ll Rapporto sul Mercato del Lavoro 2013-2014 realizzato dal CNEL e presentato lo scorso 30 settembre, ci offre una fotografia ragionata dell’intero periodo della lunga crisi che sta attraversando l’Italia. Si è voluto così uscire da uno schema classico di misurazione delle variazioni sui diversi indicatori misurati anno per anno, per offrire uno spaccato più completo, ricavato dall’intero periodo della crisi, capace di dare suggerimenti più idonei per policy con carattere strutturale

Ha destato un forte interesse la scelta della 3° Commissione del CNEL di fornire nel Rapporto sul Mercato del Lavoro 2013-2014 una fotografia ragionata dell’intero periodo della lunga crisi che sta attraversando l’Italia. Con ciò si è voluto uscire da uno schema classico di misurazione delle variazioni sui diversi indicatori misurati anno su anno, modalità che soffriva di una impostazione di tipo congiunturale, volendo fornire uno spaccato più completo, ricavato dall’intero periodo della crisi (2008 al 2014), che possa consentire suggerimenti più idonei per policy con carattere strutturale.
In sintesi portiamo, raggruppandole per capitoli, le più significative rilevazioni.

Divergenze crescenti
Il periodo della crisi ha scomposto i tradizionali parametri dell’occupazione facendo crescere le divergenze internazionali. In primis quella tra Europa e USA che hanno avuto una sostanziale affinità in valori assoluti fino al 2009 per poi prendere traiettorie decisamente opposte. Negli Stati Uniti abbiamo assistito alla totale rimonta dei livelli occupazionali antecedenti la crisi, con il recupero di ben 8,7 milioni di posti di lavoro. Viceversa in Europa dal 2008 ad oggi l’andamento in declino del numero degli occupati è stato pressoché costante stabilizzandosi solo in questo ultimo periodo. Ancora più evidente è il crescere delle divergenze se misurato sul tasso di disoccupazione, cresciuto fino al 10,5% in entrambe le aree nel 2009 e poi, tracciando due traiettorie opposte, è sceso al 6,3 negli Usa e salito all’ 11,5 nell’area euro.

Ma quel che ancor più viene riscontrato è il crescere delle divergenze occupazionali tra i paesi europei: con la Germania che durante la crisi aumenta di 2,5 milioni i propri posti di lavoro, seguita dall’Inghilterra con più 900 mila, mentre i paesi periferici perdono significativamente fette occupazionali con 3,3 milioni della Spagna, il 1,2 dell’Italia e il 1,1 della Grecia. Col risultato che i disoccupati sono triplicati in Grecia, più che raddoppiati in Spagna e passati da 1,7 milioni a 3,15 in Italia. L’Europa sta andando in senso contrario all’ordinato cammino di crescita che avevano tracciato i padri fondatori prefigurando un percorso di allineamento delle differenze. Tutto ciò comunque un effetto lo sta producendo nell’aver posto al centro dell’agenda europea il tema dell’occupazione, dove nel passato tale spazio era esaurito dai temi della sostenibilità del debito pubblico.

Disuguaglianze crescenti
La perdita occupazionale di 1,2 milioni di posti di lavoro non si è abbattuta sul nostro paese con uniformità. Sono cresciute le disuguaglianze territoriali, settoriali, generazionali, nei livelli di istruzione e per nazionalità. Gli occupati sono scesi al Nord del 2,3%, al Centro dell’1,3 e al Sud del 12%. Il settore delle costruzioni ha perso un quarto degli occupati, l’industria il 9% e i servizi 1,2. Complessivamente i lavoratori occupati italiani sono scesi dell’8,4% mentre gli occupati stranieri sono saliti del 39%, evidenziando l’insostenibilità di questo andamento. I collaboratori hanno avuto perdite di posti di lavoro per il 16%, i lavoratori autonomi per il 9% i dipendenti per il 3,2. Inoltre per il mantenimento del posto di lavoro ha avuto un peso rilevante il possesso di competenze e il titolo di studio, infatti mentre tra i laureati il saldo tra perdita di occupazione e nuovi inserimenti è positivo per il 12% tra i senza titolo e con scarse competenze si registra una perdita di posti di lavoro che supera il 44%, con una posizione intermedia delle perdite per i lavoratori con titolo di scuola media inferiore del 16%.

Solo i lavoratori maturi (tra i 55 e i 64 anni) hanno avuto un aumento del tasso di occupazione, mentre in tutte le altre fasce di età si è registra una diminuzione che è arrivata in un solo anno (2012-2013) a punte del 5% nella fascia di età 25/29 anni. Sono qui evidenti le ripercussioni della riforma pensionistica Fornero che ha portato alla contrazione della domanda di lavoro sostitutiva dovuta al prolungamento dell’età lavorativa, a scapito dell’ingresso al lavoro delle generazioni più giovani. Non minore rilevanza va assegnata alle ben diverse flessibilità in entrata e in uscita oggi esistenti nel mercato del lavoro italiano, anche questo fattore ha concorso significativamente a scaricare sulle giovani generazioni il peso più rilevante della perdita di posti di lavoro. Ancora con riferimento all’ultimo anno si rileva l’aumento dei giovani NEET (15-29 anni) dal 19 al 26 %.

Lo skill gap italiano
Questo settennato di crisi conferma anche alcune strutturali carenze del sistema Italia sul versante delle attività economiche e in quello scolastico. Ciò appare con evidenza guardando ai livelli di istruzione della popolazione, ma anche in riferimento all’impiego di capitale umano da parte delle imprese. La percentuale di giovani con livello di istruzione terziaria in Italia nell’anno 2013 è del 22,7%, nel Regno Unito è del 44,9, in Svizzera del 43,2 e la media UE a 28 è del 36,10. Appare del tutto evidente che il sistema universitario italiano non offre risposte adeguate di formazione terziaria soprattutto sui versanti tecnico e specialistico e che la recente introduzione dell’Istruzione Tecnica Superiore non ha ancora raggiunto significativi livelli di affermazione, avendo avviato solamente 150 attività corsuali.

A questa realtà fa da cornice anche una attitudine delle imprese a ricorrere in misura assai limitata ad occupati con titoli elevati. Infatti solo il 20% degli occupati in Italia possiede titoli universitari contro il 43% del Regno Unito, il 41% della Svizzera e il 33% dell’UE. Mentre resta sottodimensionata in Italia l’occupazione negli alti skill crescono gli occupati a bassa specializzazione con un più 3% riferito al periodo 2007/2011. Al contrario, nello stesso periodo, nella media UE tali forme di occupazione andavano diminuendo dell’1%.

C’è inoltre da aggiungere che il rendimento in termini di reddito degli investimenti in titoli di studio terziario sono in Italia significativamente bassi. Fatta centro la retribuzione netta dei diplomati quella dei giovani laureati raggiunge oggi quota 116, spesso nemmeno ripagando il ritardato ingresso nel mercato del lavoro dovuto al prolungamento degli studi. Anche la partecipazione degli adulti ad attività di life-long learning nel 2013 si attestava al 6,9%, rimanendo sostanzialmente invariata nell’ultimo decennio.

Un mercato del lavoro duale senza politiche attive
L’ultima rilevazione del Ministero del Lavoro sulle comunicazioni obbligatorie, riferita al secondo trimestre del 2014, evidenzia, per la prima volta, un timido tentativo di cambio di rotta: le nuove opportunità occupazionali superano, seppur di poco, il licenziamenti e le dimissioni. Si tratta ancora numeri parziali che sarebbe eccessivo interpretare come inversione della tendenza; quel che tuttavia attrae l’attenzione è la scomposizione delle forme contrattuali di inserimento lavorativo: i lavori a termine sono il 70%, i rapporti a tempo indeterminato si fermano al 15, mentre il 6% sono rapporti di collaborazione.

A ben guardare, andando ai numeri assoluti, lo stock di lavoratori a tempo determinato non ha subito negli anni sostanziali variazioni, rimanendo stabile e su numeri abbastanza simili alla media europea. Ciò che rappresenta l’anomalia italiana non è dunque la quantità di lavoratori a tempo determinato quanto la permanenza prolungata in questa condizione di instabilità di una specifica fascia di lavoratori. Solo il 25% dei contratti a tempo determinato viene in Italia trasformato in contratto indeterminato nell’arco di due anni, mentre in Europa i dati sono attorno al 50%. Tutto ciò genera un dualismo nel mercato del lavoro che non ha carattere di transitorietà e spesso si trasforma in una vera e propria trappola, in particolare per i giovani.

La divaricazione di tutele nel mercato del lavoro italiano è questione che si trascina da tempo. In questi ultimi anni, per effetto della riforma Fornero che ha introdotto maggiori rigidità in entrata, sono diminuiti i contratti a collaborazione e a progetto, ma sono stati rimpiazzati da contratti di lavoro dipendente a tempo determinato. E’ pertanto indispensabile rimettere ordine e uniformare trattamenti e tutele con nuove tipologie contrattuali che aiutino a superare questo dualismo. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è dunque un passaggio necessario prima ancora che per dare certezze della sua risoluzione alle imprese, per dare uniformità di diritti ai lavoratori. Il dibattito di queste settimane sul job act somiglia molto a quello del 2009-2010 sul contratto unico cui le Acli avevano dato un loro contributo costruttivo lanciando la proposta dello Statuto dei Lavori.

Ciò che rende ancora più complesso il mercato del lavoro italiano è la fetta troppo elevata di disoccupazione di lunga durata che riguarda il 60% dei disoccupati. A questa situazione non si sono mai posti rimedi efficaci, in quanto non si è saputo intervenire su due questioni fondamentali. La prima, arginare l’anomalo impiego degli ammortizzatori sociali prolungato e senza regole spesso abbinato ai prepensionamenti, che ha finito per generare enormi disparità.
Secondo
, riformare l’inefficiente rete di servizi per l’impiego che non essendosi dotata di strumenti gestionali delle politiche attive non ha saputo fornire orientamento, formazione, bilancio delle competenze; strumenti indispensabili per riqualificare e riorientare verso nuove opportunità di lavoro.

Tutto ciò ci rimanda ad una questione annosa per l’Italia relativa al rapporto tra spesa per le politiche passive (tutte le forme di sostegno al reddito in caso di interruzione o perdita del lavoro) e quella per le politiche attive. Gli anni della crisi hanno ulteriormente aumentato questo gap evidenziando come nel 2007 la spesa per politiche attive fosse circa un terzo delle spesa pubblica complessiva per le politiche del lavoro, mentre nel 2012 la spesa totale è pressoché raddoppiata, ma l’incidenza delle politiche attive si è ridotta ad un sesto.

E’ del tutto evidente che solo creando reti efficienti di servizi, capaci di rispondere al vasto fabbisogno di ricollocazione di grandi numeri di disoccupati, si potrà portare a successo l’impegno del job act di rendere universale il trattamento di integrazione al reddito e di sostegno alla disoccupazione. E’ una sfida impegnativa, per non fare naufragare una buona riforma, ma che richiede lungimiranza e forte cooperazione tra attori diversi coinvolgendo il mondo della formazione professionale e dell’istruzione.

Garanzia Giovani
Con la più rilevante spesa orientata verso l’occupazione giovanile (1,5 miliardi) la Garanzia Giovani non poteva non occupare un capitolo specifico del rapporto sul mercato del lavoro. Il superamento delle adesioni ad oltre 200 mila iscrizioni dà la dimensione delle attese che si sono create attorno a questo programma. D’altra parte la partecipazione crescente poteva essere prevista, considerata l’ampia platea di destinatari che coinvolge i NEET tra i 15 e i 29 anni. Resta da vedere se al crescere delle aspettative verranno date adeguate risposte.

C’è stato in queste settimane un riecheggiare sulla stampa di critiche verso questo programma che sottovalutano la mobilitazione sociale creatasi attorno ad esso e che sembrano voler misurare il successo dell’iniziativa italiana esclusivamente sulle nuove assunzioni. E’ un punto di vista debole e fuorviante: nessuno infatti poteva illudersi che bastasse un programma pubblico di misure per risolvere la piaga della disoccupazione giovanile in Italia. Quindi le circa 13 mila occasioni di lavoro offerte ai giovani rimangono incommensurabilmente lontane dai fabbisogni.

Ciò che invece non sta affatto attirando l’attenzione dei media e le osservazioni degli esperti è l’aspetto relativo ai servizi. E’ questo infatti il vero banco di prova su cui vanno messe a punto le valutazioni. La Garanzia Giovani infatti si propone di dare ad ogni giovane che vi partecipa un proprio percorso di avvicinamento al lavoro, fatto di orientamento, di bilancio delle competenze possedute, di riqualificazione professionale, di tirocini in aziende, di accompagnamento all’apprendistato con misure di sostegno. Tutto questo conta molto di più dei pochi posti di lavoro che si potranno attivare in tempo di crisi, perché obbliga le strutture territoriali dei servizi a mettersi in gioco su dimensioni che non sono quelle della quotidianità amministrativa che rappresenta la caratteristica prevalente del mestiere dei nostri centri pubblici. E’ proprio qui che va focalizzata al massimo l’attenzione. Non si sfugge infatti alla sensazione che in molte Regioni non sia stato posto sufficiente impegno ad organizzare una efficiente rete di servizi capace di gestire la Garanzia Giovani e che proprio ora comincino ad emergere i primi veri problemi.

Su questo versante sarebbe veramente pesante un insuccesso perché cadrebbe proprio nel momento in cui con la legge delega il governo si appresta a riorganizzare i servizi per il lavoro e perché si sta guardando alla Garanzia Giovani, con la sua dotazione economica non proprio irrilevante, come ad una prova generale di riqualificazione della rete e delle sue competenze. Non è secondario infine ricordare il particolare percorso che ha seguito la Garanzia Giovani, programmata attraverso una “struttura di missione” istituita per legge, ha assunto un inedito modello di governance cooperativa tra Regioni e Governo, apparendo agli occhi degli osservatori come l’esperimento anticipatore della nuova ANPO (Agenzia Nazionale per l’Occupazione).

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