In un punto saliente del suo intervento, sperando di non travisarlo, Bazoli sottolinea come alcuni istituti bancari siano andati oltre nella ricerca di profitti a breve abbandonando la tradizionale attività di intermediazione creditizia e generando negli anni scorsi guadagni illusori, poi divenuti ingenti perdite a seguito della crisi dei subprime. L’osservazione di questo fenomeno lo induce a considerare come le banche dovrebbero recuperare la consapevolezza del ruolo sociale che implicitamente svolgono. A questo proposito Bazoli sottolinea prevalentemente due ambiti: la tutela del risparmio e il sostegno ai processi di sviluppo locale.
In una delle repliche più significative Ostellino, pur ammettendo che a produrre beni pubblici possano essere anche privati e non solo lo stato, non condivide la contrapposizione tra economia americana, unicamente orientata al profitto, ed economia sociale di mercato europea con l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile. Nel seguito del suo intervento Ostellino afferma che “assegnare allo Stato una finalità etica accresce solo il potere della classe politica”, che all’interesse generale deve provvedere la Politica con le regole e che “l’economia di mercato non può essere piegata a un obiettivo esterno ai processi che ne presiedono la produzione di ricchezza. Che è neutrale.” Per questo non è realistico auspicare un economia di imprenditori “benevoli”. Per fortuna esiste una mano invisibile che fa si che gli individui, nel perseguire i propri interessi, producano inconsapevolmente benefici pubblici.
Alcune considerazioni di fondo. La produzione di ricchezza non è mai neutrale eticamente. 100.000 euro di valore aggiunto prodotte da un narcotrafficante o da una banca che fa microcredito sono sempre 100.000 euro (possiamo parlare eventualmente di indifferenza di valore) ma non sono certo neutrali in termini di impatto sociale. Ogni atto compiuto da agenti economici ha conseguenze etiche più o meno rilevanti e il problema non è solo semplicisticamente in termini di buono o cattivo ma di maggiore o minore positività di benefici collettivi.
Nella difesa dei meccanismi di mercato spesso emerge una concezione erronea e semplicistica. Basta che gli individui facciano il proprio interesse (eticamente neutrale). Ci penserà la mano invisibile a trasformare gli animal spirits in interesse generale e beni pubblici per la collettività. Purtroppo non è sempre così in quanto gli individui producono inconsapevolmente non solo benefici ma anche “mali” (inquinamento, congestione stradale, ecc.) pubblici. A questo punto interviene per alcuni il deus ex machina: la Politica, le Regole. Anche qui bisogna sgombrare il campo da una pia illusione. Non esistono regole perfette (né, figuriamoci, Politica perfetta) che possano esimere gli individui da esercitare comportamenti morali. Nessuna regola funziona senza le buone pratiche degli attori coinvolti, perché ogni regola crea innumerevoli nuovi conflitti d’interesse ed occasioni per aggirarla. Perché spesso la complessità informativa è tale che i regolatori sono indietro nella comprensione dei fenomeni (è proprio il caso dei derivati). Perché chi fa le regole non è quasi mai estraneo agli interessi da esse regolati (con una felice espressione Tremonti a proposito della crisi dei subprime diceva che non possiamo affidare ai topi la guardia del formaggio).
Detto questo sarebbe il caso di approfondire il dibattito alla luce di alcuni nuovi fenomeni del sistema socioeconomico. Per superare definitivamente quella sterile contrapposizione tra liberismo e statalismo e prevenire il riflesso pavloviano dei difensori del libero mercato che subito agitano il pericolo dello statalismo quando sentono accostare i termini “sociale” ed “economico”.
Dai tempi di Don Camillo e di Peppone molte cose sono cambiate. Partendo proprio dall’esempio della storia degli istituti di credito, superata la fase delle banche pubbliche e dei problemi di corruzione ed ingerenza della politica, siamo passati ad una situazione, ben illustrata da Bazoli, secondo la quale coesistono banche, tutte private che affidano il proprio successo al consenso degli azionisti e dei clienti, con una molteplicità di obiettivi.
Da una parte l’approccio aggressivo di molte banche d’affari, additate a modello di innovazione, che hanno privilegiato il trading e la costruzione di strumenti derivati e che oggi sono in grave difficoltà per essersi fidati troppo dei loro giovani Phd in Fisica e Finanza e non aver compreso le conseguenze in termini di rischio delle attività che stavano intraprendendo.
Dall’altra l’approccio più prudente degli istituti di credito italiani, prima considerati il fanalino di coda rispetto alla brillante frontiera dei comportamenti d’oltreoceano e poi, recentemente, lodati dal Financial Times per la loro solidità.
Ma c’è ancora dell’altro. Un fenomeno per certi versi di nicchia ma in forte crescita. La storia del microcredito, la tradizione dei crediti cooperativi e la novità delle banche etiche (assieme a quella di tutto il terzo settore in ambito non bancario) ci insegna che quello “sconsiderato” atto di fiducia nel futuro necessario per creare una nuova impresa non nasce necessariamente solo dagli animal spirits ma anche dai “solidal spirits”. Junus, premio nobel per la pace, decide qualche decennio fa di creare una banca che si pone come obiettivo primario l’accesso al credito dei non bancabili e a questo sacrifica gli utili di un lungo periodo di avviamento della propria attività. Un’idea strana e nuova che produce frutti inattesi se oggi il Microbanking Bullettin segnala l’esistenza di più di 3.000 istituti di microcreedito nel mondo che servono complessivamente circa 100 milioni di clienti vicini alla soglia di povertà.
Allo stesso modo in Italia, una Banca Popolare Etica nata per scommessa una decina di anni fa con l’obiettivo di dare priorità all’impatto sociale ed ambientale dei progetti finanziati ha raggiunto in poco tempo una raccolta di circa 600 milioni di euro ed è diventata la capofila di un gruppo di banche simili presenti in quasi tutti i paesi europei.
Chi ci dice che i solidal spirits sono altrettanto importanti quanto gli animal spirits ? Quello stesso Smith il cui fertile pensiero trasmesso nei due grandi contributi della Ricchezza delle Nazioni e della Teoria dei Sentimenti Morali è stato decapitato trascurando quasi del tutto il secondo filone.
Smith sottolinea nella Teoria dei Sentimenti Morali l’importanza della qualità delle relazioni e del fellow feeling nella determinazione della felicità individuale, affermando poi che la nostra felicità dipende dalla constatazione che diventiamo felici rendendo felici altre persone. In un celebre passo del libro Smith ci da la chiave per capire i solidal spirits. Lavorare per chi è più in difficoltà, senza per questo calpestare i propri interessi, può essere una delle maggiori fonti di felicità personale visto che è proprio in chi ha più bisogno che creeremo maggior felicità per il miglioramento delle proprie condizioni.
Solo un giusto mix di politica e regole migliori (nella consapevolezza della loro necessaria imperfezione) e di presenza di anticorpi sociali forti (nati dalla società civile, indipendenti dal pubblico e sottoposti al mercato) può orientare l’azione dei privati verso quei benefici pubblici di cui il sistema ha bisogno per essere socialmente ed ambientalmente sostenibile. Nessuna azione è neutrale e non esistono regole o politici perfetti che ci esentano dalle nostre responsabilità. E nessuna ideologia o errore del passato può impedirci di cercare una felicità maggiore.