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Un esito inedito e forse imprevisto della crisi economico-finanziaria nella quale ci dibattiamo negli ultimi mesi è la crescita di iniziative alternative relative ai consumi. Le più limitate risorse a disposizione per le pur necessarie spese di cibo e abbigliamento stanno, da un lato, riportando in auge gli acquisti sulle “bancarelle” improvvisate lungo le strade oppure più o meno stabili nei mercati rionali, dall’altro stanno favorendo il diffondersi di attività di vendita e di acquisto che vanno al di là della catena di distribuzione ordinaria.

Un’esperienza che sta facendo strada è quella del “Farmer’s market” o “mercato del contadino”: si tratta di un mercato dove si possono acquistare prodotti alimentari direttamente dai coltivatori che li producono. Abitualmente vi si possono trovare in vendita frutta e verdura di stagione, salumi, formaggi, miele, legumi, cereali, olio extra-vergine, latte crudo alla spina, vino. In genere vi si recano gli imprenditori agricoli delle campagne intorno alle città che ospitano i mercati e che, quindi, di solito propongono prodotti locali e di stagione. Ma talvolta nei farmer’s market si trovano anche prodotti provenienti da altri percorsi, come quelli nati all’interno delle carceri, laddove il lavoro agricolo è impiegato come strumento nel processo di rieducazione e reinserimento dei detenuti.rn

Tale modalità di vendita consente un rapporto diretto tra produttore e consumatore, accorciando la filiera e migliorando la tracciabilità del prodotto perché il consumatore sa con certezza da chi acquista. Non in ultimo queste iniziative restituiscono dignità e visibilità ad un mestiere, quello del contadino, il quale, benché all’origine di qualunque altro, è stato nel tempo marginalizzato e socialmente svalutato.

Queste esperienze, diffusesi in tutta Italia, da Taranto a Roma, da Caltanissetta a Venezia, vanno assumendo sempre più il carattere di appuntamenti fissi. Secondo alcune stime le caratteristiche di questo tipo di vendita abbattono i prezzi anche del 30% in confronto ai prodotti alimentari della Grande Distribuzione che avrebbero, oltretutto, un minor contenuto nutritivo (fino al 50% in meno di vitamine e sali minerali). Per questo motivo, si ritiene da più parti, in una fase di affanno economico come quella presente, son venuti alla ribalta.

Tuttavia, catalogare queste unicamente come iniziative anti-crisi è scorretto o, quanto meno, riduttivo. Si trascura il fatto che nel frattempo c’è stato un cammino di consapevolezza soprattutto fra i consumatori, i quali acquistano questi prodotti non solo perché costano meno (non a caso diversi acquirenti dopo aver frequentato il mercato del contadino lamentano di non aver riscontrato un grande risparmio), ma perché sono qualitativamente migliori, perché rispettano l’ambiente (sono spesso prodotti biologici) e il lavoro di chi li produce; inoltre, provenendo da circuiti locali e legati alla stagionalità sono il frutto di tradizioni e culture popolari radicate nelle comunità e nei territori limitrofi. Per questo è ingeneroso circoscriverle ad un successo (effimero) dovuto al periodo di crisi, e non cogliere che rappresentano piuttosto il segnale di un movimento che tende a rivedere e riformulare il modo di produrre e consumare. Un movimento di lungo corso e a lungo termine in cui, ad esempio, il prodotto a km 0 (che si sta affermando anche nelle proposte della ristorazione), il recupero della stagionalità o la sostenibilità in senso lato sono concetti già elaborati e che occupano da tempo un ampio spazio di riflessione. Un movimento in crescita di cittadini-consumatori ma anche produttori (perché la distinzione va superata), che tentano di coniugare le esigenze del consumo con una prospettiva culturale più ampia ed improntata alla responsabilità, senza dimenticare la qualità dei prodotti. Un movimento di persone che non ignorano come questo settore sia un motore propulsivo e poco conosciuto per l’economia del nostro Paese e che decretano la riuscita di iniziative come la Festa dell’Altra Economia dello scorso settembre; persone comuni che si interrogano e si informano sui destini propri e della collettività anche nell’atto di consumo.

Sono segnali che vanno colti per riorganizzare l’economia intorno a criteri che tengano conto della coesione sociale e della sostenibilità, i quali soli garantiscono un successo reale e duraturo a qualunque modello economico.

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