L’astensionismo degli elettori del Pd e i movimenti populisti hanno in definitiva la stessa matrice: la paura di pagare in prima persona le trasformazioni del Paese. La batosta del Pd alle elezioni è l’altra faccia della medaglia del populismo…

Il prof. Tarchi dell’ateneo fiorentino, politologo, in una intervista al TG della Toscana ha riassunto in una battuta i brutti risultati elettorali del Pd: “molti elettori di quel partito non sono andati a votare e sono rimasti a casa”.

Analisi ineccepibile perché così è andata. Il problema ora si sposta sul perché sono rimasti a casa e come vedremo ha le stesse radici del diffuso populismo che attraversa, a diversi livelli, tutto il Paese e non solo.
Il filo conduttore che seguiremo è quello del tentativo di rendere questo Paese più efficiente eliminando le sacche di arretratezza, gli sperperi, le rendite di posizione che non sono più di una classe specifica, ma coinvolgono trasversalmente tutto e tutti, ricchi e poveri, padroni e operai, pubblico impiego e categorie professionali. Tutti sanno che per fare questo bisogna ridurre i privilegi delle corporazioni che anno dopo anno si sono accumulati e che ora rappresentano una zavorra per l’intero Paese.

La scuola aveva bisogno di una riforma che attribuisse la responsabilità dell’insegnamento: ci provò Giovanni Berlinguer ma fu bocciata dal sindacato, con la Giannini è passata ma tutto il corpo insegnante ha perso quella tranquillità del posto fisso che prima era garantita dall’essere di ruolo senza badare minimamente ai risultati ottenuti.

La corporazione degli edicolanti, fortemente protetti fino a pochi anni fa, sta per essere spazzata via dall’informatica perché ormai il giornale di carta non lo compra più nessuno, tutti si legge sui tablet e telefonini vari.

La stessa informatica ha dimostrato che le tariffe del trasporto possono essere ridotte drasticamente (leggi Uber) scavalcando un’altra robusta (e prepotente) corporazione, quella dei tassisti. Sempre grazie all’informatica sono andati sul mercato migliaia di appartamenti vuoti che i proprietari affittano ai turisti, saltando agenzie di viaggio e alberghi tradizionali.

Le fabbriche in perdita ancora non dismesse, come il settore ferroviario, sono state cedute ai giapponesi che credo ridurranno i costi, aumenteranno la produttività e riporteranno l’azienda in linea con quella degli altri paesi sicuramente con una gestione più oculata ma di fatto togliendo privilegi anacronistici ad una aristocrazia operaia che si era creata in cambio di consenso.

Le grandi città, per le ristrettezze di bilancio, sono costrette a dare in gestione a privati molte delle vecchie municipalizzate, fonte un tempo di solidi consensi. Non è più pensabile che le aziende di trasporto pubblico riescano a coprire i costi solo per il 30%, quando va bene, aspettando il ripianamento del bilancio da parte di “Pantalone”. Ma anche in questo settore il passaggio al privato comporta la fine di orti e orticelli che si erano andati accumulati negli anni. Vedremo ad esempio se la Raggi a Roma avrà la forza di togliere quelle indennità che solo i ferrotranvieri romani hanno e se riuscirà a far pagare il biglietto dell’autobus ai romani.

Il pubblico impiego, altra fonte inesauribile di consenso per chi governa, si sta prosciugando rapidamente. Non è una novità che la pubblica amministrazione sia inefficiente, quella statale come quella regionale e comunale. Le province sono state abolite e il personale, pur ricollocato, ha perso quei privilegi, che nessuno dice ma che ci sono, dovuti alle difficoltà di inserimento in altra amministrazione dove i posti migliori sono tutti occupati, al trasferimento in altra sede e così via.

Gli altri pubblici dipendenti sono ormai circa dieci anni che si vedono bersagliati da provvedimenti restrittivi e se all’inizio potevano ridere dei tornelli di Brunetta, adesso ci sono indagini a tappeto della magistratura e la Corte dei Conti finalmente si è svegliata nel richiedere i soldi a chi li sperpera; se prima passavano almeno il 70% del loro tempo lavorativo a escogitare regolamenti per sottrarsi dalle responsabilità, adesso sono nel panico. Sono solo esempi di un clima generale in cui i riferimenti sociali e politici sono profondamente cambiati perché il Paese ha deciso di rimanere in Europa e di non finanziare più le inefficienze delle corporazioni con denaro pubblico per la semplice ragione che rischiavamo il fallimento come la Grecia o la Russia degli anni ’90.

Tutto ciò ha prodotto un forte sconcerto sociale che non è ancora stato controbilanciato dalla fiducia nella ripresa economica anche se, secondo noi, è più forte di quanto ci raccontano i numeri, spesso di parte, delle singole categorie, non a caso. E’ questa sensazione di paura che attraversa larghi strati della popolazione che ha fatto sì che molti elettori del Pd siano rimasti a casa, ed è per lo stesso motivo che gli elettori di destra hanno preferito convergere sui candidati dei 5 stelle per ribadire il loro disagio rispetto all’incertezza che ha provocato in loro questo processo di cambiamento. Tutte le colpe sono ricadute sul Pd, reo di non aver difeso e qualche volta incoraggiato queste trasformazioni, che tuttavia erano e rimangono essenziali per tutta l’Italia.

In sostanza l’astensionismo degli elettori del Pd e i movimenti populisti hanno in definitiva la stessa matrice: la paura di pagare in prima persona le trasformazioni del Paese. La batosta del Pd alle elezioni è l’altra faccia della medaglia del populismo. I primi si sono semplicemente astenuti assumendo una posizione attendista, i secondi vogliono decisamente tornare ad un passato impossibile fatto di tranquillità corporativa garante dei privilegi accumulati e giudicati incedibili.

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