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Oggi si parla di umanesimi, partendo dalla constatazione che esistono differenti modi di ‘pensare’ e prendersi cura dell’uomo. Di fronte a questi dati è urgente parlare di nuovo umanesimo così come proposto dalla Chiesa italiana con il Convegno ecclesiale di Firenze 

Oggi si parla di umanesimi, partendo dalla constatazione che esistono differenti modi di ‘pensare’ e prendersi cura dell’uomo. Di fronte a questi dati non sembra velleitario parlare di umanesimo al singolare o di nuovo umanesimo così come proposto dalla Chiesa italiana con il Convegno ecclesiale di Firenze. Si traccia così una prospettiva coraggiosa che richiama l’importanza di non abbandonare la ricerca continua del nucleo fondamentale che accomuna tutti gli uomini. Nella pluralità delle culture, riprendendo la Gaudium et Spes, occorre cercare di costruire una cultura umana comune che permetta agli uomini di dialogare e camminare insieme. Per i cristiani questa ricerca ha una radice, un modello di riferimento che è il volto di Gesù; esso non si chiude nei confini di un determinata periodo o contesto culturale, al contrario è compito dei credenti mostrare come esso sia per ogni tempo forza di rinnovamento e sviluppo della qualità umana della vita personale, delle relazioni sociali, economiche e politiche. Intervenendo al Convegno ecclesiale il Papa ha affermato con chiarezza che l’antropologia cristiana è fondata “sull’Ecce homo che non recrimina e accoglie” contrapposto alla “conflittualità dell’homo homini lupus di Thomas Hobbes”.

Il richiamo a Firenze porta il nostro immaginario al Quattrocento, quando è nato l’umanesimo italiano. Le radici del nuovo umanesimo partono da lì. E’ importante capire in che modo abbia influenzato molti ambiti della vita: dalla cultura alla vita sociale e politica, dalla scienza all’economia.

L’umanesimo civile italiano
L’umanesimo è un movimento ideologico-culturale (letterario, artistico, filosofico, religioso) che afferma la dignità degli esseri umani, che nasce e si afferma nel corso del secolo XV coinvolgendo tutta l’Europa Occidentale, con epicentro in Italia (Firenze, Roma, Napoli, Milano e Venezia).

Il termine deriva da humanitas, che nel mondo latino indica la formazione dell’uomo, cioè quell’insieme di discipline, appunto le humane litterae, atte a sviluppare nell’uomo la sua vera natura, quella spirituale (poesia, retorica, storia, studio dei classici). Il termine si collega perciò alla riscoperta dei classici greci e latini. Il fenomeno umanistico si esprime inizialmente con una ricerca appassionata di testi e opere d’arte dell’antica Roma e Grecia che vengono considerati modelli da emulare e imitare. Le prime manifestazioni si hanno nel Trecento con Petrarca e Boccaccio, ma la piena affermazione dell’umanesimo avviene nel secolo XV.

Il modo nuovo, umanistico, di guardare gli antichi ha conseguenze importantissime nel modo di intendere l’uomo. Se i classici rappresentano il massimo di realizzazione dell’uomo, se la loro umanità costituisce un modello, allora l’avvenimento cristiano non è più così indispensabile alla realizzazione dell’uomo. Bisogna notare tuttavia come questo non porti a una rottura netta col passato: per lungo tempo questa nuova mentalità coesiste accanto alla concezione del mondo cristiana. Tante manifestazioni culturali, tecnologiche, artistiche del Quattrocento si ricollegano alla concezione dell’uomo medievale e a quella civiltà dei comuni italiani che rappresenta un elemento significativo della cristianità medievale. La cultura umanistica non è anticristiana ma ne dà un’interpretazione nuova, in cui si riconoscono la dignità e la libertà dell’essere umano e il valore dell’uomo e della vita terrena.

Nella prima metà del Quattrocento l’umanesimo si caratterizza per un forte impegno civile inteso a modificare la realtà politica terrena secondo principi non autoritari: è il cosiddetto “umanesimo civile”. La culla dell’umanesimo civile è la Toscana della prima metà del Quattrocento. I suoi maggiori esponenti e interpreti furono Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Léon Battista Alberti e Matteo Palmieri, Antonino da Firenze. Questi intellettuali ritenevano che cultura, politica e società dovevano interagire per il bene comune. L’impegno letterario era strettamente legato a quello politico, alla partecipazione attiva alla gestione della città; venivano esaltati la libertà, la giustizia e la civiltà della Repubblica fiorentina. E’ un’età che vede a Firenze una concentrazione straordinaria di artisti: Brunelleschi, Masaccio e Donatello, Botticelli, Della Robbia, Beato Angelico.

La stagione dell’umanesimo civile è breve. L’esperienza della libertà e della repubblica cede il passo alle Signorie e alle monarchie assolute, che subito conduce a un’epoca di autoritarismi ben lontani dalla libertas florentina. Infatti non è un caso che con la fine del quattrocento la riflessione sulla vita civile subisce un arresto; lo stesso umanista non è più l’uomo politico e impegnato come lo erano stati Bruni o Palmieri, ma un individuo solitario, girovago da una corte europea ad un’altra. Anche la riflessione sulla felicità diventa una ricerca individualista ed epicurea, come i vari trattati di questo periodo stanno ad indicare: Marsilio Ficino, Filippo Beroaldo, Piero Valeriano, Lorenzo de’ Medici o Pico della Mirandola, tutti, seppur in modo diverso, scrivono che la felicità va cercata nella fuga dalle creature e dalla città e che la vita in comune non può portare che sofferenze.


L’umanesimo integrale
Tra i pontefici è soprattutto Paolo VI che parla di nuovo umanesimo. Egli lo invoca, quale anima etico-culturale della civiltà, con riferimento alla creazione di una società mondiale pacifica, dove tutti i popoli possano conseguire uno sviluppo plenario, solidale, comunitario, aperto alla Trascendenza. Nel magistero sociale trova così consacrazione l’istanza – individuata ed approfondita specialmente da Jacques Maritain nella sua opera Umanesimo integrale – dell’impegno, da parte delle comunità ecclesiali, di vivificare la costruzione della società mediante il potenziamento di una cultura commisurata alla dignità della persona. Per Maritain infatti “l’uomo non raggiunge la sua perfezione che soprannaturalmente, egli non cresce che sulla croce. Un umanesimo è possibile, ma a condizione che esso abbia per fine Dio attraverso l’umanità del Mediatore, e che egli predisponga i suoi mezzi a questo fine essenzialmente soprannaturale: umanesimo dell’incarnazione; a condizione che esso si ordini tutto intero all’amore e alla generosità redentrice; subordini perfettamente la scienza alla saggezza, e la saggezza metafisica alla saggezza teologica, e la saggezza teologica alla saggezza dei santi; comprenda che la ragione non può possedere il mondo se non sottomettendosi essa stessa all’ordine soprarazionale e sovraumano dello Spirito Santo e dei suoi doni”.

Il discorso di un nuovo umanesimo è ripreso da Giovanni Paolo II, in un’epoca sensibilmente diversa, in cui il secolarismo e l’ateismo pratico sono cresciuti. Nelle sue prime encicliche ne evidenzia la dimensione teo-cristocentrica mentre nella Centesimus annus, fa intravedere la necessità – specie con riferimento al consumismo e al degrado ambientale che manifestano un materialismo utilitarista incapace di stabilire un corretto rapporto con le generazioni future e il creato – di un umanesimo relazionale e comunitario, sia in senso orizzontale (verso l’uomo) che verticale (verso Dio).

Qui si manifesta, con tutta evidenza, l’eredità del pensiero di Emmanuel Mounier che nel suo libro Il personalismo (così come in altre opere) propone il personalismo comunitario come via che conduce alla prospettiva di un umanesimo relazionale, indispensabile per promuovere una qualità veramente umana di vita per tutte le persone, le società e i popoli. Mounier afferma significativamente: “la prima preoccupazione dell’individualismo è di centrare l’individuo su sé stesso; la prima preoccupazione del personalismo è di decentralo da sé, per stabilirlo nelle prospettive aperte della persona” (p. 33)

Della prospettiva del nuovo umanesimo relazionale e comunitario parla esplicitamente anche il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (2004) come risposta al clima culturale odierno contrassegnato, dopo il crollo dei collettivismi, dal ritorno dell’individuo che interessa diversi ambiti: il lavoro, il diritto, l’economia, la politica e la bioetica.

In definitiva l’umanesimo integrale, come il personalismo comunitario che lo sostanzia, non è una mera utopia, ma la prospettiva di una civiltà in cui la società civile ha il primato sulla comunità politica così come la persona e l’etica hanno un primato sullo Stato.

I sentimenti dell’umanesimo cristiano
Papa Francesco, a Firenze, ha proposto una visione dell’umanesimo cristiano fondata sui “sentimenti di Cristo Gesù” che non sono da considerarsi come “astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma come “la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni”.

Il primo sentimento è l’umiltà.
Considerare gli altri superiori a sé stessi ci preserva “dall’ossessione di preservare la propria gloria, la propria dignità, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti”.
Il secondo è il disinteresse. Non bisogna cercare il proprio interesse ma anche quello degli altri, la felicità di chi ci sta accanto. “L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale” ma è capace di donarsi. “La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo”.
Il terzo sentimento è la beatitudine. Il cristiano è un beato perché, ha in sé la gioia del Vangelo. “Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina. Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito” che non è solo quella dei santi ma anche quella di chi “conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede”; quella “del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care”.

In sostanza il Papa ci propone un umanesimo dell’ascolto che partire dal vissuto per vedere il bello di ciò che c’è, nella speranza di ciò che ancora può venire, umilmente consapevoli che si può solo ricevere. Ma anche un umanesimo della concretezza, dove “concretezza” significa parlare con la vita, trovando la sintesi tra verità e vissuto. Senza essere ossessionati dall’efficienza o affannati sulle sole urgenze. Un agire che diventa sapienziale in grado cioè di dar vita a processi e di mobilitare risorse, combattendo l’indifferenza con l’attenzione all’altro. Un umanesimo della concretezza che deve essere relazionale, aperto, dinamico, affettivo e generativo, come ha spiegato Mauro Magatti.

Umano e post-umano
Scienza e umanesimo hanno camminato a lungo insieme, ma da circa due secoli le loro strade si sono separate: ciò anima la discussione sui pregi e limiti di una formazione umanistica o scientifica. I problemi nascono da una proposta umanistica frammentata e da una presenza spesso aggressiva di uno scientismo riduzionistico, che legge l’uomo come mera materia animata. Oggi l’integrazione tra prospettiva umanistica e cultura scientifica appare precaria per due ragioni: da un lato il quadro dell’umanesimo contemporaneo non è univoco perché le scienze umane (economia, politica, diritto, sociologia, psicologia) sono settoriali e fanno riferimento a idee di uomo in alcuni casi distanti; dall’altro lato manca un concetto attendibile di persona umana, che non può che provenire da un’idea filosofica e/o religiosa sull’essere umano. In sostanza oggi non si è più in grado di condividere il concetto di “natura umana” come essenza immodificabile.

Inoltre l’attuale cultura utilitarisca, continuamente alimentata dal ritmo incessante delle applicazioni tecniche, indirizza lo sguardo solo verso ciò che è utile. Per l’utilitarismo è molto difficile accettare che vi siano cose che non servono a nulla, ma che sono portatrici di un valore umano. Cose che non usiamo e consumiamo, ma che valgono poiché veicolano bene, bellezza e senso.

Come osserva Vittorio Possenti (2013) “l’alleanza tra materialismo e tecnica instaura sull’essere umano, ormai inteso come mero pezzo della natura, il potere biopolitico che conduce a esiti inquietanti: il superamento della barriera uomo-animale e il “post-umano” propiziato dall’ingegneria genetica”. Per opporsi a questa deriva bisogna far riferimento a dei fattori di resistenza: la nozione di persona, di umanesimo condiviso e di etica libera dall’utilitarismo. Solo per questa via si può articolare un’idea di conoscenza e di discorso pubblico che esprimono l’irriducibile dignità etica dell’uomo vigilando sulle possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnica.

Ma oltre al problema del rapporto fra naturale e artificiale bisogna porre attenzione anche alla distinzione tra uomo e ambiente. Come afferma Francesco Viola (2010) “Se questa distinzione è impossibile, allora ne va dell’identità umana. Non è un caso che il nodo centrale della problematica del post-umano ruoti non tanto sulla possibilità delle ibridazioni tra le specie naturali, ma soprattutto intorno alla questione della confusione tra uomo e ambiente dell’uomo. Qui bioetica ed ecologia s’incontrano e si fondono”. Il post-umano comporta un nuovo modo di considerare l’umano dove la questione dell’identità non ha più alcun senso.


Umanesimo economico
Come sostiene Stefano Zamagni in diversi suoi lavori, l’umanesimo civile del Quattrocento è la conseguenza immediata della scuola di pensiero francescana. I seguaci di San Francesco, Bernardino da Siena e Bernardino da Feltre, Fra Luca Pacioli cercano di trovare la soluzione al problema di come togliere dalla miseria le popolazioni dell’epoca, adoperandosi per definire i principi dell’economia civile. Vi è una linea di pensiero sociale squisitamente italiana, fiorita a partire dall’umanesimo civile che arriva fino all’illuminismo milanese e napoletano del Settecento: quella dell’economia civile che va ripresa e diffusa per mettere al centro il tema dell’umanesimo economico.

La visione del rapporto mercato-società tipica dell’economia civile affonda infatti le sue radici nel pensiero classico e in particolare nell’umanesimo civile italiano. L’idea centrale è quella di vivere l’esperienza della socialità umana, della relazionalità e della reciprocità all’interno della normale vita economica. In particolare l’umanesimo civile elabora 3 principi regolativi dell’attività economica, che concorrono al bene comune (Zamagni 2007) da valorizzare traducendoli nel contesto del mercato globale:
la divisione del lavoro, ideata per dare a tutti, anche ai meno dotati in senso fisico e psichico, la possibilità concreta di lavorare. Da questo principio discende quello della necessità dello scambio di mercato;
l’idea di sviluppo, intesa come opportunità di dilatare gli spazi di libertà per produrre e accumulare beni e risorse non solo per la generazione presente ma anche per quelle future;
la libertà d’impresa, ossia chiunque ha i talenti e il desiderio di fare l’imprenditore, deve essere lasciato libero di perseguire la propria ‘vocazione’. Da questo principio discende quello di competizione la cui funzione principale è quella di portare in equilibrio la domanda e l’offerta.

In diverse encicliche sociali – dalla Rerum Novarum (1891) alla Populorum Progressio (1967) dalla Laborem Exercens (1981) alla Centesimus Annus (1991) dalla Caritas in veritate (2009) fino alla Laudato si’ (2015) – emerge una tensione ad un nuovo umanesimo “incentrato su due assiomi: lo sviluppo umano integrale e la centralità della persona, fra di loro profondamente connessi e che si realizzano appieno solo superando la concezione dell’uomo in senso unicamente individualistico, per farne una persona aperta alla comunità” (Ciravegna 2012)

Sul tema dell’umanesimo in economia segnaliamo il contributo teorico dell’economista e sociologo Wilhelm Röpke (2005), che pur con i suoi limiti, ha il merito di aver sostenuto come l’economia di mercato si debba necessariamente accompagnare ad una sensibilità sociale, come sia possibile perseguire la terza via dell’economia sociale di mercato. L’umanesimo liberale di Röpke è attento all’essere umano e al senso civico. La sua è una visione di una società nella quale le attività economiche s’integrano nel contesto culturale e morale, riconoscendo il ruolo dell’individuo.

Da una prospettiva profondamente diversa si muove l’umanesimo rivoluzionario del geografo, sociologo e politologo inglese David Harvey che nel suo libro Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (2014), propone un cambio di  paradigma sul piano sociale ed economico che si fonda su un assioma centrale: la persona realizzata non è quella che accumula denaro senza preoccuparsi della violenza che esercita, ma è quella che condivide con gli altri la vita e si adopera affinché tutti possano realizzarsi al meglio e con creatività. Per questo Harvey cerca alleanze con tutti quegli umanesimi religiosi che possono condividere sufficientemente la medesima direzione di marcia.

La Dottrina sociale della Chiesa, in particolare la Centesimus Annus (che parla di “impresa come comunità di uomini” n. 35) e numerose teorie organizzative sostengono la necessità e l’utilità di rendere non solo l’economia ma anche l’impresa più umana (Mcgregor 1985), partecipativa, in ascolto (Crozier 1990) e comunitaria (Olivetti 2014) mostrandone i risvolti positivi anche in termini di produttività.

Più di recente si è arrivati a parlare di umanesimo manageriale come stile che nasce dal recupero del profilo alto della persona e dell’importanza di un tessuto relazionale positivo tra colleghi, indipendentemente dagli incarichi e dalle gerarchie funzionali. Uno stile che mira a far conoscere reciprocamente le persone e non i ruoli. Con l’umanesimo manageriale si realizza il pensiero laterale, la consapevolezza della diversità di interessi, conoscenze, logiche di azioni; in una parola, si creano le possibilità di integrare e integrarsi nel lavoro attraverso le diversità dell’extra lavoro.

Umanesimo profetico in politica
Seguendo le riflessioni proposte da Francesco Valerio Tommasi nel suo libro Umanesimo profetico (2015) Il cristianesimo non può mai accomodarsi nel mondo ma deve sempre indicare che un altro mondo è possibile. Il cristianesimo non deve entrare in concorrenza con i poteri del mondo ma negarli: in questo senso è sovversivo, quasi anarchico. E poiché il cristianesimo si esprime mediante concetti, persone, istituzioni non può mai accontentarsi nemmeno di se stesso; deve essere invece in uno stato di “rivoluzione permanente”. Il cristianesimo non è infatti l’adesione ad una visione del mondo, qualunque essa sia, non può essere un sistema o un’impalcatura di potere.

Solo su questi presupposti risulterà credibile anche la proposta di un nuovo umanesimo che non sarà in alcun senso mondano solo se non esprimerà né ideologie né interessi troppo umani; se non sarà sordo al grido dei deboli e dei poveri. Il cristianesimo può quindi predicare l’umanesimo solo se diventa altro rispetto ai poteri del mondo. In questo senso l’Evangelii Gaudium offre indicazioni chiare ed inequivocabili per la vita politica e per la costruzione del bene comune proponendo, tra l’altro, che “il tempo è superiore allo spazio” (n. 223). Papa Francesco afferma significativamente: “Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi”.

Il cattolicesimo politico deve assumere la sfida della contemporaneità aprendosi di nuovo al dialogo con tutti gli uomini di buona volontà rinunciando a vecchie mediazioni, senza nostalgie del passato, senza rifugiarsi in uno spiritualismo astratto e sviluppando al capacità di cogliere la relatività delle cose e il pluralismo delle voci. Questa è la via di un umanesimo profetico, che sa dire oltre senza essere oltre: che sa stare al mondo senza essere di questo mondo. L’umanesimo profetico è chiamato quindi a ri-orientare l’azione politica, a “costruire la città dell’uomo a misura d’uomo” – per usare un’espressione di Giuseppe Lazzati (1984) – per cogliere il significato e il valore di un impegno cui ogni uomo, proprio in quanto uomo, non può sottrarsi senza diminuire o perdere il senso della sua umanità.

Inoltre i cattolici per esercitare un ruolo profetico in politica dovrebbero recupere il valore dell’impegno che – riprendendo la lezione di Mounier – è engagement, ossia lotta per la libertà, la giustizia e la democrazia. Secondo il padre del personalismo comunitario: “Il cristiano deve mettersi bene in testa che è un cittadino della terra e che, se vuole imitare pienamente Cristo, deve pienamente con Lui assumersi i pesi e gli impegni di questa cittadinanza (…). Il cristiano sarà un uomo totalmente uomo fra gli uomini e non barerà con le esigenze della terra. Il mio Vangelo è il Vangelo dei poveri. Esso non si rallegrerà mai di ciò che può separare il mondo e la speranza dei poveri. Non è una politica, lo so, ma è una ragione sufficiente per rifiutare certe politiche”.


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