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Proponamo un’intervista a Lucio Turra, Presidente IPAB di Vicenza (Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficienza) e Amministratore nazionale dell’Azione Cattolica Italiana

Prima di addentrarmi nelle questioni che sono alla base di una riflessione sull’anziano e la sua vita, vorrei illustrare lo schema sotto riportato. Questo schema, per quanto sintetico e forse per qualcuno scontato, fornisce un quadro attento e funzionale ai bisogni dell’anziano nell’attuale contesto sociale.

Presento questo schema che è frutto del lavoro che stiamo conducendo come Ipab di Vicenza in un progetto europeo Interreg Italia/Austria che vede come partner l’UMIT, Università di Hall in Tirol, AULSS n. 3 di Gemona del Friuli insieme a UTI (l’Associazione dei Comuni dell’area friulana) e Ipab di Vicenza (di cui sono presidente pro-tempore).

La particolarità di questo schema, che è frutto di alcune riflessioni comuni con i partner del progetto, ha la particolarità di indicare il contesto nel quale si volge l’attività di Care Management, ovvero la programmazione dell’assistenza rivolta agli anziani, e di Case Management, ovvero la programmazione di un servizio di assistenza personalizzato al singolo anziano. La struttura dello schema ci invita a considerare due prospettive di analisi e di riflessione.

Una lettura guardando in senso verticale lo schema sostanzialmente ci stimola a tener conto del fatto che l’anziano deve essere riconosciuto nel contesto della comunità dove vive sin da quando gode di buona salute. E’ evidente che le problematiche connesse al suo stato di salute devono trovare un puntuale accompagnamento a seconda dei bisogni espressi e delle necessità socio-sanitarie.

Una lettura in senso orizzontale dello schema ci fa capire i vari livelli dei bisogni dell’anziano. Un primo livello è legato alla cura del benessere della persona. Ci riferiamo a tutte quelle attività che riguardano l’invecchiamento attivo, cioè quando l’anziano gode di una buona autonomia e protagonismo.

Il secondo ambito riguarda il livello di sostegno dell’anziano per limitate necessità e bisogni della vita quotidiana. L’auto aiuto ha una grande rilevanza se pensiamo al sostegno dell’anziano verso l’anziano.

Il terzo e quarto livello possiamo classificarli come inerenti al servizio di domiciliarità che può essere soft o più qualificato a seconda delle patologie cliniche della persona anziana.

Il quinto livello riguarda l’assistenza legata a forme temporanee di accoglienza o centri diurni, o forme di co-housing, che mirano a dare una assistenza importante all’anziano che ha patologie cliniche particolarmente delicate. L’ultimo livello è prettamente legato alla assistenza all’interno di un Centro Servizi o Casa di Riposo, luogo dedicato ad una assistenza socio-sanitaria per le cronicità dell’anziano più problematiche.

E’ chiaro che se da un lato l’anziano va accompagnato nelle varie fasi della sua vita, nel medesimo tempo le aree e i livelli indicati nello schema richiedono una qualificata assistenza e una formazione puntuale ed attenta di tutti gli operatori interessati.

Fatta questa necessaria premessa, possiamo ora affrontare i temi posti dalle domande.

 

Perché l’anziano viene percepito come un peso, un costo, uno “scarto” piuttosto che come una risorsa preziosa per la società?

Occorre, a mio giudizio, fare una riflessione più ampia prima di affrontare la situazione dell’anziano nella nostra società. Credo che le ragioni di fondo indicate nella cosiddetta cultura dello “scarto”, di cui è impregnata la nostra società, siano da ricercare nel modello culturale nel quale siamo immersi. Un modello individualista, spesso egoista, dove viene solo privilegiata la concorrenza, come strumento regolatore anche dei bisogni umani più importanti. Papa Benedetto XVI l’ha ben delineata nel cosiddetto soggettivismo esasperato. Il vero nodo quindi è legato alla cultura del nostro tempo, infarcita di molta autoreferenzialità e della logica di bastare a sé stessi, e del non tener conto della persona che ci sta accanto. La vera questione di fondo quindi si traduce in un distacco dal senso e dal valore di essere comunità, di vivere relazioni vive con spirito di solidarietà e di vicinanza.

In questo contesto si inserisce anche la vita dell’anziano. L’anziano è un peso perché abbiamo tradotto la vita solo in termini consumistici ed efficientisti. Mancando legami solidi l’anziano è un soggetto debole per definizione, non è più produttivo e non è più funzionale ai bisogni di una società competitiva. Al massimo è funzionale se ha disponibilità finanziarie e se riempie gli spazi ai bisogni della società. Penso in questo senso al prezioso sostegno dei nonni.

 

Quali stereotipi sociali e culturali ostacolano il diffondersi di una cultura che torni a valorizzare il ruolo delle persone anziane, oggi così rilevanti in termini di “peso” demografico?  Quali risorse può mettere in campo la popolazione anziana sul piano della cura dei minori, dell’educazione, della formazione e del lavoro? Su quali altri ambiti è possibile valorizzare gli anziani? Quali politiche di active aging mettere in campo in ambito europeo e italiano?

Personalmente credo che l’anziano debba acquisire un proprio protagonismo. Certo la cultura, i valori, le attenzioni all’anziano vanno commisurate alla situazione della sua vita personale. E’ evidente che un conto è che si consideri la fascia di anziani più o meno giovani che sono autonomi e stanno bene. Un conto è riferirsi agli anziani che non sono autosufficienti e sono fragili.

Nel primo caso, la legislazione che riguarda l’invecchiamento attivo rappresenta un punto di riferimento importante perché prevede forme ed incentivi per rendere davvero protagonisti gli anziani affinché mantengano un buon stato di salute e di benessere, attraverso una serie di attività che li rendano persone dinamiche ed attive. Non si tratta di una semplice esortazione a vivere bene. Se l’anziano sta bene ed è dinamico può essere un valido aiuto alla società stessa, con non pochi risparmi sui costi sociali e sanitari.

Dall’altro però ritengo abbastanza doveroso per un anziano rendersi utile per la società da tanti punti di vista ma, in particolare, con la caratteristica di essere e sentirsi un vero e proprio volontario per la società, per la comunità dove vive. Da questo punto di vista il passaggio culturale per gli anziani è molto importante. Gli anziani vanno “educati” a mettere in campo tutti i loro talenti e le loro capacità a servizio della collettività. La loro vita non può solo fermarsi a godere dei propri interessi personali. Esiste un principio di restituzione che deve essere capito dagli anziani stessi e favorito dalla stessa società e dalla legislazione.

La questione certamente più semplice è quella di vedere gli anziani che sostengono i figli e i loro nipoti. E fin qui mi pare la prima importante risposta ai bisogni. Ma questo non è sufficiente. Sul tema del lavoro ritengo che alcune politiche attive dovrebbe prevedere nei posti di lavoro la progressiva riduzione di orario per riempirlo che ore dedicate alla formazione delle giovani generazioni da parte degli adulti prossimi alla pensione. E questo in qualsiasi ambito della vita professionale. In alcuni paesi europei questa scelta del passaggio di consegne viene attuata e strutturata Da noi invece esiste un grave problema: il precariato. Non è certo in questo modo che avvengono i passaggi generazionali.

Riguardo invece gli anziani non autosufficienti, credo che una società attenta ai bisogni delle persone fragili, debba fare in modo che queste persone vengano valorizzate. In questo caso dovrebbero essere le giovani generazioni a mettersi a disposizione. Tutte le strutture di assistenza dovrebbero essere aperte a favorire questo scambio: per i giovani valorizzando forme di volontariato; per gli anziani favorendo i loro racconti e le loro storie.

La mia esperienza all’interno di una delle Istituzioni più importanti della mia Regione per l’assistenza socio-sanitaria, l’Ipab di Vicenza, è che se si valorizza la narrazione e l’autobiografica, lo scambio concreto con i giovani o con i volontari giustificano concretamente una comune crescita. Quanta educazione può passare attraverso il raccontare la vita di anziano ad un giovane? Quanti valori si possono trasmettere tra generazioni?

 

Siamo alle prese con un incontro/scontro di tempi tra le generazioni, che crea distanza e contrasto; ma anche dentro un incontro tra le generazioni fondato sulla diversità. Come costruire nuovi legami intergenerazionali capaci di valorizzare la dimensione psicologica, culturale, antropologica e pedagogica di queste relazioni? E’ possibile sviluppare relazioni fatte di consegne e cura reciproca? Quale ruolo possono svolgere le realtà della società civile?

Non sono convinto che ci sia in atto uno scontro tra generazioni. Come ho già avuto modo di dire la questione attiene alle forme di egoismo e di competizione che questa società ha o sta generando. La responsabilità è di tutti e di ciascuno. Bisogna prenderne coscienza di questo perché è una questione di fondo che supera ogni altra considerazione.

Ogni società sana, ogni comunità che sa di essere comunità di persone, deve prendersi cura delle persone chiunque esse siano, tanto più se sono persone debole e fragili. Gli anziani sono persone, a prescindere dall’età e dalle condizioni di vita, di cui prendersi cura.

Ho scoperto qualche tempo fa, ascoltando una lezione sugli ospedali del ‘400, una importante verità che dovrebbe diventare il paradigma dell’attenzione alla persona in una comunità. La traduco in parole comprensibili alla nostra attualità: “Il benessere delle persone fragili, è il benessere della comunità”. Nel quattrocento pensavano a questo. Sembra una ovvietà ma non è per nulla scontato attuare questo sano principio di attenzione al prossimo, alle persone bisognose di aiuto e sostegno, tanto più se sono persone anziane.

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