Il Washington Post nei giorni scorsi titolava, non a caso, tra le sue pagine che, se la corruzione italiana fosse uno stato, sarebbe la 76º economia più grande del mondo, pari a quella della Serbia (60 miliardi di euro), non dimenticando come il valore dell’economia sommersa, pari a 260-280 miliardi di euro, si collochi tra il valore totale del PIL austriaco e quello ucraino.
Al termine dell’ultimo G20, tenutosi in Messico a Los Cabos lo scorso giugno, la dichiarazione congiunta dei leader mondiali al punto 77 recita in questo modo: “La corruzione ostacola la crescita economica, minaccia l’integrità dei mercati, mina la concorrenza leale, distorce l’allocazione delle risorse, distrugge la fiducia pubblica e mina lo stato di diritto. Facciamo appello a tutte le parti interessate affinchè svolgano un ruolo attivo nella lotta contro la corruzione”.
Se a questo aggiungiamo il recente appello del Fondo Monetario Internazionale, che ha ammonito l’Italia rispetto alla fuga di capitali all’estero pari a circa 235 miliardi di euro, è facile capire come siamo in presenza di una vera e propria emorragia economica e finanziaria che dovrebbe fare ancora più notizia del cosiddetto problema dei costi della politica.
Va ricordato che nell’Indice di percezione della corruzione nel settore pubblico (CPI) del 2011 misurato dall’organizzazione internazionale Transparency International, l’Italia si è piazzata al 69° posto, su 182 Paesi, preceduta da Ghana, Slovacchia, Montenegro, Croazia e Sudafrica. Continuando con gli studi internazionali, una ricerca condotta dall’Istituto americano Pew Research Center, durante quest’estate, segnalava come gli italiani fossero percepiti da inglesi, francesi, tedeschi e spagnoli come i più corrotti dell’Unione Europea.
Corruzione, come ci ricordano anche Legambiente e Libera, è una tassa occulta che impoverisce e inquina il paese, che favorisce il riciclaggio dei capitali italiani nei paradisi fiscali. Si stima che siano circa 500 miliardi (il 31,5% del nostro PIL) i soldi nascosti da proprietari italiani nei paradisi fiscali sui quali non vengono pagate le tasse.
A conti fatti se riuscissimo ad azzerare ogni anno, il costo dell’evasione insieme a quello della corruzione, o se solo recuperassimo i fondi nascosti nei paradisi fiscali tassandoli con un aliquota media del 36%, riusciremmo a ripagare l’intero debito pubblico accumulato fino ad oggi in poco meno di dodici anni, mettendo fine così all’annoso peso di circa 31 mila euro che grava sopra ogni italiano, neonati compresi.
La riduzione ed il successivo azzeramento del debito ci permetterebbe di risparmiare i circa 90 miliardi di euro che ogni anno paghiamo per gli interessi, ma soprattutto ci permetterebbe di uscire fuori dalla spirale del famoso spread (differenziale) che tanto condiziona le scelte quotidiane di politici e cittadini.
Come ha spiegato in più occasioni il presidente della Corte dei Conti Giampaolino l’Italia si colloca ai primissimi posti nella classifica mondiale dell’evasione facendo solo meglio di Messico e Turchia. Nonostante l’impegno nella lotta all’evasione, infatti, l’Italia presenta lo stesso livello di evasione di dieci anni fa, generando, secondo le parole dello stesso Giampaolino, effetti negativi sull’etica e la coesione sociale quali: l’assenza di trasparenza e la prevalenza del compromesso nelle relazioni contrattuali.
Cosa fare dunque? Un interessante studio pubblicato quest’estate dalla Confcommercio ci suggeriva che se in Italia vi fosse la percezione dell’output pubblico del Belgio (dove si registra il valore più alto tra 26 paesi analizzati) si riuscirebbero a recuperare 38 miliardi di euro dalle maggiori imposte emerse. Se in Italia vi fosse la stessa facilità degli adempimenti fiscali della Danimarca si riuscirebbero a recuperare 14 miliardi di euro dalle maggiori imposte emerse e se infine in Italia vi fosse la stessa efficacia ed efficienza del sistema giudiziario statunitense si riuscirebbero a recuperare oltre 56 miliardi di euro dalle maggiori imposte emerse.
Anche l’ex Governatore della Banca d’Italia ed attuale presidente della BCE, Mario Draghi, aveva sottolineato come la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile potrebbe giungere a un punto percentuale del PIL, poiché senza efficienza giudiziaria non vi sono investimenti, sviluppo e crescita.
Una seria e soprattutto continuata lotta all’evasione ed alla corruzione, insieme ad una riforma del sistema giudiziario capace di abbreviare la durata dei procedimenti, potrebbero rilanciare la competitività del nostro Paese, risanando allo stesso tempo l’immagine poco edificante trasmessa negli ultimi anni.
Ogni anno secondo l’Istat sui telegiornali l’82% delle notizie fa riferimento ai fatti di criminalità e solo il 4% ai misfatti economici, mentre solo il 5,7% della popolazione ha realmente subito un furto, una rapina o uno scippo. Iniziare a dare anche mediaticamente maggior spazio alle notizie legate ai reati economici, potrebbe essere un chiaro segnale d’inversione di tendenza invece di continuare a fare molto rumore per nulla.
Evasione, corruzione e riciclaggio: un’emorragia da sanare
Evasione, corruzione e riciclaggio rappresentano un serio problema per l’economia italiana di cui però poco si parla sui mezzi di comunicazione. Se riuscissimo ad azzerare ogni anno il costo dell’evasione insieme a quello della corruzione, o se solo recuperassimo i fondi nascosti nei paradisi fiscali tassandoli con un aliquota media del 36%, riusciremmo a ripagare l’intero debito pubblico accumulato fino ad oggi in poco meno di dodici anni.
rnEvasione, corruzione e riciclaggio costano ogni anno al nostro Paese oltre 200 miliardi di euro, cioè a dire il valore dell’intero PIL della Grecia. Passando, infatti, in rassegna tutte le pubblicazioni degli ultimi anni dell’Istat, della Banca d’Italia e della Corte dei Conti, è facile osservare come a fronte di un’economia sommersa pari a circa il 17,5% del PIL nazionale, l’Italia presenti un’evasione fiscale pari a 120 miliardi di euro ed un livello di corruzione stimato intorno ai 60 miliardi.
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