Il 6 marzo è stato varato il decreto legislativo che riordina gli ammortizzatori sociali istituendo la Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego, che sostiene il reddito dei lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione. Ma altri principi della legge delega non hanno ancora avuto una declinazione operativa: il riordinino degli incentivi all’assunzione e la costituzione dell’agenzia nazionale per il lavoro. Si tratta di strumenti che possono fare la differenza nella sostenibilità del nuovo impianto degli ammortizzatori sociali. Staremo a vedere…

E’ stato varato recentemente il decreto legislativo che riordina gli ammortizzatori sociali. Si tratta di un provvedimento importante di portata non inferiore a quello relativo all’introduzione del contratto a tutele crescenti. A decorrere da maggio 2015 è istituita la Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI), avente la funzione di fornire un sostegno al reddito ai lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione.

La NASpI sostituisce le prestazioni di ASpI e mini-ASpI e interessa i lavoratori che in stato di disoccupazione possano far valere, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione. Si tratta di una importante innovazione rispetto al passato poiché la nuova indennità di disoccupazione non solo si rivolge ad una platea più ampia ma ha un durata maggiore poiché per chi ha perso il lavoro ed ha contribuito senza soluzione di continuità per quattro anni, dura 24 mesi. Certo, è previsto che l’indennità abbia una dinamica decrescente (circa il 3% in meno al mese dopo i primi tre mesi) ma, considerati i vincoli di bilancio lo sforzo economico è rilevante e ci avvicina alla legislazione dei Paesi in cui la disoccupazione è storicamente più tutelata.

Il decreto, infatti, oltre a prevedere un copertura anche per i lavoratori parasubordinati rimasti senza lavoro (la cosiddetta DIS COLL prevista per il 2015), introduce in via sperimentale l’ASDI (l’assegno di disoccupazione) riservata ai lavoratori più svantaggiati. Per coloro che si trovino in condizione di disagio economico (secondo i parametri ISEE) e che dopo aver esaurito la copertura della NASPI siano ancora disoccupati, è prevista un nuova indennità gestita da INPS che punta ad intervenire sull’area della povertà relativa ed assoluta e sebbene non si tratti di un reddito di cittadinanza, è certamente un primo passo in questa direzione. Ma poiché non si tratta di soluzioni “una tantum” ma di un sistema che ci avvicina ai modelli universalistici di sostegno al reddito presenti in Europa, è doveroso chiedersi, proprio alla luce del bilancio dello Stato, quanto sia sostenibile.

Dove vige tale principio la sostenibilità delle diverse misure di sostegno al reddito è legata al contenimento della platea dei beneficiari. Per questo l’aumento della spesa per le politiche passive sostenuta dalla maggior parte dei paesi europei durante la crisi è stata sempre accompagnata da un forte rilancio delle politiche attive e dei servizi di intermediazione, per far si che i disoccupati rientrino il più rapidamente possibile nel mercato del lavoro. I sostegni al reddito, in altre parole, per essere sostenibili ed universali, devono finanziare la ricerca attiva del lavoro non la disoccupazione, un principio su cui la Commissione Europea richiama da anni il nostro paese (restando a lungo inascoltata).

Il Jobs Act si muove in questa direzione ed i decreti attuativi ribadiscono sistematicamente questo principio, subordinando l’erogazione della NASpI (così come per le altre provvidenze introdotte) alla regolare partecipazione dei beneficiari a iniziative di attivazione lavorativa nonché a percorsi di riqualificazione professionale. Inoltre, sempre nell’ottica della condizionalità, è prevista la sperimentazione del Contratto di ricollocazione, uno strumento decisivo ed estremamente innovativo gestito dalle Regioni, che prevede di attribuire al lavoratore, in base ai suoi livelli di occupabilità, una dote individuale spendibile presso i soggetti accreditati. In altre parole, il lavoratore disoccupato avrà diritto a una “assistenza appropriata nella ricerca della nuova occupazione, programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore, da parte dei servizi pubblici e privati autorizzati ed accreditati presso le regioni” e gli operatori avranno diritto ad incassare la dote del lavoratore soltanto a risultato occupazionale ottenuto.

Tutto ciò però è ancora “sulla carta” e non sarebbe la prima volta che i diritti ed i doveri dei disoccupati restino tali. Il collegamento tra politiche attive e passive (la condizionalità) e il diritto/dovere del disoccupato di partecipare a programmi di politica attiva sono principi presenti da molti anni nel nostro ordinamento ma mai pienamente applicati. Ma in questo caso la loro non applicazione potrebbe rendere insostenibile il nuovo modello di sostegno al reddito universalistico appena introdotto.

Attualmente i percettori di indennità di disoccupazione (ASPI e Mini ASPI e Mobilità) sono circa un milione. Ovviamente l’estensione della platea e della durata avranno un impatto rilevante sul numero dei beneficiari, destinati a crescere, perlomeno per tutto il 2015, di almeno il 30%. Non si tratta di un’opinione ma di un fatto considerando i tassi di ricollocazione registrati da INPS che ci ricordano che più del 50% dei percettori di indennità di disoccupazione dopo 12 mesi è ancora disoccupato.

Per i servizi per l’impiego, a parte qualche esperienza di successo con il programma Welfare to Work nell’ambito dell’Accordo Stato-Regioni sugli ammortizzatori in deroga, i disoccupati percettori di indennità di disoccupazione sono spesso degli sconosciuti. Del resto con un rapporto di 250 disoccupati per operatore (contro una media di 50 per i grandi paesi europei) aumentare il tasso di reinserimento è oggi praticamente impossibile. Ma chi crede che con il contributo degli operatori privati un simile squilibrio possa essere rapidamente recuperato commette un errore.

Le agenzie accreditate sono presenti solo nel Nord del paese, la collaborazione con le amministrazioni regionali è a macchia di leopardo e stando ai risultati della Garanzia Giovani (500 mila registrati, 250 mila giovani presi in carico e 69 mila giovani a cui è stata proposta una misura in 11 mesi dall’avvio del programma), dove il ruolo degli operatori privati è rilevante, gli standard di prestazione non sembrano molto migliorati. Senza contare che gli operatori privati (secondo i venti diversi modelli di accreditamento regionali oggi esistenti), proprio per ragioni di mercato, potrebbero essere spinti a “selezionare” i disoccupati maggiormente reinseribili rispetto alle categorie più svantaggiate, senza, quindi, aumentare significativamente il tasso di ricollocazione. Considerando sia i giovani NEET sia i disoccupati adulti si raggiunge una cifra di quasi due milioni di persone e tutti – secondo la legge – dovrebbero partecipare a programmi di politica attiva ma l’attuale modello di governance delle politiche del lavoro, a partire dai servizi, non è in grado di sostenere questo impatto se non in qualche contesto territoriale e le Regioni, soprattutto nel Mezzogiorno, lo sanno benissimo.

Anche ipotizzando una moderata ripresa della domanda di lavoro sarà necessario aumentare esponenzialmente nei prossimi anni l’efficienza dei servizi l’efficacia delle politiche attive, e cioè degli incentivi, della formazione professionale e dell’apprendistato (regolamentati anch’essi in modo diverso da regione a regione) per provare a riattivare una platea di beneficiari abituata a ricevere i sussidi e magari a svolgendo lavoro in nero. Ma sull’efficientamento del sistema incombe anche una capacità di spesa dei fondi strutturali da parte delle Regioni che oscilla tra il 60% ed il 50%, fattore questo che aumenta i rischi di tenuta della riforma.

Tra i principi della legge delega che non hanno avuto ancora una declinazione operativa c’è il riordinino degli incentivi all’assunzione e la costituzione dell’agenzia nazionale per il lavoro. Si tratta di strumenti che possono fare la differenza nella sostenibilità del nuovo impianto degli ammortizzatori sociali. Gli incentivi anche per il lavoro autonomo, se opportunamente calibrati (cioè se usati selettivamente ed in base ai livelli di occupabilità dei lavoratori), possono, infatti, aumentare il tasso di ricollocazione dei disoccupati ma senza servizi di intermediazione efficienti e politiche attive efficaci il loro contributo potrebbe essere marginale.

La riforma attribuisce questa funzione cruciale all’Agenzia, partecipata dalle Regioni, cui spetteranno competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e passive e quindi anche il pieno impiego dei fondi strutturali. Chi si appresta a disegnare tale organismo sappia che la sostenibilità del nuovo welfare dipende da quali risultati sarà in grado di realizzare. Se anche questa volta la montagna dovesse partorire il topolino la speranza di realizzare anche in Italia un sistema universalistico di sostegni al reddito è destinata a restare tale.

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