E’ un neologismo che deriva dalla fusione di flessibilità e sicurezza. La flexicurity è strategia europea che intende coniugare le esigenze liberiste della competitività con la tutela dei lavoratori. Questo modello attribuisce un ruolo centrale sia alle politiche attive del lavoro sia a soluzioni contrattuali flessibili ma affidabili. Mira a introdurre sistemi di protezione capaci di garantire un adeguato sostegno del reddito durante i periodi di disoccupazione

Definizione
Flexicurity (flessicurezza, in italiano) è un neologismo che deriva dalla fusione di flessibilità e sicurezza. L’idea nasce in Olanda con il Flexibility and Security Act del 1999. Qualcuno definisce un ossimoro concettuale l’idea di coniugare la flessibilità imposta dal mercato globalizzato con le garanzie di sicurezza dell’occupazione per ogni lavoratore, che richiedono una certa rigidità normativa. La flexicurity, in questi anni, è diventata un’idea strategica perché coniuga le esigenze liberiste della competitività con le richieste sociali di tutela dei lavoratori. Un esempio di flexicurity è, appunto, il mercato del lavoro danese, caratterizzato da una notevole flessibilità in entrata e in uscita, ma anche da un buon sistema formativo e da ammortizzatori sociali in grado di offrire un’efficiente protezione a coloro che si trovano senza occupazione. Il modello della flexicurity attribuisce un ruolo centrale sia alle politiche attive del lavoro (come ad esempio il lifelong learning), sia alle soluzioni contrattuali flessibili ma affidabili; mira anche a introdurre sistemi di protezione sociale capaci di garantire un adeguato sostegno del reddito durante i periodi di disoccupazione.

La flessicurezza in Italia
La riforma del mercato del lavoro italiano, di fatto iniziata con la riforma Dini delle pensioni, ha avuto tre tappe importanti: il pacchetto Treu (legge n. 196/1997) la legge Biagi (legge n. 30/2003) e la riforma Fornero (legge n. 92/2012). Le prime due riforme hanno cambiato quasi tutta la normativa sul mercato del lavoro e sui servizi per l’impiego, ma non sono state accompagnante da una adeguata politica di flexicurity in grado di offrire sicurezze sociali per il lavoro flessibile. Secondo qualche osservatore infatti questi interventi normativi hanno in realtà assecondato le tendenze alla frammentazione del mercato del lavoro e degli assetti delle imprese, aggravando gli effetti negativi della flessibilità, avallando la precarietà. Diverse sono state le proposte successive di riforma del mercato del lavoro (Boeri T. e Garibaldi P, 2008; Ichino P., 2009) e di ampliamento dei diritti dei lavoratori con l’obiettivo di offrire maggiore tutela e sicurezza (Amato G., Treu T. e altri, 2002). In particolare va segnalata quella presentata da Pietro Ichino che si proponeva esplicitamente l’obiettivo di portare il sistema italiano verso un regime di flexicurity. Ma solo la riforma Fornero, se consideriamo l’impianto generale e l’equilibrio complessivo del provvedimento, si ispira in modo chiaro alla flexicurity. Infatti secondo Tiziano Treu (2012) questa legge, pur con tutti i suoi limiti, “ha tentato di introdurre importanti correzioni all’equilibrio mediterraneo verso la flexicurity europea su tre blocchi della disciplina: la flessibilità in entrata, la nuova regolazione dei licenziamenti ed il riassetto degli ammortizzatori sociali” con l’istituzione dell’ASpI e della mini AspI.

La flexicurity in Europa
Le politiche europee per la flexicurity si muovono entro un percorso delineato da alcuni passaggi: la strategia di Lisbona (2000), la comunicazione della Commissione Europea Verso principi comuni di flessicurezza (2007) e gli orientamenti integrati per la crescita, l’occupazione e la coesione sociale previsti dalla strategia Europa 2020.

La comunicazione del 2007, che sviluppa le premesse emerse già nel 2006 dal Libro Verde Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo, esplicita alcuni principi comuni sulla flexicurity, tentando anche una sua definizione: “La flessicurezza può essere definita quale strategia integrata volta a promuovere contemporaneamente la flessibilità e la sicurezza sul mercato del lavoro. La flessibilità, da un lato, ha a che fare con i momenti di passaggio ("transizioni") che contrassegnano la vita di un individuo: dal mondo della scuola a quello del lavoro, da un’occupazione a un’altra, tra la disoccupazione o l’inattività e il lavoro e dal lavoro al pensionamento. (…)”. La flessibilità assicurerebbe ai lavoratori migliori posti di lavoro, una discreta mobilità ascendente e l’ottimale sviluppo dei talenti. Il concetto di sicurezza è qualcosa di più che la semplice sicurezza di mantenere il proprio posto di lavoro: significa dotare le persone delle competenze che consentono di progredire durante la vita lavorativa e le aiutino a trovare un nuovo posto di lavoro. Per questo la flessibilità porta con sè anche la necessità di organizzazioni del lavoro flessibili, capaci di rispondere con efficacia ai nuovi bisogni e alle nuove competenze richieste dalla produzione.

La crisi del 2007 ha limitato l’implementazione della flexicurity, ma oggi sta riprendendo vigore con la strategia denominata Europa 2020, lanciata dalla Commissione Europea per ripensare lo sviluppo, dove l’applicazione di una intelligente flexicurity dovrebbe comportare una migliore gestione delle transizioni economiche, la lotta alla disoccupazione e l’aumento della produttività del lavoro, riducendo la segmentazione dei mercati del lavoro e incentivando le politiche della formazione, con il coinvolgimento delle parti sociali.

Punti di forza
Sintetizzando alcuni passaggi della Comunicazione della Commissione europea (2007) è possibile individuare alcuni elementi di forza della strategia delle flexicurity. Secondo questo approccio essa armonizza:
gli accordi contrattuali flessibili e con politiche attive di sicurezza sociale;
i diritti e le responsabilità tra tutti i soggetti in campo (datori di lavoro, lavoratori, autorità pubbliche);
la variabilità dei mercati del lavoro con la rigidità delle relazioni industriali;
gli interessi degli insider con quelli degli outsider (ossia di chi è dentro e di chi è fuori del mercato del lavoro);
i tempi e i ruoli dei diversi soggetti sociali (le donne, i disabili, i migranti, gli anziani…).

In sintesi si potrebbe affermare che con questo modello “le forme contrattuali flessibili si bilanciano con un’adeguata protezione sociale e tutela nelle transizioni professionali, da strategie di qualificazione e riqualificazione attraverso la formazione, dalla garanzia di buone condizioni di lavoro”. (Massimiani, 2008)


Punti di debolezza
Gli elementi critici di questo modello possono essere così sintetizzati:
il ridimensionamento del ruolo della negoziazione sindacale;
la deresponsabilizzazione delle imprese a causa di un intervento pubblico attuato con gli ammortizzatori sociali (lo Stato infatti, nella logica della flexicurity, è il terzo contraente nel rapporto di lavoro e rischia di sottrarre responsabilità all’impresa circa il destino del lavoratore);
l’accettazione dell’idea di perdere il lavoro, con la previsione di introdurre forme di tutela anche quando si parla contesti come quello italiano (e dell’Europa meridionale in genere) non ancora dotati di strumenti adeguati di protezione, con un debole sistema pubblico di servizi per l’impiego e con un mercato del lavoro poco dinamico;
il lento abbandono dell’idea dei diritti sociali ed in particolare del diritto al lavoro, porta con sè l’abbandono della logica politica e democratica che sorregge un certo modello sociale: “Pretendere dalle persone presenti sul mercato del lavoro di perfezionare continuamente la propria “adattabilità”, senza potersi appellare a diritti, significa indurle a “portare al mercato” ogni singola goccia del proprio tempo. (…) Un mondo di uomini e donne flessibili perde la forza di essere una polis”. (Ilaria Possenti, 2012)

Secondo importanti studiosi come Luciano Gallino e Luigi Campiglio, il modello della flexicurity è difficilmente esportabile dalla Danimarca ad altri contesti. Nel Paese scandinavo le politiche attive del lavoro e di sicurezza sociale si depositano su un tessuto sociale e un apparato istituzionale caratterizzato da una forte fiducia nel legame comunitario.

Il dibattito sul tema
Diversi autori concentrano la loro analisi sull’orientamento neoliberista delle politiche economiche e sociali occidentali, individuando nella flexicurity uno strumento di tali politiche. La flessibilità postfordista produrrebbe non solo precarizzazione materiale e sociale, ma anche potenti effetti di desoggettivazione e precarizzazione della cittadinanza (Richard Sennet 1999; Zygmunt Barman 2000; Luciano Gallino 1997). In sostanza questi autori negano la possibilità di far coesistere flessibilità e sicurezza.

Per Accornero (2005) la flessicurezza richiede di riprogettare i sistemi di protezione e di sicurezza sociale oggi presenti in Italia, adottando misure tese ad assicurare a tutti la continuità dei diritti di cittadinanza del lavoratore pur nella discontinuità dei percorsi lavorativi. Secondo Gallino (2014) la flessicurezza non riesce a ridurre le situazioni di precarietà ma si limita ad attenuare gli effetti delle interruzioni nell’occupazione. “I lavori flessibili comportano rilevanti costi personali e sociali, a carico dell’individuo, della famiglia, della comunità. (..) Il lavoro flessibile è capace di presentare i conti anche tra dieci o vent’anni: quando la giovinezza sarà passata e le lacune nella formazione, i progetti di vita rinviati e mai realizzati, le esperienze professionali frammentarie comporranno un curriculum di fronte al quale un responsabile dopo l’altro delle risorse umane scuoterà mestamente il capo”.

Per Fabio Berton, Matteo Richiardi e Stefano Sacchi (2009) “la flessibilità del lavoro e la sicurezza di lavoratori sono due obiettivi che dovrebbero essere perseguiti in modo congiunto bilanciando gli intereressi dei lavoratori e dei datori di lavoro”. Quando però questo non avviene si verifica “un gioco a soma zero che vede come perdenti o i datori di lavoro, stretti nelle morse dei vicoli che inibiscono la crescita dei loro affari e la loro competitività, o i lavoratori, vittime di forme di insicurezza. Questo è il caso dell’Italia, che possiamo definire come un esempio di flex-insecurity”.

Il pensiero delle Acli
Le Acli, già nel 2002, lanciavano un Manifesto per la flessibilità sostenibile, realizzando una campagna su tutto il territorio nazionale, nella consapevolezza della necessità di evitare che il ricorso alle diverse forme di lavoro flessibile, invece di essere uno strumento di accesso al mercato del lavoro, degenerasse in una condizione permanente di precarietà. Le Acli, attente ai primi dibattiti europei sulla flexicurity, gia allora sottoponevano all’attenzione dell’opinione pubblica, il rischio che il ricorso a forme di lavoro flessibile si potesse trasformare in un aumento delle condizioni di instabilità lavorativa. Le Acli affermano infatti che “porsi nell’ottica della flessibilità sostenibile, significa valutare gli oneri sociali che derivano da un’evoluzione oramai irreversibile e la necessità di rendere tollerabile, appunto sostenibile, questa nuova condizione. (….) La prospettiva della flessibilità sostenibile si può definire come l’effettiva possibilità dell’individuo di gestire il lavoro e il suo eventuale cambiamento, in modo tale da mantenere e migliorare la propria situazione di benessere. Questa condizione della persona deve essere resa possibile da politiche inclusive e da un quadro sociale di sostegno della comunità e della famiglia che tendano a massimizzare le opportunità e minimizzare gli aspetti negativi”.

Nel 2009 le Acli lanciano la campagna “Verso uno Statuto dei lavori” con l’obiettivo esplicito di dare un contributo per l’ampliamento dei diritti e delle tutele soprattutto verso quei lavoratori che ne sono privi. In continuità con l’impegno per una flessibilità sostenibile viene proposta un’ampia riforma degli ammortizzatori sociali da coniugare all’adeguamento delle politiche attive, prevedendo in particolare la partecipazione attiva dei lavoratori a percorsi di riqualificazione e reinserimento.


Bibliografia
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Auer P., La flexicurity nel tempo della crisi, in “Diritto delle relazioni industriali” Numero 1/XXI – Giuffre Editore, Milano 2011.
Bauman Z., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000.
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Boeri T., Garibaldi P., Un nuovo contratto unico per tutti, Chiarelettere, Milano 2008.
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Gallino L., Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, Laterza, Roma-Bari 2014.
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Leon P., Le politiche economiche monetarie europee e la precarietà, in Leon P., Realfonzo R. (a cura), L’economia della precarietà, Manifestolibri, Roma 2008.
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Sennett R., L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 1999.
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Trini A, Flessibilità: il lavoro contemporaneo tra trasformazioni socio-economiche e politiche del lavoro, Università degli Studi di Urbino “Facoltà di Sociologia” 2012, E-text in www.liberliber.it.
Trotta M., Flexicurity: il ruolo delle Istituzioni europee nel difficile percorso verso una crescita economica che non rinneghi il modello sociale europeo, Formez, Roma 2010.
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