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Grandi contraddizioni connotano gli odierni processi di globalizzazione e il loro impatto sulla possibilità di essere cittadini a pieno titolo. Tali processi non avvengono secondo modalità lineari. Le loro velocità sono molto differenziate: più accentuate a livello finanziario-speculativo, rallentate a livello culturale e civile.

La produzione di beni privati sopravanza la produzione di beni pubblici con il conseguente fallimento nella distribuzione del reddito e delle chances di vita a scala mondiale. Sulle strade del mondo il profitto corre più in fretta della solidarietà. Ne conseguono processi di integrazione squilibrati, con marcati dislivelli nelle posizioni relative dei diversi soggetti coinvolti. Per alcuni la globalizzazione è una grande opportunità, per altri una minaccia, una condanna cui rispondere attivando misure di difesa. Forse siamo entrati nell’era della globalizzazione prima di avere gli strumenti politici, culturali e istituzionali per governarla.rn

Il tema della cittadinanza ci impone di “ripensare” l’economia globale e di “rilegarla” alla società e alle persone. La solidarietà, l’altruismo, la gratuità, il dono – come ci ricorda la “Caritas in veritate”- non sono più categorie residuali, marginali, estranee all’economia. Sviluppo (inteso come avere in funzione dell’essere di ogni uomo e di ogni popolo) e pace possono rappresentare le grandi discriminanti tra non cittadinanza e cittadinanza, tra vecchie e nuove strategie di politica sociale ed economica a scala locale e globale. Per le prime i poveri, i deboli sono un intralcio, un vincolo di ordine pubblico cui far fronte nei limiti delle compatibilità di bilancio. Per le seconde questi possono diventare soggetti, cittadini, protagonisti dei processi di trasformazione.

Occorre porre all’ordine del giorno la questione della cittadinanza globale. Cittadinanza globale fondata sulla interdipendenza e indivisibilità dei diritti umani e democratici. Cittadinanza da conseguire attraverso la faticosa e mai definitiva realizzazione di livelli successivi di partecipazione e solidarietà da città a regione, a stato, a grandi aree continentali fino ad un universale ove “l’altro” non è un avversario ma un partner al servizio di un progetto condiviso. Venire incontro alla domanda di 4 miliardi di persone che vivono con meno di un dollaro e mezzo al giorno è una grande sfida e opportunità. I due terzi del mondo devono essere conquistati alla dignità umana che è anche dignità economica, possibilità di intraprendere, di mettere a frutto le proprie capacità.

Occorre ribadire con forza che più globalizzazioni sono possibili, che più economie di mercato sono possibili. C’è dunque spazio per la progettualità e responsabilità dei diversi attori (locali e globali). Responsabilità eticamente fondata. Le imprese (mi riferisco a quelle profit) non possono chiamarsi fuori e ciò sulla base di una constatazione ben precisa: le imprese producono beni e servizi per il mercato, ma nel contempo e inscindibilmente, producono anche relazioni di convivenza sia al loro interno sia nel contesto.

La responsabilità sociale delle imprese costituisce oggi uno snodo ineludiblile. Responsabilità significa rispondere di qualcosa a qualcuno, sulla base di determinati presupposti di valore e tecnici, in maniera strutturata e verificabile. La responsabilità sociale è dunque elemento costitutivo dell’essere e del fare impresa. Questa non può sottovalutare le implicazioni delle proprie scelte, deve rendere conto di come spende i propri gradi di libertà, del contributo che può dare, direttamente e indirettamente , alla costruzione di una buona società in cui vivere.

Oggi sono molte le imprese “irresponsabili”, ovvero le imprese che al di là degli elementari obblighi di legge (quando non se ne può fare a meno) ritengono di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata né all’opinione pubblica in merito alle conseguenze sociali, economiche e ambientali delle proprie attività. E le attività riguardano le strategie industriali e finanziarie, le condizioni di lavoro nel paese di origine e all’estero, le politiche occupazionali, la qualità e la sicurezza dei prodotti e dei processi, le localizzazioni e le delocalizzazioni, i comportamenti fiscali, ecc. Non sono cose di poco conto!

L’impresa che si pone come obiettivo la massimizzazione del valore per gli azionisti (ovviamente quelli che contano!) o più propriamente la massimizzazione – ad ogni costo e a breve termine – del proprio valore di borsa assumendolo come base per giochi speculativi nella dissociazione tra dinamiche finanziarie e dinamiche reali, rende un cattivo servizio al bene comune e anche a se stessa. L’impresa non appartiene soltanto agli azionisti bensì a tutti gli stakeholder (dipendenti, clienti, fornitori, finanziatori, comunità). Anche essi sono investitori a rischio, i loro apporti sono essenziali per il successo e lo sviluppo dell’impresa. L’impresa socialmente responsabile assume i suoi stakeholder non come mezzi ma come soggetti, come fini.

L’impresa socialmente responsabile non può non riconoscere ampio spazio alle prassi partecipative, con particolare riferimento – nella realtà europea – ai lavoratori e alle loro organizzazioni. Più specificatamente il lavoro e il sindacato possono essere punto di innesco di una nuova governance nella prospettiva dell’allargamento delle frontiere della democrazia e della cittadinanza economica.

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