Le politiche attive sono tra loro complementari, vanno personalizzate e usate con cognizione di causa. Ma in Italia questo ancora non accade. Il sistema dei voucher, ad esempio, sfugge ad ogni tipo di controllo ed è scollegato da altre misure di politica attiva, diventando spesso strumento di copertura del lavoro nero

Da diversi anni si discute sui ritardi del nostro paese in materia di politiche attive. La recente riforma del mercato del lavoro ne ha profondamente riformato l’architettura. Molti sono ancora scettici sul ruolo che le politiche del lavoro svolgono nei processi di sviluppo. Ho ragionato su questo argomento in un recente articolo apparso su questo sito.

Per approfondire ulteriormente questo tema è opportuno ragionare anche sugli effetti delle politiche attive. Anche in questo caso nel nostro paese c’è molta confusione. Per gli scettici addirittura il gioco non varrebbe la candela. Si tratta degli orfani delle politiche industriali ossia di chi pensa ad interventi massicci dello Stato in economia, che non solo oggi sono parzialmente vietati dalle regole comunitarie ma che come sappiamo, in passato, hanno lasciato sul campo morti e feriti. Tuttavia è vero che sull’ efficacia delle politiche attive nei processi di sviluppo la letteratura è ancora incerta ma, come si è avuto modo di sottolineare in altre occasioni su questo sito, sono ormai numerose le evidenze sperimentali che mostrano come le misure di attivazione collegate agli interventi di sostegno al reddito agiscano in modo molto rilevante sulle diseguaglianze sociali favorendo i processi di crescita economica.

Fino a qualche tempo fa questa tesi veniva sostenuta solo dai grandi istituti di ricerca internazionale ma oggi la ritroviamo nelle relazioni della BCE e del Fondo monetario internazionale che attribuisco alle politiche di valorizzazione del capitale umano, in gran parte politiche attive appunto, un ruolo decisivo non solo nell’adeguamento dei sistemi produttivi all’innovazione ma anche nei processi di riduzione delle diseguaglianze sociali. Del resto in un paese che ha il più basso tasso di occupazione dei grandi paesi europei solo il lavoro può garantire una migliore redistribuzione dei redditi e quindi più consumi, elementi essenziali per aumentare i ritmi di crescita del paese.

Ma quali sono gli interventi più efficaci? Anche su questo tema in Italia non abbiamo le idee chiare. Le politiche attive sono tra loro complementari e vanno personalizzate. Non esiste una misura che va bene sempre e per tutti. E’ necessario usarle con cognizione di causa. In Germania dove non sono state realizzate politiche industriali, con la riforma del 2004 si è agito usando l’insieme delle politiche del lavoro per qualificare il mercato, puntando su formazione e servizi per il lavoro personalizzati in relazione alle diverse tipologie di target ed i risultati sono evidenti dal momento che oggi la Germania fa registrare il più alto tasso di occupazione dei grandi paesi UE. Un esempio su come le politiche attive siano la combinazione di elementi diversi è rappresentato per la Germania dai Minijob. I cosiddetti piccoli lavori sono uno strumento integrato nel sistema delle politiche del lavoro tedesco e vengono usati nei periodi di formazione, per integrare il sostegno al reddito dei lavoratori più svantaggiati, per favorire l’avvicinamento al lavoro degli studenti o per garantire una integrazione al reddito come secondo lavoro.

In Italia il sistema dei voucher è invece affidato a se stesso. Secondo i dati dell’INPS nel 2015 risultano venduti circa 115 milioni di voucher con un incremento medio nazionale, rispetto al 2014 del 66%. Il volume di ore remunerate (un voucher pari a 10 euro) corrisponde a circa 57.000 unità di lavoro equivalenti, un numero rilevante che dovrebbe far riflettere sulla loro potenzialità. Ma il fatto che essi sfuggano ad ogni controllo e siano completamente scollegati da altre misure di politica attiva ne ha fatto persino uno strumento di copertura del lavoro nero. Un classico esempio di eterogenesi dei fini dal momento che dovevano proprio far emergere il lavoro irregolare.

Al fine ridurre i rischi di irregolarità è stata recentemente introdotta dal Governo la loro piena tracciabilità (con acquisto on line) ma non è sufficiente. Infatti non solo mancano i controlli (la nuova agenzia per le attività ispettive è ancora in fase di costituzione) ma soprattutto manca quel collegamento con il sistema delle politiche del lavoro che è essenziale per valorizzarne le potenzialità. Per questo piuttosto che criticarne dogmaticamente la funzione (che è invece utile come dimostrano non solo le sperimentazioni tedesche ma anche i casi del Belgio e della Francia) ne andrebbe compresa la complementarietà con altre misure di politica attiva e passiva del lavoro, rendendolo uno strumento funzionale agli obbiettivi di occupabilità, integrazione al reddito che le policies si propongono. Ma per farlo è necessario avere chiari gli obbiettivi e le strategie di intervento cosa che ancora non sembra all’ ordine del giorno per quelle carenze culturali che contraddistinguono la visione che il nostro paese ha sulle politiche del lavoro.

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