Una delle esperienze più interessanti di integrazione tra politiche del lavoro e politiche di sviluppo e di contrasto al declino industriale e alla crisi, è rappresentata dai programmi di workers buyout che consistono nell’acquisizione di un’azienda fallita da parte dei suoi dipendenti

La lunga crisi economica ha duramente colpito il tessuto produttivo Italiano soprattutto quello composto dalle piccole e medie imprese quelle, cioè, con un numero di addetti compresi tra 10 e 250 e un fatturato compreso tra 2 e 50 milioni di euro. I dati forniti di recente da Cerved indicano che un quinto delle PMI italiane attive del 2007 ha avviato tra l’inizio del 2008 e giugno 2014 una procedura fallimentare o è stata liquidata volontariamente dall’imprenditore (21% del totale). L’ emorragia di imprese oltre che di occupati condiziona fortemente la ripresa e le riforme del mercato del lavoro, nel tentativo di rianimare la domanda di lavoro dovranno necessariamente puntare a creare un contesto favorevole al rilancio delle PMI italiane.

A questo proposito la strategia europea per l’occupazione con i programmi afferenti ad Europa 2020 sollecita da tempo i diversi partner europei a sperimentare e realizzare programmi capaci di coniugare politiche del lavoro e misure per lo sviluppo locale, puntando sulla concentrazione delle risorse e sul rilancio dell’imprenditorialità soprattutto nelle aree più colpite dalla crisi.

Una delle esperienze più interessanti di integrazione tra politiche del lavoro e politiche di sviluppo e contrasto al declino industriale è rappresentata dai programmi di workers buyout, ovvero, l’acquisizione di un’azienda fallita da parte dei suoi dipendenti. Tale approccio nasce e si sviluppa negli Stati Uniti negli ultimi anni ma anche in Italia, sta via via acquisendo terreno soprattutto sfruttando la grande tradizione cooperativa nel nostro paese. Attualmente si contano più di sessanta esperienze di questo tipo, soprattutto in Emilia Romagna e Toscana dove il tessuto produttivo in forma cooperativa è molto forte.

Decisamente buoni sono i risultati tanto che le imprese cooperative nate con il modello del workers buyout nel 78% dei casi riescono a sopravvivere: una percentuale di successo molto più alta di quella delle startup che ha permesso di salvare più di duemila posti di lavoro. La caratteristica di tali esperienze, appunto, è quella di coniugare le politiche del lavoro con le politiche industriali. Infatti i lavoratori (tutti o una parte di loro) che intendano rilevare l’azienda nella fase fallimentare possono utilizzare il proprio trattamento di fine rapporto (TFR) ed i sussidi di disoccupazione (che l’INPS per legge può erogare in un’unica soluzione) per costituire un capitale iniziale al quale si aggiungono le risorse messe a disposizione dei fondi per lo sviluppo della cooperazione.

Ovviamente occorre che le istituzioni competenti in materia di politiche del lavoro collaborino mettendo a disposizione occasioni di formazione e servizi nella fase di avvio mentre un ruolo decisivo dovrà essere svolto anche dal sistema bancario. Naturalmente si tratta di sperimentazioni complesse ma l’approccio è di grande interesse e meriterebbe di essere fortemente sostenuto ed ulteriormente sviluppato sia a livello nazionale che regionale. Per comprenderne le potenzialità le diverse storie che sono alle spalle di tali esperienze sono estremamente significative.

Nell’ambito della trasmissione Il posto giusto in onda su Rai Tre e dedicata ai temi del lavoro e delle sviluppo il tema del worker buyout è stato più volte raccontato e le quattro storie che sono state documentate sono sicuramente emblematiche per comprendere le potenzialità di tale modello di intervento. Il primo esempio, che potremmo definire da manuale, è quello dalla GESLAB di Scandiano presso Reggio Emilia una cooperativa che produce piastrelle in gres porcellanato smaltato. Fondata da 31 soci lavoratori che hanno rilevato l’impresa fallita nel maggio 2011 impegnando parte del TFR e la quota residua del sussidio di disoccupazione, la Greslab soc.coop (aderente a Legacoop) può contare su due soci sovventori “istituzionali” Coopfond Spa, C.F.I.Soc.Coop, e tre soci sovventori non istituzionali, che hanno avuto il compito di sostenere la cooperativa sia finanziariamente che attraverso contratti di fornitura. A fine 2014 i soci lavoratori erano 44 e i dipendenti 18 con un incremento occupazionale del 67% ed in tre anni e mezzo di attività la cooperativa ha già fatto registrate un significativo aumento del fatturato.

Analoga traiettoria ma in un settore produttivo diverso (farmaceutico) è stata seguita a Roma da Fenix Pharma società cooperativa che aderisce al Legacoop, rinata grazie ai lavoratori che hanno rilevato le attività di un multinazionale, l’americana Warner Chilcott (ex-Procter & Gamble Pharmaceuticals) che nel 2011 aveva deciso chiudere e di metter in mobilità 160 lavoratori dello stabilimento italiano. La storia in questo caso è emblematica non solo per le testimonianze dei lavoratori che raccontano l’intero processo di acquisizione (nel quale hanno investito i propri risparmi oltre al TFR ed ai sussidi di disoccupazione circa 40 lavoratori) ma soprattutto per il fatto di rappresentare una esperienza di worker buyout in un settore che non rientra tra quelli ad alta presenza cooperativa. Anche in questo caso è risultato decisivo l’intervento di Coopfond e CFI che hanno permesso alla Fenix Pharma di rilanciarsi ed oggi con otto milioni di fatturato 46 soci e circa 90 dipendenti è sicuramente una impresa di successo, per altro con ampi margini di sviluppo.

Un esempio di workers buyout che integra politiche del lavoro e di sviluppo è rappresentato dalla Legatoria D’ancona di Pescara, società cooperativa costituita dalle ceneri della Legatoria D’Ancona, che aveva chiuso i battenti nel 2013, mandando in cassa integrazione 22 dipendenti. In questo caso la Provincia di Pescara con il Progetto LINFA – nato proprio per orientare, formare e, soprattutto, ricollocare i lavoratori più colpiti dalla crisi – ha fornito ai nove lavoratori che avevano deciso di avviare l’acquisizione della storica legatoria anche un supporto orientativo e formativo. Interessante, in questo caso non solo l’integrazione con programmi di politica attiva o il ricorso dei lavoratori al TFR ed ai residui delle indennità di mobilità ma anche il ruolo del sistema bancario che di fatto finanziato il progetto.

In ultimo il Centro Olimpo di Palermo primo progetto di workers buyout realizzato utilizzando beni sequestrati alla criminalità organizzata. Trentaquattro ex dipendenti, sostenuti e coadiuvati da Legacoop di Palermo, hanno infatti dato vita alla cooperativa "Progetto Olimpo", riaprendo un Centro commerciale sequestrato alla mafia. Il progetto ha avuto un costo di oltre un milione di euro, nel quale sono confluiti oltre i TFR dei lavoratori le loro indennità di disoccupazione, gli investimenti di C.F.I. e Coopfound, che partecipano come soci sovventori, mentre Unipol e Banca Etica lo hanno finanziato concedendo la liquidità necessaria all’avvio dell’impresa.

Si tratta di storie di lavoro di enorme interesse non solo per l’importanza sociale delle esperienze maturate(“Faccio il tifo per le coop nate attraverso il progetto di workers buyout», ha detto Papa Francesco lo scorso febbraio ai settemila mila cooperatori riuniti in audizione in Vaticano) ma, in particolare, per il contributo che possono dare alla definizione di nuovi modelli di intervento sfruttando l’integrazione tra politiche del lavoro, politiche industriali e politiche sociali, valorizzando le risorse dei Fondi Europei oggi ampiamente sottoutilizzate.

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