I lavoratori a basso reddito: una categoria sociale comparsa nelle società occidentali nel nuovo millennio. Si tratta di occupati che lavorano ma che non riescono a guadagnare abbastanza per poter vivere in modo adeguato. La loro presenza in un Paese è segnale del deterioramento delle condizioni di lavoro. In Italia e in Europa stanno aumentando in modo preoccupante

Una delle categorie sociali comparsa nelle società occidentali insieme al nuovo millennio è quella dei working poor  ossia dei lavoratori a basso reddito. Si tratta di occupati che lavorano, eppure non riescono a guadagnare abbastanza per poter vivere in modo adeguato. La loro presenza in un Paese è segnale del deterioramento delle condizioni di lavoro, in particolare dei contratti precari.

Negli Stati Uniti questa figura è studiata da più tempo. Già negli anni Settanta essa si lega ai processi di de-regolarizzazione dei mercati del lavoro e alla crescita della flessibilità delle forme contrattuali. Infatti, come evidenziano le statistiche negli Usa a partire dal 2007 questa categoria è significativamente aumentata: dai 7,5 ai 10 milioni e 600 mila del 2012, si tratta del 7,1% degli occupati.

Anche in Europa (e in Italia) l’avvento del fenomeno è attribuito all’introduzione delle riforme del mercato del lavoro avviate negli anni ’90 che hanno introdotto una sorta di mercato duale: «Questo mercato produce forti asimmetrie nelle carriere, poiché tutti i rischi sono concentrati su alcune categorie meno protette, mentre il legame tra stipendi e produttività rimane debole» (Di Bartolomeo A, Di Bartolomeo G, Pedaci M. 2011). Per comprendere la consistenza di questo “secondo mercato”, la proporzione dei lavoratori poveri nel 2012 in Italia era pari al 12,4% e la media europea si aggirava intorno al 17%.

Un’analisi del Cnel focalizzata sui working poor, presentata di recente, segnala le conseguenze della crisi che hanno deteriorato le retribuzioni medie. Ma gli effetti più gravi si sono registrati in relazione quelle più basse: tra il 2007 e il 2010 i lavoratori hanno sperimentato una riduzione del 10% del loro salario con forti conseguenze sullo stile di vita e di consumo.  

Alcuni ricercatori hanno sottovalutato il fenomeno ritenendolo circoscritto a fasi transitorie della vita lavorativa o confinandolo dentro l’equilibrio familiare tra lavoratore forte (generalmente maschio) e lavoratore debole, che integra il reddito (generalmente femmina). Eppure l’analisi delle dinamiche lavorative processi mette in luce che il progressivo aumento dei lavoratori poveri, che si è accentuato durante la crisi economica, proviene da processi di lungo periodo. Tra questi processi citiamo: l’inizio di una fase storica di capitalismo globalizzato, il passaggio a una cultura organizzativa post-fordista; la crescita delle economie dei paesi emergenti dove le condizioni lavorative sono qualitativamente molto inferiori a quelle dei paesi ad antica industrializzazione; l’avvento di innovazioni tecnologiche che non eliminano – come invece era stato previsto – lavori a bassa qualifica e basse retribuzioni.

Certo è che questo significativo aumento di working poor pone una questione cruciale alle politiche sociali: nel mondo occidentale per evitare il rischio della povertà oggi non è sufficiente un lavoro pur che sia.

Due prospettive di analisi
L’indagine del fenomeno presenta una certa complessità, perché si concentra su un binomio, lavoro e povertà, che combina due prospettive differenti (e, fino a pochi anni fa, divergenti). L’osservazione del mercato del lavoro tradizionalmente ne assume una individuale, e quella della povertà ne assume una familiare. Come ha evidenziato Antonella Meo (2012) gli studi che seguono la prospettiva della povertà mostrano il legame tra lavoratore a basso salario, condizioni di vita familiare e sistema di welfare esistente: da questo filone emerge che le persone più a rischio appartengono a nuclei monoreddito e/o a famiglie monogenitoriali. Gli studi che seguono la prospettiva lavoristica privilegiano invece l’analisi della disuguaglianza economica e occupazionale, che si rilevano attraverso le differenze di retribuzione, le forme contrattuali, le condizioni di lavoro e di tutela: questo filone segnala la crescita delle disuguaglianze, soprattutto nelle società occidentali, e l’apertura nel mercato del lavoro ai processi di deregolamentazione e flessibilizzazione. Le fasce di popolazione più coinvolte risultano essere i giovani e gli immigrati, tra le categorie più colpite si trovano i lavoratori manuali.


Come si misura
L’ultimo rapporto del Cnel sul mercato del lavoro ha indagato sotto entrambe le prospettive il fenomeno e mostra la differenza degli indicatori che deriva dalle due misure. Questo ci consente così di valutare il grado di indipendenza economica all’interno dei nuclei familiari, oltre che di individuare alcuni fattori di rischio povertà.

Nella prospettiva lavoristica si parla propriamente di working poor; si prendono come unità di analisi i lavoratori a basso salario; in base ai livelli di retribuzione si individuano i soggetti che ne hanno conseguita una inferiore ai 2/3 della mediana della distribuzione dei salari orari; a partire da questa scelta tanto maggiore è la dispersione dei salari, quanto più alta sarà la quota di working poor.

Nella prospettiva che guarda alla famiglia gli studi parlano più specificatamente di in work poverty; la misura considera gli individui con i loro nuclei familiari, nei quali uno o più componenti possono lavorare e il cui reddito risulti inferiore al 60% del reddito mediano equivalente disponibile; a partire da questa scelta, tanto minore sarà l’intensità occupazionale familiare (quante persone e quanto lavorano), quanto più probabilmente ci saranno lavoratori in povertà; in questo caso il rischio povertà sarà minimo quando il lavoratore a basso salario è il secondo percettore di reddito, mentre nel caso in cui vi sia un unico percettore di reddito o la presenza di più figli minori la probabilità aumenta.

I fattori di rischio emersi dal rapporto del Cnel sono la scarsa qualificazione e l’occupazione in specifici settori produttivi (come l’edilizia oppure alcuni comparti dei servizi alloggio e ristorazione ad esempio). Un’altra analisi realizzata da Vincenzo Carrieri nel 2012 evidenzia come i fattori di rischio che incidono sui lavoratori poveri non siano controllabili dall’individuo, anche se in alcuni casi sono modificabili (es. il livello di istruzione, le condizioni contrattuali, le ore lavorate) in altri no (es. l’età, l’etnia, il genere).

L’identikit del working poor
In una ricerca del 2011 (Bartolomeo A., Di Bartolomeo G. e Pedaci M.) si scrive che in Italia «i lavoratori poveri sono quelli che svolgono lavori razionalizzati, vincolati da fattori tecnico-organizzativi, a qualificazione medio bassa e ad alta intensità di lavoro, con rapporti di impiego non-standard nelle piccole medie imprese. Importanti fattori discriminanti sono legati al genere, alla classe d’età, al livello di istruzione e alla ripartizione geografica: il lavoratore povero è più probabilmente donna, giovane (15-34 anni), con un basso titolo di studi e vive nelle regioni centro meridionali». Altre ricerche realizzate negli USA evidenziano alcune fragilità da tenere sotto osservazione e sulle quali sarebbe opportuno intervenire: il momento di inserimento lavorativo, dove accettare un lavoro poco qualificato e a basso salario può diventare una trappola; il lavoro delle donne single con figli, che è scarsamente remunerato e incide anche sulle future generazioni.


Il pensiero delle Acli

In molti documenti appare come punto essenziale – per superare la questione dei lavoratori poveri – l’introduzione di ammortizzatori sociali capaci di sopperire alla mancanza di reddito durante i periodi di disoccupazione o inoccupazione e di integrazione, quando il salario percepito è troppo basso per mantenere il lavoratore e/o la sua famiglia sopra i livelli di deprivazione materiale. Un altro punto essenziale è la creazione di “buona occupazione”, perché è necessario operare per un lavoro dignitoso. A questo proposito le Acli, che da molti anni si occupano del tema delle misure di sostegno ai lavoratori poveri, hanno lanciato recentemente Il patto aperto contro la povertà per un reddito di inclusione sociale e la Campagna “La forza (del) lavoro. Per sconfiggere povertà e disuguaglianze”.

Bibiliografia
Carrieri V., I working poor in Italia: quanti sono, chi sono, quanto sono poveri, in Rivista delle politiche sociali, 2, 2012, pp. 71-96.
CNEL, Atti convegno sui working poor, Roma 1 luglio 2014.
Di Bartolomeo A, Di Bartolomeo G, Pedaci M., Chi sono i lavoratori poveri?, in Economia Marche Journal of appliedeconomics, dicembre 2011.
Lucifora C., McKnight a., Salvereda W., Low-wage employment in Europe: a reviwew of evidence, the Oxford Handbook of income inequality, Oxford Economic press, Oxford, 2005.
Meo A., "I working poor. Una rassegna degli studi sociologici" in "La Rivista delle politiche sociali", Ediesse Roma n.2/2012, pp.219-242.
Cnel, Rapporto sul Mercato del Lavoro 2012-2013, ottobre 2013.
Luigi Anversa, I working poor e le politiche del lavoro in Europa. Un’analisi comparativa dei sistemi di welfare europei, Paper for the Espanet Conferenc, Milano 2011.
Marco Centra, Maurizio Curtarelli, Valentina Gualtieri, La qualità del lavoro dei workingpoor: evidenza empirica e (possibili) ambiti di intervento,Paper for the Espanet Conferenc, Milano 2011.
Hans-JurgenAndress, Henning Lohmann, The Working Poor in Europe. Employment, Poverty and Globalization, 2008.
La Rivista delle Politiche sociali, I lavoratori poveri. Caratteristiche, politiche, riflessi previdenziali, Ediesse Roma, n.2/2012

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