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Parma, un ragazzo di 15 anni viene picchiato da un gruppo di coetanei. Bollate, una quindicenne picchia una coetanea davanti ai compagni di scuola che filmano la scena. Padova, una ragazza di 14 anni si suicida dopo gli insulti ricevuti su un social network. Non si  tratta di fenomeni isolati ma di veri e propri esempi di bullismo. Un fenomeno che deve interrogarci tutti, perchè in qualche modo tutti ne siamo corresponsabili

Parma, un ragazzo di 15 anni viene picchiato da un gruppo di coetanei. Bollate, una quindicenne picchia una coetanea davanti ai compagni di scuola che filmano la scena. Padova, una ragazza di 14 anni si suicida dopo gli insulti ricevuti su un social network. Sono solo alcuni dei titoli che, negli ultimi giorni, stanno occupando le pagine della cronaca. Titoli che si impongono all’attenzione e che richiedono una riflessione, perché spesso questi non sono fenomeni isolati, non sono le solite “bravate” da adolescenti ma si configurano come veri e propri esempi di bullismo, un fenomeno che deve interrogarci tutti, perché tutti, in qualche modo ne siamo coinvolti e corresponsabili.
Sicuramente, le violenze più o meno gravi tra i ragazzi sono sempre esistite; quello che però si iniziato ad evidenziare negli ultimi anni è che queste sono sempre più diffuse, e assumono delle caratteristiche che le distinguono dalle “normali” manifestazioni di aggressività che si possono riscontrare in bambini e adolescenti. Innanzitutto, sono violenze – non necessariamente fisiche – intenzionali e persistenti nel tempo, che colpiscono in maniera sistematica la stessa vittima o più vittime, con cui si instaura una relazione asimmetrica di potere. Spesso il contesto scolastico fa da sfondo a tali episodi, che vengono anche filmati e diffusi in rete, la quale diviene un vero e proprio mezzo per ricattare la vittima ed esercitare la violenza su di essa. Accanto a questo, vanno diffondendosi forme nuove di bullismo: il bullismo omofobo, quello a sfondo razziale, le violenze di gruppo e quelle esercitate dalle ragazze, con modalità che finora erano tipiche dei maschi.
Di fronte a questo scenario, è naturale domandarsi: di chi è la colpa? Del ragazzo, degli amici, della famiglia, della scuola, della società? La risposta che viene da anni di studio e da chi si occupa di bullismo è che non è colpa di uno solo, ma tutti hanno un ruolo. Non basta infatti la predisposizione caratteriale del ragazzo all’aggressività, ma, perché si arrivi al bullismo, è necessario che questa interagisca con un contesto educativo e culturale che propone modelli violenti, giustifica l’uso della violenza, la utilizza per far valere le proprie idee. Con contesti familiari e culturali che propongono la competizione, che non aiutano i ragazzi ad affrontare in modo positivo i conflitti, che non educano al rispetto e all’accoglienza dell’altro e del diverso, che propongono stili educativi incoerenti. A volte, contesti familiari poco coesi e in cui circola poco calore affettivo.
Come affrontare quindi un fenomeno così complesso? Anche in questo caso gli addetti ai lavori sono concordi nel ritenere che la risorsa più preziosa per intervenire e soprattutto per prevenire il bullismo sia l’educazione, che deve vedere collaborare insieme le famiglie e la scuola. “Lasciata ormai alle spalle la scuola degli anni cinquanta, la cui funzione primaria era quella di trasmettere le nozioni, la scuola di oggi ha il compito di contribuire la formazione integrale dell’alunno “persona”. Come osservano Francesco Compagnoni e Antonino Urso “la scuola viene così chiamata a farsi carico di formare abilità non solo tecniche, ma più specificatamente umane, come la capacità di socializzare, ossia di stare in rapporto costruttivo e reciprocamente gratificante con l’altro”: un compito sicuramente non facile, che richiede il coraggio di uscire dalle forme di insegnamento “tradizionali” e dai meri programmi scolastici per scegliere strade e modalità capaci di promuovere la collaborazione (come la peereducation), la discussione, il confronto; che aiutino il ragazzo ad essere assertivo e non aggressivo, che promuovano l’empatia. Un compito che richiede anche un’alleanza tra scuola e famiglia, perché è necessario, per il ragazzo, avere modelli educativi coerenti e chiari.
Prevenire e intervenire sul bullismo è una sfida che va affrontata necessariamente: è stato infatti ampiamente dimostrato come le conseguenze siano importanti sia per le vittime (che possono sviluppare psicopatologie anche a lungo termine) che per i bulli stessi (i quali vanno incontro ad abbandono scolastico, sviluppano comportamenti devianti e antisociali e a loro volta di autori di violenza nelle famiglie). Come scrive la psicologa Anna Oliverio Ferraris, “l’errore che non bisogna mai commettere è mostrare disinteresse e far finta di niente, perché i ragazzi, anche se non lo ammetteranno mai, non accettano la disattenzione”; forse, i loro comportamenti da bullo, sono anche questo: una richiesta di attenzione, e di avere accanto educatori capaci di aiutarli a diventare davvero grandi.
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