“Le masse ideologizzate non credono nella realtà del mondo visibile, della propria esperienza; non si fidano dei loro occhi e orecchi, ma soltanto della loro immaginazione, che può essere colpita da ciò che è apparentemente universale e in sé coerente” (Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, 1951)

Le masse ideologizzate non credono nella realtà del mondo visibile, della propria esperienza; non si fidano dei loro occhi e orecchi, ma soltanto della loro immaginazione, che può essere colpita da ciò che è apparentemente universale e in sé coerente”.

Così scriveva Hannah Arendt nel suo bellissimo libro Le origini del totalitarismo riferendosi alla Germania nazista, ma sembra una frase scritta oggi dove l’immaginazione è sollecitata dal bombardamento dei media attraverso un continuo rimando alle emozioni primarie unito al rifiuto di ogni barlume di ragione. E indizi pesanti di totalitarismo che, come prevedeva Hanna Arendt ha in gran dispetto la realtà, si notano nel pauroso ribaltamento per cui Berkeley, la culla del ‘Free Speech’ negli anni sessanta, diventa la sede di una paurosa caccia alle streghe (http://lanuovabq.it/it/assassino-trans-e-studentessa-cristiana-due-pesi-due-misure) con a capo proprio gli studenti, e da mille altri esempi di dittatura del pensiero che ha spesso anche conseguenze legislative.

In meglio rispetto all’epoca a cui si riferisce la Harendt c’è la assenza (per ora almeno) di forme rilevanti di violenza armata, in peggio l’assottigliamento numerico delle due categorie tradizionalmente aliene alla ideologizzazione: un popolo ancora immerso nella cultura tradizionale e una classe intellettuale che coltivi il pensiero critico. Per quel che riguarda questa seconda categoria è triste notare come le cosiddette ‘scienze umane’ siano anzi proprio il luogo dove si coltiva il risentimento verso l’indagine del reale che viene sostituito da un’etica disincarnata fondata su idee astratte e posizioni di principio.

Per uscire dall’incubo abbiamo bisogno di guardare altrove, dove ancora resistono solide fortezze in cui si coltiva il rapporto amoroso con la realtà: le scienze della natura. Non che la scienza, in quanto istituzione e quanto mai potente instrumentum regni non sia pesantemente inquinata dal pensiero tendenzioso (le direttrici principali di investimento verso ricerche del tutto speciose e con valenza quasi esclusivamente ideologica come i Big Data, la medicina di precisione, la cosiddetta Intelligenza Artificiale ne sono esempio lampante) ma i singoli scienziati, quelli che fanno bene il loro lavoro, e le vere frontiere della ricerca di base sono (e saranno sempre per loro natura) largamente immuni dalla presa dell’ideologia e continueranno a basarsi sulle ‘sensate esperienze’.

Non a caso la deriva ideologica delle scienze umane è iniziata quando i ‘maestri del pensiero’ hanno perso i contatti con le scienze naturali focalizzandosi su morale e politica e abbandonando gli scienziati a cattive filosofie. Ma qualcosa sta cambiando e proprio in quel settore della scienza che, trattando di temi più generali e quindi più vicini alla speculazione epistemologica, è più promettente per ritessere la trama della filosofia della natura e far rifiorire un nuovo umanesimo che riallacci il rapporto con la realtà.

Possiamo far iniziare la storia (ma è solo il debutto in società di trame già presenti) dall’articolo del premio Nobel per la fisica Robert Laughlin e dei suoi colleghi, apparso nel 2000 sui Proceedings dell’Accademia Americana delle Scienze dal titolo The Middle Way. In poche parole il tema è: la frontiera delle scienze non abita più nella ricerca del livello fondamentale della realtà da comprendere per poi ‘risalire in superficie’ con una serie di catene deduttive. Quella è la vecchia strada che, se fino alla meccanica quantistica della prima metà del Novecento, ci ha fornito illuminanti sprazzi conoscitivi e grandi ricadute tecnologiche, ora ha esaurito la sua forza propulsiva e il suo legame con il reale diventando palestra di sterili quanto penosissimi sforzi matematici che producono teorie impossibili da provare sperimentalmente. La nuova frontiera è nel mondo mesoscopico, in tutto ciò che è più grande di un atomo e più piccolo di una stella e lì le leggi fisiche hanno la forma di ‘Principi di Organizzazione’. In altre parole possiamo dire che l’unità e la coerenza del mondo non vanno fondate sul fatto che ‘tutto è costruito con lo stesso materiale di base’ ma che ‘tutto è costruito da una rete di parti tra loro interconnesse’.

Passare dal primo al secondo punto di vista apre alla conoscenza scientifica il mondo umanissimo e inesplorato delle proprietà emergenti. Esiste il traffico? Per me che vivo a Roma la domanda è quasi offensiva, certo che esiste! Ma esiste la sua unità fondamentale da investigare per capire da dove nasce? Certamente no, non esiste il traffico di una sola automobile e men che meno nel motore si riesce a trovare un apparato che lo provoca; il traffico emerge a partire dalla interazione fra un valore di soglia di flusso automobilistico, l’ampiezza delle strade, la loro topologia sul territorio e la probabilità variabile di eventi contingenti come incidenti e acquazzoni improvvisi. Il traffico si prevede molto meglio considerando le densità relative e la disposizione reciproca di luoghi di lavoro e di residenza che la meccanica delle autovetture. I principi organizzativi dei sistemi sono largamente indipendenti dalla loro realizzazione fisica, per cui una rete di aminoacidi connessi a formare la struttura tridimensionale di una proteina avrà gli stessi principi di organizzazione (e conseguentemente le stesse proprietà emergenti di stabilità, resistenza, flusso interno di informazione) di una rete elettrica o di una rete sociale di amici, posto che il loro cablaggio (chi è connesso con chi) sia simile.

Questa ‘scelta di campo’ se da una parte ci rende umili, costringendo (giustamente) lo scienziato alla descrizione e previsione dei fenomeni tralasciando le ‘cause ultime’ (materia per i mistici), dall’altra permette di generare una ‘Sapienza’ che può essere alla base di una ritrovata saggezza del mondo, di rifondare una nuova cultura umanistica.

Una ultima suggestione: dallo studio delle reti sappiamo che un sistema uniformemente connesso, dove cioè non esistono ‘moduli parzialmente autonomi’ caratterizzati da un certo isolamento e una non totale sincronicità con il resto della rete va incontro a catastrofi improvvise, laddove un sistema modulare ‘degrada dolcemente’. Il pensiero corre alle smanie globaliste di annichilire le specificità culturali dei popoli, ai sistemi economici troppo integrati, alla insofferenza verso il dissenso organizzato, alla occupazione totale del tempo di vita….

E’ il re-innamoramento con la realtà il dono che la scienza può fare a tutti noi, ma bisogna fare presto.

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