Raramente mi è capitato di uscire dal cinema più irritato di quando, qualche giorno fa, mi è capitato di assistere alla proiezione del film sulla vita di Giacomo Leopardi….

Raramente mi è capitato di uscire dal cinema più irritato di quando, qualche giorno fa, mi è capitato di assistere alla proiezione del film sulla vita di Giacomo Leopardi, ‘Il giovane favoloso’ appunto. Se ve ne parlo in questo intervento non è certo perché voglia propormi come critico cinematografico ma in quanto credo che esternare i motivi della mia irritazione possano indicare un aspetto piuttosto deleterio e (ahimè) molto diffuso della cultura dominante del nostro tempo.

Il regista evidentemente ama il suo soggetto, insomma ama il pensiero e le opere di Giacomo Leopardi, questo è evidente dal titolo (nella lingua italiana l’appellativo favoloso si associa alle cose belle e buone), dalle sue interviste, dal fatto che in teatro abbia curato una (bella) edizione delle Operette Morali e anche dalla cura con cui sono girate le scene del film.

Ma allora, dico io (e spero molti di voi lettori che avete visto il film), perché ci presenta Giacomo come un completo mentecatto?

Si inizia con Giacomo che da adolescente si deve far aiutare dal padre a tagliare la carne e addirittura ad orinare, si continua con la sua assoluta incapacità di mettere insieme un discorso con più di due frasi messe in fila se non per apostrofare in maniera sprezzante i suoi interlocutori, con il suo essere una persona noiosissima e invadente (le mie figlie direbbero ‘che si accolla’).

La ‘denigrazione’ del poeta raggiunge dei vertici imbarazzanti nella seconda parte del film quando il devoto amico Ranieri (inquietante l’accostamento di un Giacomo sempre più curvo e deforme con questa controfigura di Sandokan più giovane e magra) tenta di fargli assaporare per la prima volta il ‘gusto di donna’ portandolo in un improbabile bordello catacombale da ‘Fellini dei poveri’ dove (in omaggio ai temi del momento) addirittura trova un transessuale. E’ inutile dire che il generoso (?) tentativo finisce in un fiasco con il poeta che fugge inorridito (e qui però non si può che dargli ragione visto l’aspetto assai poco invitante del luogo).

Basso continuo del film un Leopardi con gli occhi di fuori e sorrisino sarcastico.
Ma se il regista Michele Martone ama Leopardi e ce lo vuole presentare (con largo seguito di professoresse del liceo e addirittura delle medie che spingono gli studenti ad andare a vedere il film ‘per comprendere finalmente il sommo poeta’) come esempio per i giovani o comunque come figura emblematica, perché lo disegna in maniera così repellente?

A mio sentire (e da qui l’irritazione) si tratta di una degenerazione che è iniziata proprio nel romanticismo ma che è percolata nella cultura popolare negli anni 70 del secolo scorso e ora continua il suo corso. Da che mondo è mondo lo schema di base delle narrazioni (fossero favole popolari, romanzi, opere teatrali, film poco importa) era quello di un personaggio normale con cui il lettore potesse facilmente immedesimarsi che, a causa di eventi straordinari, si trova catapultato in un mondo impazzito dove se la deve vedere con ogni sorta di pericoli.

La sua sorte rimane in bilico fino all’ultimo (avete presente quei film di azione dove avviene sempre che il buono, una decina di minuti prima della fine sembra ormai alla completa mercè del cattivo?), poi uno scatto finale, un evento provvidenziale, e l’eroe si salva. La situazione torna insomma alla normalità, dopo una breve parentesi il mondo dell’eroe ritorna accogliente, e il protagonista acquisisce una nuova consapevolezza, passare attraverso l’ansia, il dolore, la paura, le prove gli fornisce fiducia ed equilibrio.

Questo schema naturale, corrispondente alla normale crescita dell’uomo, alle prove di maturità esistenti anche nelle culture primitive, è stato esaltato e reso massimamente consapevole dal Cristianesimo: è l’itinerario di salvezza dell’uomo che viene trovato dal Dio vivente nel mezzo del peccato (il cattivo che sta per avere la meglio a dieci minuti dalla fine) e da lì salvato con il completo e libero assenso e partecipazione dell’uomo stesso. Insomma leggetevi Pinocchio (che non a caso è il libro più tradotto dopo la Bibbia) e capirete esattamente di cosa sto parlando.

Nell’Ottocento inizia a farsi strada una contro-narrazione: non è il mondo che (temporaneamente) impazzisce ma è il protagonista che trova delle difficoltà insormontabili ad avere a che fare con la vita di tutti i giorni. Dal giovane Werther e Jacopo Ortis, fino alla ‘Solitudine dei numeri primi’, l’eroe moderno è un disadattato che solo si rende conto della mostruosità del mondo in mezzo a una società di beoti. La sua avventura non consiste nel vedersela con dei draghi minacciosi e sconfiggerli ma con la madre che gli prepara una colazione troppo pesante o con la fidanzata che gli domanda come mai sta zitto da un’ora a guardarsi la punta delle scarpe.

L’eroe del nostro tempo è insomma un mentecatto e ci si domanda come mai il lettore dovrebbe immedesimarsi con lui e soprattutto come faccia a sentirsi sollevato dopo la lettura (o la visione del film). La butto lì: la narrazione tradizionale (miracolosamente salva in prodotti ‘bassi’ come fumetti, cartoni animati, filmacci) ci spinge a uscire lì fuori con buone speranze di successo, la narrazione ‘moderna’ ci fa rinchiudere in noi stessi, al calduccio di una nostra superiorità morale confermata dal fatto che i beoti lì fuori ‘non ci capiscono’. La narrazione moderna è insomma perfetta per un mondo totalitario (stattene chiuso davanti al tuo PC che a decidere ci pensano le elite) e fatalmente vecchio, mentre la narrazione tradizionale ci sollecita all’azione e al cambiamento, ‘Rinnova come aquila la mia giovinezza’.

Capite poi perché mi irrito…Comunque tranquilli che poi mi consolo, grazie soprattutto alla provvidenziale impermeabilità dello spirito della mia Roma a queste perversioni. Mi sovviene a proposito uno spiazzante consiglio, proveniente dal profondo del cuore, di una mia compagna di scuola al liceo ‘Caro Sandro, damme retta, a te nun te mancherebbe gnente pe rimorchià le donne, solo che dovresti ride molto, ma molto, meno…’. Cara Dora, dovunque tu sia, grazie per avermi ricordato tanti anni fa come smontare con le sue stesse armi il perverso ‘fascino del disadattamento’: alla fin fine si tratta di un mezzo ‘pe rimorchià’…santo cinismo!

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