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La bonaccia estiva sui mercati finanziari ha un po’ attenuato lo stress che il paese sta vivendo da tempo sotto la pressione della crisi dell’euro. Non possiamo però dimenticare che molti italiani hanno scelto di non partire, che il prezzo della benzina è ormai a livelli insostenibili e che la crisi sta modificando profondamente le abitudini di consumo, assottigliando i risparmi ed imponendo sacrifici rispetto al tenore di vita di un decennio fa. È urgente dunque riflettere su piste che possano farci vivere bene questa nuova stagione evitando che l’accumulo di tensioni porti ad un ulteriore peggioramento del clima nel paese.

La crisi finanziaria. Il premier sta facendo di tutto per convincere i partner europei che la pressione sugli spread italiani è ingiustificata dai fondamentali. Uno studio appena uscito della Banca d’Italia conferma l’assunto. Se correggiamo per i tradizionali fattori che spiegano i tassi sul debito (“fondamentali” come deficit, debito e crescita attesa del PIL, misure di liquidità e di premio di rischio globale) lo spread italiano dovrebbe essere di circa 200 punti più basso.
La situazione che invece stiamo vivendo impone oneri aggiuntivi pesantissimi che impediscono di destinare risorse alle misure in favore della crescita e genera un differenziale di costo del credito per le nostre imprese rispetto ai competitori internazionali che diventa alla lunga insostenibile.
L’eccesso di spread è dunque una sorta di valanga che ha la capacità di autoalimentarsi facendo avverare, se non contrastato, le profezie esagerate della speculazione. L’urgenza prioritaria dunque è quella di attivare lo scudo antispread secondo le modalità più volte discusse in questa e in altre sedi.
Le ricette per la crescita. Il rasserenamento della situazione sui mercati finanziari potrebbe consentirci più spazio di manovra per fare ciò che è necessario per rilanciare il paese. In prima battuta, rendere automatica la destinazione delle risorse ottenute con la lotta all’evasione e la spending review alla riduzione della pressione fiscalee sui ceti più deboli. Keynes direbbe oggi che togliere i soldi spesi male o recuperati dal mercato nero senza rimetterli nelle tasche dei cittadini è peggio che non intervenire proprio perché queste risorse, nonostante tutto, girano e alimentano l’economia; i soli tagli, senza restituzioni alle famiglie bisognose, deprimo la domanda e basta. Altra azione fondamentale, portare a termine la semplificazione burocratica, l’agenda digitale e le politiche di incentivo alla produttività nelle imprese attraverso la contrattazione decentrata.
I casi difficili (Alcoa e Sulcis). I drammi di questi giorni non devono distoglierci da un’analisi obiettiva dei fatti e di come è possibile perseguire il bene comune in situazioni difficili come queste. Le economie moderne sono caratterizzate da un’elevatissima creazione e distruzione di imprese e posti di lavoro. Il passaggio più delicato diventa dunque quello di trovare meccanismi che tutelino il lavoratore ma non necessariamente il posto di lavoro. Gli studi sulla produttività documentano che una parte importante di essa si genera proprio attraverso gli spostamenti da un posto di lavoro all’altro che assecondano i cambiamenti delle traiettorie tecnologiche e dei gusti dei cittadini. Che sarebbe successo se ci si fosse ostinatamente dedicati alla difesa dei posti di lavoro dei costruttori di carrozze di cavalli al momento dell’avvento delle automobili? E cosa succederà se cercheremo oggi in tutti i modi di puntellare posti di lavoro e attuali dimensioni di capacità produttiva in settori obsoleti? Queste considerazioni vanno messe sulla bilancia assieme alla valutazione attenta dei costi umani e psicologici per i lavoratori coinvolti in queste crisi. Ma siamo sicuri che nella loro disperazione essi vogliano difendere la miniera o l’altoforno in sé e non la stabilità e la sicurezza dei loro redditi futuri? E che non sia possibile perseguire questo obiettivo offrendo loro la possibilità di percorsi diversi?
L’atteggiamento con cui vivere questa fase. Una delle poche volte in cui la grancassa mediatica sta facendo qualcosa di veramente utile ed edificante è quella della copertura delle paralimpiadi. È dagli sforzi di questi atleti che possiamo trarre un insegnamento utile per affrontare la crisi che, in un certo senso e con tutto il rispetto per problemi più gravi e spesso irreversibili, ci sta rendendo “diversamente abili” dal punto di vista economico. Ho più volte chiesto a mia figlia di vedere alcune delle gare più importanti e di raccontare i valori che a mio avviso ci sono dietro questo evento. La forma mentis dell’economista (questo è l’aspetto migliore della nostra disciplina) che è un uomo pragmatico e fattivo assomiglia molto a quella dell’atleta paralimpico. Quello che insegniamo ai nostri studenti con le massimizzazioni vincolate è che l’atteggiamento migliore è quello di chi non si piange addosso sui vincoli che la vita gli ha imposto ma, partendo da essi, si dà un obiettivo e una missione e fa il massimo sforzo per raggiungerla. E’ vero che delle paralimpiadi si possono dare anche molte altre letture “meno edificanti” (alcuni atleti sembrano avere le stesse tentazioni degli atleti “non disabili” nel cercare di ottenere a tutti i costi il risultato anche con mezzi non leciti, parte del pubblico si affaccia all’evento magari con lo spirito di chi vuole vedere dei “fenomeni da baraccone”). La lettura edificante però a mio avviso prevale perché le paralimpiadi sono un bel palcoscenico per dimostrare che la vita è una “massimizzazione vincolata” nella quale l’atteggiamento migliore è quello di chi, da qualunque punto di partenza, sa dare un senso alla propria esistenza e si propone di ottenere il massimo dati i limiti delle sue possibilità di azione.

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