziarizzazione, lo stato dell’economia mostra preoccupanti segni di debolezza sotto tre aspetti specifici. Primo, la finanziarizzazione – che per funzionare ha bisogno di includere nella sua logica un numero crescente di economie nazionali – ha progressivamente sostituito alle relazioni intersoggettive transazioni anonime e impersonali. La ricerca senza limiti dei capital gains (guadagni in conto capitale) ha fatto sì che valori come lealtà, integrità morale, relazionalità, fiducia venissero via via accantonati per fare spazio a principi d’azione finalizzati al conseguimento dei risultati a breve termine. Si è così potuto diffondere il disastroso convincimento in base al quale la liquidità dei mercati finanziari sarebbe stata un sostituto perfetto della fiducia. Al tempo stesso, poiché la valutazione di borsa è tutto quanto l’investitore è tenuto a considerare quando deve prendere le sue decisioni, si ha che la crescita può agevolmente essere costruita sul debito: questo il senso ultimo del processo di finanziarizzazione. Quale la conseguenza veramente pericolosa di questa “nuova” cultura? Quella di stravolgere il modo di concepire il nesso tra reddito da lavoro e reddito da attività speculativa. Se la finanziarizzazione viene spinta in avanti a sufficienza – si è fatto credere – non v’è bisogno che le famiglie, per provvedere alle proprie necessità, attingano in misura prevalente ai propri salari. Dedicandosi alla speculazione, esse possono ottenere per altra via il reddito necessario per conseguire livelli crescenti di consumo. Anzi, se e nella misura in cui riduzioni salariali favoriscono la redditività delle imprese quotate in borsa, può accadere che le famiglie compensino in misura più che proporzionale la riduzione dei redditi da lavoro con aumenti dei redditi di borsa. In tal modo, il conflitto endemico alla società post-moderna, quello tra la figura del lavoratore e la figura del consumatore verrebbe risolto con la figura dell’investitore-speculatore. La finanziarizzazione induce così il risparmiatore, piccolo o grande che sia, a trasformarsi in speculatore, accorto o meno che sia.

Non dobbiamo allora sorprenderci se nell’arco dell’ultimo quarto di secolo, per un verso, è aumentata, la volatilità dei rapporti di lavoro e per l’altro verso è andata aumentando, in tutti i paesi dell’Occidente avanzato, la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, come ci informa il Rapporto OECD dell’ottobre 2008. E’ agevole comprenderne la ragione, non certo unica, ma principale: quando i redditi provengono dal lavoro (manuale o intellettuale che sia) lo scarto tra i più e i meno pagati non potrà mai superare una certa soglia; non così quando essi provengono da attività speculative oppure quando certe remunerazioni sono legate, come avviene nel caso delle stocks options per i dirigenti, agli andamenti borsistici.

Il terzo segno di preoccupante debolezza, è la diffusione a livello di cultura popolare dell’ethos dell’efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica. Per un verso, ciò ha finito col legittimare l’avidità come una sorta di virtù civica: il greed market che sostituisce il free market. Per l’altro verso, l’ethos dell’efficienza è all’origine dell’alternanza, ormai sistematica, di avidità e panico. Né vale sostenere, come più di un commentatore ha tentato di spiegare, che il panico sarebbe conseguenza di comportamenti irrazionali da parte degli operatori. Perché il panico è nient’altro che un’euforia col segno meno davanti; dunque se l’euforia, secondo la teoria prevalente, è razionale, anche il panico lo è. Il fatto è che è la teoria ad essere aporetica, come dirò in seguito.

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Ma come ha potuto il processo or ora descritto raggiungere il livello di pervasività e di incidenza di cui tutti oggi sono consapevoli? Senza il supporto scientifico di una certa scuola di pensiero economico le cose non sarebbero andate come sono andate. A differenza di quanto accade nelle scienze naturali, quella economica è fortemente sotto l’influenza della tesi della doppia ermeneutica, secondo cui le teorie economiche sul comportamento umano incidono, tanto o poco, presto o tardi, sul comportamento stesso dell’uomo. Quanto a dire che la teorizzazione in ambito economico mai lascia immutato il suo campo di studio, ma gli indica anche la via che deve essere seguita se si vuole conseguire in modo razionale lo scopo. Ora, se quest’ultimo è la massimizzazione del guadagno (o altra specificazione della funzione obiettivo) e se, come è ovvio, lo scopo di un’azione prescrive quali debbano essere i mezzi richiesti per realizzarlo, il circolo ermeneutico è presto chiuso. E’ per questa fondamentale ragione che l’economista non può trincerarsi dietro una presunta neutralità assiologica nel momento in cui produce modelli e teorie, soprattutto quando è consapevole del fatto che i prodotti del suo lavoro scientifico generano un certo modo di pensare e vengono presi come base di riferimento dal decisore politico.

Nel caso specifico di cui ci stiamo occupando, dove si è maggiormente manifestata questa assenza di responsabilità da parte degli economisti? In primo luogo, nell’aver fatto credere che quello di efficienza fosse un criterio oggettivo (cioè neutrale rispetto ai giudizi di valore) di scelta tra opzioni alternative. Un semplice apologo che riprendo, con adattamenti vari, da J. Wight e J. Morton (Teaching the Ethical Foundations of Economics, New York, NCEE, 2007), vale a convincerci del contrario. In un ospedale sperduto, il medico di guardia ha a disposizione dieci dosi di un siero salvavita. Una certa notte arrivano all’ospedale due gruppi di dieci persone ciascuno, tutte bisognose del siero. Il medico sa che le persone del gruppo A, ricevendo il siero, avranno salva la vita. Quelle del gruppo B, invece, hanno una probabilità del 50% di restare in vita dopo aver ricevuto l’iniezione. A chi somministrerà le dieci dosi il nostro medico se vuole allocare quella risorsa scarsa in modo efficiente? Al gruppo A, perché in tal modo salverà dieci, anziché cinque, vite umane.

Supponiamo ora che al medico giunga la seguente informazione: le persone del gruppo A hanno un’età media di ottant’anni con una speranza di vita residua di cinque anni; mentre quelle del gruppo B sono bambini di cinque anni, che hanno una speranza di vita residua di ottanta anni. Come si comporterà in tale nuova situazione il nostro? Se l’obiettivo è quello di massimizzare il numero di anni di vita, la sua scelta cadrà sul gruppo B, dal momento che quattrocento anni di vita (5×80) superano di gran lunga i cinquanta anni di vita (5×10) che egli assicurerebbe se il siero venisse distribuito al gruppo A. Per completare la parabola, si assuma che le dosi in questione non siano di proprietà dell’ospedale, ma di una farmacia privata che è disposta a venderle a chi offre il prezzo più alto. In tali condizioni, se l’obiettivo diventa quello di massimizzare il ricavo (e quindi il guadagno), il medico si comporterà in modo efficiente se distribuirà il siero salvavita ai soggetti del gruppo A.

Il messaggio dell’apologo è chiaro: si può utilizzare il criterio di efficienza, e in forza di questo prendere decisioni, solo dopo che si è fissato il fine che si intende perseguire. Quanto a dire che l’efficienza è strumento per un fine e non un fine in sé. Affermare pertanto che i comportamenti di banchieri e trader – che in massa si sono gettati nel gioco della speculazione finanziaria nel corso dell’ultimo ventennio – devono dirsi legittimati dalla circostanza che costoro seguivano un canone di razionalità volto ad assicurare un’efficiente allocazione delle risorse finanziarie, è a dir poco una tautologia, indice di plateale sprovvedutezza metodologica.

C’è un secondo ambito dove l’influenza del mainstream economico è stata decisiva nel contribuire a determinare il disastro finanziario. Si tratta del retroterra teorico che ha avvalorato il principio della massimizzazione dello shareholder value.. Tre sono le concezioni con cui la teoria microeconomica guarda all’impresa: l’impresa come associazione; l’impresa come coalizione; l’impresa come merce. La prima vede l’impresa come comunità, cui prendono parte diversi portatori di interessi (lavoratori; investitori; clienti; fornitori; territorio), che cooperano per conseguire un comune obiettivo, e che è organizzata per durare nel tempo. E’ questa l’idea – si badi – da cui nasce la “corporation” americana, la quale in origine è un ente non profit la cui governance viene mutuata da quella dei monasteri benedettini e cistercensi. La corporation è un bene di per sé e, poiché tale, non può essere lasciata ai capricci del mercato, e di quello finanziario in special modo. La concezione dell’impresa come coalizione, invece, si sviluppa a partire dal pioneristico contributo del premio Nobel Ronald Coase, che nel celebre saggio del 1937 “Perché esiste l’impresa” difende la tesi secondo cui l’impresa nasce per risparmiare sui costi di transazione, cioè sui costi d’uso del mercato. Ogni negoziazione di mercato, infatti, implica specifici costi e dunque un’impresa ha ragione di esistere fin tanto che i costi di transazione superano i costi di esercizio della proprietà. Infine, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso in economia inizia a prendere corpo, fino a divenire oggi dominante, l’idea dell’impresa come merce, che, in quanto tale, può essere comprata e venduta sul mercato al pari di ogni altra merce. Essa è, pertanto, nulla più di un “fascio di contratti” (nexus of contracts) che, a seconda delle convenienze del momento, vengono siglati da una pluralità di soggetti ognuno alla ricerca del massimo guadagno individuale. Ebbene, se l’impresa è nulla più di una merce, è evidente che l’unica classe di stakeholder che merita attenzione sia quella degli azionisti e ciò per l’ovvia considerazione che per vendere ci vuole un proprietario e, d’altra parte, chi compra un’impresa, pagandone il prezzo, ne diviene il proprietario. C’è da meravigliarsi, allora, se a partire da una tale concettualizzazione dell’impresa, si arriva a concludere che obiettivo del management è quello di massimizzare il valore per l’azionista-proprietario? Si tenga presente che è il principio dello shareholder’s value ad aver ispirato in senso ideologico il processo di finanziarizzazione. E’ questo il principio che induce ad esaltare le quotazioni in borsa e ad assegnare all’azionista il free cash flow – la cassa che resta una volta onorati tutti i costi operativi, finanziari e fiscali. Per migliorare i rendimenti che si aspetta di incassare, l’azionista–proprietario dell’impresa associa, nel perseguimento dell’obiettivo, i manager mediante il riconoscimento di remunerazioni legate anch’esse al rendimento del capitale – le stock options sono lo strumento più noto, ma non il solo. Se poi il management non è performativo, le quotazioni dell’impresa crolleranno ed essa passerà in altre mani che provvederanno a rimediare alla perdita di efficienza. Ma per tutto questo occorre considerare l’impresa come merce!

Infine, di una terza precisa responsabilità della professione degli economisti in questa vicenda mette conto dire. Il modello teorico sul quale gli operatori della finanza creativa hanno eretto il loro edificio di titoli strutturati – titoli cartolarizzati basati su mutui o prestiti, reimpacchettati poi in obbligazioni sintetiche come i CDO – è il celebre modello Black-Scholes-Merton, elaborato negli anni ’70. Oggetto di studio del modello è l’andamento nel tempo del prezzo degli strumenti finanziari e la sua conclusione principale è che, sotto certe condizioni, è possibile eliminare il rischio degli investimenti.

Perché la realtà ha allora “disobbedito” al modello teorico? La risposta ci viene dallo stesso Alan Greenspan che, dopo aver denunciato, sul Financial Times del 17 marzo 2008, “i modelli troppo semplici per catturare la realtà”, il 23 ottobre 2008, di fronte alla Commissione di Controllo del Congresso americano dichiara, con un tasso di opportunismo pari soltanto a beata irresponsabilità: “Negli ultimi decenni si è formato un vasto sistema di gestione del rischio e dei prezzi, unendo le migliori intuizioni di matematici ed esperti finanziari rilanciate da importanti progressi nella tecnologia dei computer e delle comunicazioni. Un premio Nobel [invero, sono tre i premi Nobel] è stato assegnato per la scoperta del sistema di assegnazione dei prezzi che sostiene gran parte della crescita del mercato dei derivati. L’intero edificio intellettuale, tuttavia, è crollato nell’estate dello scorso anno perché i dati inseriti nel modello di gestione del rischio coprivano in genere solo gli ultimi vent’anni, un periodo di euforia”. Come dire: la colpa è dei cigni neri! Eppure, già nel 2007, Nicholas Taleb nel suo bestseller The black swan aveva anticipato che quel che si sarebbe poi verificato a partire dal luglio 2008. Quando un certo pensiero unico in ambito manageriale enfatizza il ruolo del debito come fattore determinante per creare valore per gli azionisti è ovvio, poi, che si arrivino ad applicare principi contabili calibrati – si pensi al fair value, al market-to-market- come se le crisi non dovessero esserci mai. E se queste si verificano, la responsabilità è degli operatori che si sono comportati in modo irrazionale!

Passo da ultimo al terzo blocco di cause remote. Esse hanno tutte a che vedere con le specificità della matrice culturale che si è andata consolidando negli ultimi decenni sull’onda, da un lato, del processo di globalizzazione e, dall’altro, dell’avvento della terza rivoluzione industriale, quella delle tecnologie info-telematiche. Due aspetti specifici di tale matrice sono rilevanti ai fini presenti. Il primo riguarda la presa d’atto che alla base dell’attuale economia capitalistica è presente una seria contraddizione di tipo pragmatico – ­non logico, beninteso. Quella capitalistica è certamente un’economia di mercato, cioè un assetto istituzionale in cui sono presenti e operativi i due principi basilari della modernità: la libertà di agire e fare impresa; l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Al tempo stesso, però, l’istituzione principe del capitalismo – l’impresa capitalistica, appunto – è andata edificandosi nel corso degli ultimi tre secoli sul principio di gerarchia. Ha preso così corpo un sistema di produzione in cui vi è una struttura centralizzata alla quale un certo numero di individui cedono, volontariamente, in cambio di un prezzo (il salario), alcuni dei loro beni e servizi, che una volta entrati nell’impresa sfuggono al controllo di coloro che li hanno forniti.

Sappiamo bene dalla storia economica come ciò sia avvenuto e conosciamo anche i notevoli progressi sul fronte economico che tale assetto istituzionale ha garantito. Ma il fatto è che nell’attuale passaggio d’epoca – dalla modernità alla dopomodernità – sempre più frequenti sono le voci che si levano ad indicare le difficoltà di far marciare assieme principio democratico e principio capitalistico. Il fenomeno della cosiddetta privatizzazione del pubblico è ciò che soprattutto fa problema: le imprese dell’economia capitalistica vanno assumendo sempre più il controllo del comportamento degli individui – i quali, si badi, trascorrono ben oltre la metà del loro tempo di vita sul luogo di lavoro – sottraendolo allo Stato o ad altre agenzie, prima fra tutte la famiglia. Nozioni come libertà di scelta, tolleranza, eguaglianza di fronte alla legge, partecipazione ed altre simili, coniate e diffuse all’epoca dell’Umanesimo civile e rafforzate poi al tempo dell’ Illuminismo, come antidoto al potere assoluto (o quasi) del sovrano, vengono fatte proprie, opportunamente ricalibrate, dalle imprese capitalistiche per trasformare gli individui, non più sudditi, in acquirenti di quei beni e servizi che esse stesso producono.

Il secondo aspetto riguarda l’insoddisfazione, sempre più diffusa, circa il modo di interpretare il principio di libertà. Come è noto, tre sono le dimensioni costitutive della libertà: l’autonomia, l’immunità, la capacitazione. L’autonomia dice della libertà di scelta: non si è liberi se non si è posti nella condizione di scegliere. L’immunità dice, invece, dell’assenza di coercizione da parte di un qualche agente esterno. La capacitazione, (letteralmente: capacità di azione) nel senso di A. Sen, infine, dice della capacità di scelta, di conseguire cioè gli obiettivi, almeno in parte o in qualche misura, che il soggetto si pone. Non si è liberi se mai (o almeno in parte) si riesce a realizzare il proprio piano di vita. Ebbene, mentre l’approccio liberal-liberista vale ad assicurare la prima e la seconda dimensione della libertà a scapito della terza, l’approccio stato-centrico,vuoi nella versione dell’economia mista vuoi in quella del socialismo di mercato, tende a privilegiare la seconda e la terza dimensione a scapito della prima. Il liberismo è bensì capace di far da volano del mutamento, ma non è altrettanto capace di gestirne le conseguenze negative, dovute all’elevata asimmetria temporale tra la distribuzione dei costi del mutamento e quella dei benefici. I primi sono immediati e tendono a ricadere sui segmenti più sprovveduti della popolazione; i secondi si verificano in seguito nel tempo e vanno a beneficiare i soggetti con maggiore talento. Come J. Schumpeter fu tra i primi a riconoscere, è il meccanismo della distruzione creatrice il cuore del sistema capitalistico – il quale distrugge "il vecchio" per creare "il nuovo" e crea "il nuovo" per distruggere "il vecchio"- ma anche il suo tallone d’Achille perché, a meno di creare adeguate "safety nets" (reti di sicurezza), è evidente che coloro che si vedono danneggiati dal meccanismo della distruzione creatrice si organizzeranno per boicottarla, creando lobbies di tipo neo-corporativista per impedire che il processo di innovazione abbia luogo. D’altro canto, il socialismo di mercato – nelle sue plurime versioni – se propone lo Stato come soggetto incaricato di far fronte alle asincronie di cui si è detto, non intacca la logica del mercato capitalistico; ma ne restringe solamente l’area di operatività e di incidenza. Come si può comprendere, la sfida da raccogliere è quella di fare stare insieme tutte e tre le dimensioni della libertà: è questa la ragione per la quale il paradigma del bene comune appare come una prospettiva quanto meno interessante da esplorare.

Alla luce di quanto precede, riusciamo a comprendere perché la crisi finanziaria non può dirsi un evento né inatteso né inspiegabile. Ecco perché, senza nulla togliere agli indispensabili interventi in chiave regolatoria e alle necessarie nuove forme di controllo, non riusciremo ad impedire l’insorgere in futuro di episodi analoghi se non si aggredisce il male alla radice, vale a dire se non si interviene sulla matrice culturale che ha sorretto finora il sistema economico.

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Questo articolo è un estratto del saggio che sarà pubblicato prossimamente sulla Rivista di Studi Politici di Romarnrnrnrn

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