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Gli effetti della crisi economica si stanno ormai ripercuotendo sui comportamenti delle persone in modo evidente anche se complesso da valutare. Sul fronte dei consumi, ad esempio, si è registrato un rapido effetto di contrazione, che ha coinvolto non solo le persone con disponibilità limitata di risorse economiche, ma anche gli appartenenti ai ceti sociali centrali e meno svantaggiati delle società avanzate, inducendoli a scelte di maggiore sobrietà.

La società dei consumi ha dunque subito un’apparente battuta d’arresto a causa delle difficoltà di reddito delle famiglie dovute alla crescita della disoccupazione, alla diffusione delle forme di cassa integrazione, ai problemi di giovani e donne sul fronte dell’impiego e, più in generale, alla sfiducia nel futuro prossimo.
Forse per questo stiamo assistendo all’ennesima riorganizzazione della società dei consumi e delle tecniche di marketing, allo scopo di escogitare strategie utili a riguadagnare il terreno perduto. Uno degli strumenti più innovativi utilizzati è il negozio temporaneo. I temporary store (o shop) sono negozi aperti per un tempo limitato, che prendono vita nelle strade delle nostre città per poi sparire, di solito accompagnati da iniziative di comunicazione non usuali o di tipo classico. Sono, in un certo senso, negozi con la data di scadenza, che offrono prodotti specifici.
La tendenza dei temporary store è nata in Inghilterra, dove fu aperto il primo negozio di questo genere nel 2003; seguirono poi New York, Berlino, Parigi. Ora, anche a causa della crisi, si stanno diffondendo pure nel nostro Paese, e specialmente a Milano, che offre una quantità di luoghi in cui possono essere (temporaneamente) impiantati. I numeri assumono valori significativi: in Italia, dove è comparso nel 2007, il fenomeno coinvolge ormai numerosi e noti brand, più del 12% dei lanci di prodotto avviene già attraverso i negozi temporanei; nel solo capoluogo lombardo circa 200 aziende ogni anno organizzano un negozio temporaneo. Negli Stati Uniti restano aperti solo poche settimane, in Italia in media circa tre mesi.
Solitamente vengono aperti in luoghi particolarmente rappresentativi della città e in posizione strategica, oppure in periodi specifici dell’anno. Propongono spesso collezioni e prodotti nuovi, che vengono per l’appunto lanciati, e per le aziende rappresentano un canale di comunicazione e di marketing per valorizzare il marchio e aumentarne la notorietà, riuscendo al contempo a testare il mercato e a realizzare guadagni diretti dalle vendite senza accollarsi le spese di un vero negozio (in termini di affitto e di personale): un sistema nuovo per ottimizzare i costi.
Il fascino esercitato dai temporary store risiede nel risparmio che garantisce, ma anche nella sensazione che induce di prendere parte ad un avvenimento irripetibile. Attraverso la pressione esercitata sui potenziali clienti dall’evento (speciale e unico), al quale non si può mancare se non si vuole “rischiare” di perdere l’offerta limitata di prodotti (straordinarietà peraltro negata dalla crescente serialità di questi eventi), i negozi temporanei rappresentano un forte stimolo al consumo, una soluzione distributiva efficiente in tempi di crisi, in cui si tenderebbe piuttosto a non acquistare. Cercando di giocare sull’effetto sorpresa e sulla curiosità, creando un’atmosfera ospitale e avvolgente, i negozi a tempo tentano di vincere la propensione alla sobrietà e di intercettare atteggiamenti di consumo sfruttando nuove e sofisticate arti di persuasione.
Ma l’aspetto ancor più rilevante è che i negozi temporanei trascurano e manomettono completamente il capitale delle relazioni presente anche in ogni scambio di natura economica e commerciale. Si altera il rapporto di fiducia tra negoziante e clientela e si assume al massimo grado la spersonalizzazione dei centri commerciali. Da questo punto di vista i temporary store esprimono la tendenza a liquidare relazioni, anziché alimentarle, svendendo il legame, la fiducia, il rapporto nel tempo, la continuità nell’impegno, il riferimento nel tessuto urbano, l’assunzione di responsabilità che ogni attività pubblica implica.
Non occorre essere nostalgici del passato per cogliere la portata di sradicamento che questo fenomeno comporta. Resta da verificare se si tratta di una reazione momentanea della società dei consumi o di una tendenza che si va affermando, portando a livello diffuso lo straniamento delle già note cattedrali del consumo. Se sia la risposta alla crisi economica è una domanda interessante, dal momento che essa ha in consumi eccessivi e fuori controllo una causa importante. Non è però la risposta alla crisi sociale. E poi è il mercato che si adatta al mutamento sociale o piuttosto lo determina e lo orienta? Siamo davvero di fronte ad un cambiamento in ambito economico?
Certamente la formula di cui i negozi temporanei sono espressione punta ad un consumo non connesso ad altro, che si esaurisce nel qui e ora. Ma anche nel consumo si realizza un intreccio di legami, piani, dimensioni, come hanno dimostrato le numerose esperienze di consumo critico, che ricercano relazioni e benessere in ogni singola azione: è anche grazie alle relazioni, infatti, che si matura il senso pieno di cosa e quanto acquistare. Per queste realtà il consumo rappresenta una risposta collettiva per promuovere il bene comune, reagendo alla corruzione politica, al disordine economico, al degrado ambientale. La domanda di biologico, di filiera corta, di sostenibilità, di trasparenza posta dalle tante iniziative di consumo responsabile dove si colloca in tutto questo? E che fine fanno la tutela della terra e del territorio, la comunità, i diritti di tutti, la partecipazione e la rappresentanza? In una società come quella odierna non c’è ormai più alcun dubbio che simili istanze passino anche attraverso il consumo… Ma i temporary store non lo sanno.
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