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Proponiamo una parte della relazione tenuta da Mons. Giovanni Nervo – assistente spirituale delle Acli di Padova (1945), primo presidente della Caritas italiana, della Fondazione Zancan e della Fondazione “Nervo Pasini” – di cui ricorre il centenario della nascita, proposta nell’ambito del 35° Incontro nazionale di studi delle Acli “Il welfare che verrà. La nuova frontiera dei diritti nel tempo della globalizzazione” (Vallombrosa, 6-8 settembre 2002).

La lavanda dei piedi e lo stile del servizio

«Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, Gesù – avendo amato i suoi che erano nel mondo – li amò sino alla fine. Durante la cena, dopo che il diavolo ebbe messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, il proposito di tradirlo, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che egli veniva da Dio e a Dio ritornava, Gesù si alzò da tavola, depose il mantello, prese un panno e se lo allacciò alla vita. Poi, versata dell’acqua in un catino, incominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con il panno che si era allacciato alla vita». Segue l’umanissima e personalissima reazione di Pietro e l’interven­to deciso del Maestro. Poi «finito di lavare i piedi, Gesù riprese il man­tello, si mise di nuovo a tavola e disse: comprendete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite giustamente, infatti lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda. Vi ho dato un esempio: comportatevi come io ho fatto con voi». (Gv 13,1-17).

I biblisti ci dicono che alla base del racconto della lavanda dei piedi, racconta nel Vangelo di Giovanni, c’è la struttura tripartita in uso fra i rabbini. È un procedimento pedagogico che consiste nel fare un gesto misterioso (il gesto scon­certante compiuto dal Maestro: il lavare i piedi era un servizio dello schiavo), che suscita una domanda (Pietro: “Tu lavi i piedi a me?”) e che fornisce quindi l’occasione di un insegnamento (“anche voi dove­te lavarvi i piedi a vicenda”).

È questo insegnamento che a noi interessa in questo convegno: come il Maestro si è messo a servire, così devono fare i discepoli. Il gesto del lavare i piedi non nasconde la dignità di Gesù (“voi mi chia­mate Maestro e Signore, e dite giustamente, infatti lo sono”), non offusca la sua gloria, ma la rivela: esprime la logica di amore e di ser­vizio, di dono, che ha guidato tutta la sua esistenza.

Così la comunità cristiana è chiamata a intraprendere la strada del servizio per amore. Non è un optional, è un comando: “anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda”. Richiamare la Chiesa al servizio umile non significa privarla della sua autorità, ma significa affermarla nella sua identità. L’autorità della Chiesa, come già quella di Cristo, si rivela nel servizio. Il comando di Gesù si riferisce direttamente ai suoi (“avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”): i suoi sono i dodici (“incominciò a lavare i piedi dei discepoli”). Ma riguarda anche tutti quelli che nel futuro crederanno nel suo nome, cioè tutti i battezzati, che in forza dell’innesto nella vita divina parteciperanno alla funzione sacerdotale, profetica e regale di Gesù Cristo, come ci ricorda e ci illustra la Lumen gentium, la Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa.

Il servizio di contribuire a far funzionare bene le istituzioni della società, in attuazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione è di particola­re importanza e attualità, perché il compito di garantire i diritti fonda­mentali delle persone a partire dalle più svantaggiate, non può essere demandato al volontariato, né al Terzo settore, che c’è se c’è, dove c’è, se può, se vuole; e tanto meno al mercato, che opera se ha profitto: è compito non delegabile della società nel suo insieme, attraverso le sue istituzioni che usiamo chiamare Stato.

Il contributo più importante che può dare il volontariato alla nostra società, nello spirito della lavanda dei piedi, a mio avviso, è di permea­re tutte le dimensioni della vita umana – la famiglia, il lavoro, la politica, la promozione sociale, l’attività economica – dei valori di servizio, di gratuità, di rispetto delle persone, della loro dignità e dei loro diritti sperimentati attraverso la propria esperienza di volontariato. Lo specifico cristiano del servizio poi è l’amore: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine»: segue il segno della lavanda dei piedi.

Ne deriva che l’atteggiamento di fondo, che deve diventare l’ha­bitus, stile di vita, per realizzare con spirito cristiano il welfare che verrà, è l’atteggiamento, l’habitus, lo stile di vita del servizio. Questo riguarda tutta la vita e l’attività del cristiano, ma c’è un’esi­genza particolare per il welfare: si tratta di servizi alla persona che richiedono di mantenere sempre la persona al centro, sia in rapporto alle singole persone, sia in rapporto alle strutture e alle istituzioni. C’è stata storicamente e culturalmente un’evoluzione che non ci deve sfuggire, perché può essere un segno dei tempi: si è passati dalla beneficenza all’assistenza, ai servizi sociali, ai servizi alla persona.

Che nei servizi alla persona, la persona debba essere al centro sembra ovvio, ma praticamente non è scontato. L’ospedale, i medici, le loro ricerche sono sempre per i malati o non sono alle volte i mala­ti per l’ospedale, per i medici e per le loro ricerche? La scuola è sempre per i ragazzi e le loro famiglie o alle volte sono i ragazzi per la scuola, per gli insegnanti, per la loro occupazione, per la loro carriera? L’appoggio che viene dato al volontariato è per migliorare i servizi alle persone o per risparmiare sui costi e per garantirsi riserve di voti alle elezioni?

Nella legge sulla immigrazione (la Bossi-Fini), al centro ci sono le persone degli italiani e degli immigrati, oppure l’accettazione forzata di manodope­ra a basso costo perché non se ne può fare a meno, per poi rimandar­la a casa quando non serve più? Il vincolo del contratto di lavoro e gli ostacoli ai ricongiungimenti familiari sono indicatori fin troppo elo­quenti di una cultura e di una mentalità che certo non mette al centro la persona ed è in netto contrasto con lo spirito di servizio della lavanda dei piedi.

La svolta economicistica del nostro Paese, e non solo del nostro, è per migliorare la vita di tutte le persone o per aumentare i profitti di chi sta bene? I tagli nella sanità sono per migliorare la salute delle persone, o per far quadrare i conti a spese della salute? È effettivo l’impegno di mantenere il criterio universalistico della legge 328/2000 di riforma dell’assistenza o si va verso un assistenziali­smo compassionevole per i più poveri per tenerli buoni? Le Acli mantengono ancora il loro nome di Associazioni cristiane di lavoratori italiani. Come mantenere nelle scelte di politiche sociali, nella costruzione del welfare che verrà lo spirito evangelico di servi­zio?

Nella lavanda dei piedi Gesù pone ai dodici, alla Chiesa che conti­nuerà l’opera di Cristo e degli apostoli, ai cristiani chiamati a portare il fermento evangelico nel mondo, il problema dell’autorità e del potere. Gesù ha il massimo potere sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e ha il massimo di autorità: «Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite giustamente, infatti lo sono».

Come Gesù afferma il potere ed esercita l’autorità? Con il servizio proprio del servo, dello schiavo: «versata dell’acqua in un catino, incominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con il panno che si era allacciato alla vita». Questo gesto e questo stile di servizio non diminuisce, ma aumenta la dignità e l’autorevolezza del Maestro stesso: «In verità, in verità vi dico: non c’è servo più gran­de del padrone, né apostolo più grande di colui che l’ha mandato, se comprendete questo e lo mettete in pratica, beati voi».

Il problema del potere è un problema profondamente umano, che rivela la fragilità e la debolezza della nostra umanità. Era presente nel gruppo dei dodici: Gesù li scopre più volte a discutere fra di loro chi sarebbe stato il primo nel regno che Gesù avrebbe instaurato; Giacomo e Giovanni mandano avanti la madre a chiedere a Gesù che assicuri loro i due ministeri più importanti, e mentre stanno andando a Gerusalemme dove si compirà la tragedia finale, Gesù li scopre ancora che discutono chi sarebbe stato il primo; e di questo discutono anche quando Gesù sta per salire al cielo. Poi lo Spirito Santo cambia loro il cuore e comprendono e traducono nella vita la lavanda dei piedi.

Il problema del potere è stato sempre presente anche nella Chiesa e lo è ancora a tutti i livelli: penso lo sia anche nelle Acli. Il potere, di per sé, non è diabolico: è uno strumento necessario per poter esercitare il servizio dell’autorità. Soltanto che è pericoloso e va tenuto sempre sotto controllo perché non prenda la mano e invece di servire per l’esercizio dell’autorità per il bene comune, si serva dell’autorità per dominare gli altri per il proprio interesse.

Perciò l’esempio e l’insegnamento che ci ha dato Gesù nella lavanda dei piedi è di permanente attualità per la sua Chiesa e per i cristiani che vivono e operano nel mondo. E quindi anche per le Acli nel costruire il welfare che verrà. Anche nella costruzione del welfare entra in gioco il rapporto con il potere. In un sistema democratico infatti la sovranità, cioè il potere, è del popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, cioè nel sistema rappresentativo (art. 2).

«I cittadini hanno diritto di unirsi e organizzarsi in partiti per contri­buire a determinare la politica nazionale» (art. 43). Cioè il popolo con le elezioni delega la sua sovranità, il suo potere alle varie formazioni politiche perché lo rappresentino nelle sedi in cui si determina la politica nazionale: Parlamento nazionale, Consigli regionali.

Le formazioni politiche, i partiti, però devono esercitare il potere delegato non per affermare la propria egemonia e i propri interessi, ma «per concorrere con metodo democratico a determinare la politi­ca nazionale» a servizio del bene comune, cioè a realizzare leggi ed istituzioni che promuovano e garantiscano il bene comune, cioè di tutti e di ciascuno, dando la precedenza ai più deboli, per garantire l’eguale dignità di tutti i cittadini (art. 3).

È nata da qui la crisi dei partiti: hanno perduto il senso del servizio per il bene comune, che è l’unica ragione che li giustifica, e hanno cercato di rafforzare il potere per l’affermazione di se stessi e dei pro­pri interessi, mettendo a rischio la stessa democrazia. Gli studi più recenti, infatti, e le stesse esperienze attuali dimostrano che non è sufficiente il consenso della maggioranza dei cittadini per garantire la democrazia, se non c’è una seria e costante partecipazione di base che coadiuva, ma anche controlla il potere, a tutti i livelli. Enzo Biagi, in un articolo su II Corriere della Sera, ricordava che Hitler è andato al potere con il 90% dei voti di chi aveva partecipato alle elezioni, il 40% dei tedeschi.

Su questo costante richiamo allo spirito e allo stile del servizio la società civile ha la responsabilità di esercitare la sua funzione politica. Lo richiamava ancora nel 1991 il documento della Cei Educare alla legalità: «Per un corretto svolgimento della vita sociale è indispensa­bile che la comunità civile si riappropri di quella funzione politica che troppo spesso ha delegato esclusivamente ai professionisti di questo impegno nella società. Non si tratta di superare l’istituzione “partito”, che rimane essenziale nell’organizzazione dello stato demo­cratico, ma di riconoscere che si fa politica non solo nei partiti, ma anche al di fuori di essi, contribuendo ad uno sviluppo globale della 39 democrazia con l’assunzione di responsabilità di controllo e di stimo­lo, di proposta e di attuazione di una reale e non solo declamata par­tecipazione. La lotta per la rimozione delle strutture sociali ingiuste è un impegno che non può essere affidato in modo unico ed esclusivo ai partiti. Anche la società civile ha da svolgere una sua funzione poli­tica, facendosi carico dei problemi generali del Paese, elaborando progetti per una migliore vita umana a favore di tutti, controllando anche la loro attuazione, denunciando disfunzioni e inerzie, esigendo con gli strumenti democratici, messi a disposizione dei cittadini, che la mensa non sia apparecchiata solo per chi ha potere, ma per tutti».

Le Acli, che costituiscono una significativa espressione cristiana della società civile, hanno da sempre assunto e contribuito ad eserci­tare questa funzione politica della società civile. Come accentuare in questo momento il senso e lo stile cristiano del servizio della lavanda dei piedi sia all’interno della propria organizza­zione, sia nel vasto panorama del volontariato, dell’economia sociale del non profit, sia nelle funzioni proprie non delegabili delle pubbli­che istituzioni, che hanno il compito e la responsabilità di garantire i diritti dei cittadini, sia nelle sedi legislative nazionali e regionali?

È così che come cristiani siamo chiamati ad essere sale della terra e luce del mondo, oggi. Dobbiamo onestamente e realisticamente rico­noscere che questa concezione dell’autorità e del potere e lo stile di vita richiesto dal Signore ai suoi con la lavanda dei piedi è controcor­rente: «Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo». Dobbiamo pure umilmente riconoscere che lo stile di vita della lavanda dei piedi, cioè l’umile servizio per amore, non è frutto dell’al­bero selvatico, ma dell’innesto della vita divina in noi, del tralcio unito alla vite, anche se richiede la nostra fedele e costante collabora­zione.

Soltanto da una spiritualità coltivata nella preghiera, nella quotidia­na lettura meditata e pregata della parola di Dio, nella Pasqua settima­nale celebrata come alimento di fede e di grazia, nella frequentazione dei sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia, scaturisce sponta­neo, ma frutto di grazia, di azione dello Spirito Santo in noi, lo stile di vita di umile servizio della lavanda dei piedi richiesto dal Signore ai suoi, e tra i suoi che egli ha amato sino alla fine, ci siamo anche noi, che abbiamo creduto nel suo nome.

Voi però siete chiamati a costruire il nuovo welfare insieme con altri che possono non condividere pienamente questi valori. Nel 1945 mi trovavo ad essere assistente provinciale delle Acli di Padova e ricordo il manifesto di un convegno nazionale della gio­ventù femminile rurale francese. Rappresentava un pesco in fiore e sotto si leggeva questo motto: “Dobbiamo fiorire là dove Dio ci ha seminati’. Anche voi dovete fiori­re in questa realtà in cui Dio vi ha seminati: dovete essere sale della terra e luce del mondo anche nel costruire il nuovo welfare. La sicu­rezza che Dio è presente nel mondo e ci ama e la centralità della per­sona immagine di Dio, chiaramente affermate dalla parola di Dio, sono la luce che illumina i vostri passi, cioè che guida le vostre scelte anche nella costruzione del welfare.

E qui ci vengono incontro (anche) gli articoli 2 e 3 della Costituzione che è la preziosa eredità che i cattolici che ci hanno preceduto hanno saputo costruire insieme anche con non credenti.

Art. 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale».

Art. 3: «Tutti i cittadini hanno eguale dignità sociale (…). È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono tale eguaglianza».

Occorrerà vigilanza per difendere con coraggio questa impostazione fondamentale della nostra Costituzione e non consentire che si faccia avanti l’idea sostenuta nel 1994 da leaders politici ora al potere, che la Costituzione formale va superata con la Costituzione materiale. Quale poteva essere la Costituzione materiale? Qualcuno di essi allora ha affermato che anche l’art. 1 della Costituzione va modificato: non più “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, ma “L’Italia è una Repubblica fondata sulla libertà”.

 

Pensare il welfare alla luce del Vangelo

«Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo. In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». (Mt, 18, 15-20).

Questo passo del Vangelo di Mattero ci aiuta a riflettere su di una prassi cristiana che non è molto in uso nelle nostre comunità, cioè la “correzione fraterna“: se il tuo fratello commette qualche colpa – non è detto quale colpa, né è detto che sia contro di te, dal contesto si deduce che si tratti di una colpa grave e pubblica – Gesù dice che non puoi disinteressarti come se fosse una cosa che non ti riguarda; Gesù dice: «va e ammo­niscilo». Ma perché correggere la colpa? Perché Gesù ci sollecita alla corre­zione fraterna? C’è un aspetto personale e un aspetto comunitario. «Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello». Il vero amore non lascia le persone come sono, coi loro difetti e i loro limiti. Amare un fratello significa voler concretamente la sua libe­razione da ciò che è cattivo e difettoso in lui. Correggere è opera di amore e nasce da un atteggiamento di misericordia che è proprio l’at­teggiamento di Dio nei nostri riguardi.

Perciò è altra cosa dalla critica, che invece è la negazione della misericordia. Infatti, in un altro punto del Vangelo il Signore ci dice: «non giudi­cate, non condannate, la stessa misura che adoperate con gli altri sarà adoperata anche con noi». C’è poi un aspetto comunitario. Nelle nostre azioni c’è sempre una responsabilità anche nei con­fronti della comunità. Perciò una comunità di amore fra gli uomini, come il Signore vuole che sia la Chiesa, è sempre una comunità di riconciliazione e di correzione fraterna.

Questo aspetto comunitario era molto presente nella Chiesa primi­tiva e portava alla confessione pubblica e alla penitenza pubblica per le colpe più gravi che ferivano la comunità. Un’eco di questa prassi è rimasta nell’assemblea eucaristica quando noi confessiamo pubblica­mente (l’abbiamo fatto prima) a Dio e ai nostri fratelli, cioè alla comu­nità, i nostri peccati: «confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni».

È molto interessante il metodo che Gesù ci insegna per la correzio­ne fraterna: «prima va e ammoniscilo fra te e lui solo; se non ti ascolterà, prendi con te due o tre persone; se non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea – ed è pubblica denuncia -; se non ascol­terà neanche l’assemblea, taglia i ponti». È importante questo metodo che ci insegna il Signore, perché anche nelle nostre comunità, nelle nostre parrocchie, nei nostri grup­pi, forse anche nelle Acli, ci possono essere tensioni – fa parte della nostra realtà umana -, ci possono essere comportamenti che ritenia­mo colpevoli. Ed alle volte preferiamo lavarci le mani, altre volte sal­tiamo via i primi due passaggi e passiamo subito alla denuncia – forse lavarci le mani è ancora peggio della denuncia.

Nel 1951 il Professor Vittorio Bachelet scrisse un articolo “Pregare per i politici “. Se nei cinquantanni in cui i cattolici sono stati maggioranza nella vita politica italiana, come comunità cristiana avessimo messo in pratica l’insegnamento di Gesù riferito da Matteo, oggi quante meno sofferenze per i nostri fratelli che hanno militato nella vita politica, quanti meno scandali e quanti meno danni per la comunità!

Guardando in avanti possiamo chiederci: quali colpe che richiedo­no correzioni fraterne si possono commettere nella costruzione del welfare?

In campo sociale credo che le colpe più gravi, perché portano con­seguenze più gravi, sono fatti di omissione. Non è questo il momento, in cui stiamo riflettendo sulla parola di Dio, per analizzare in concre­to queste possibili, facili e purtroppo attuali omissioni. È materia di riflessione, ad esempio, tradurre l’articolo 2 della Costituzione in leggi che rendano esigibili e inviolabili i diritti dell’uo­mo riconosciuti dalla medesima Costituzione. Leggi che vincolino effet­tivamente l’adempimento dell’inderogabile dovere di solidarietà econo­mica, politica e sociale, ad esempio impedendo efficacemente e col­pendo severamente la pressione fiscale; leggi che effettivamente rimuo­vano gli ostacoli che di fatto impediscono l’eguale dignità di tutti i citta­dini.

La funzione di coscienza critica che un movimento come le Acli può esercitare nella difesa e nella promozione di un welfare universa­listico, mi sembra rientri nello spirito della correzione fraterna secon­do il Vangelo, in un momento in cui interessi particolaristici possono facilmente indurre anche i nostri fratelli che operano nella vita politi­ca e sociale al compromesso e all’incoerenza. Lo stile, però, deve essere quello del Vangelo: rispetto delle persone, sempre; franchezza e amore, sempre: sono doni dello Spirito Santo che noi chiediamo al Signore anche in quest’Eucarestia, in questo convegno.

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