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Il diritto alla libera circolazione all’interno dell’UE è garante di un principio chiave delle moderne trasformazioni politiche: l’individuo, in quanto cittadino e non più soggetto, è più importante del sovrano e dello stato. Ciò vale anche fra gli stati: la libertà dell’individuo di scegliere dove trovarsi e stabilirsi non richiede più l’autorizzazione preventiva di un’entità politica superiore. Da questo punto di vista, la cittadinanza europea è forse il frutto più maturo della modernità come età dell’emancipazione della persona umana dal rapporto di dipendenza con un (solo) potere statale. In questo senso la libera circolazione incarna il principio antinomico dell’ideologia sovranista e dunque, forse, il suo nemico ultimo

Al principio, un’utopia. Un continente senza frontiere, una grande esperienza di cosmopolitismo, un’incarnazione senza precedenti del disegno kantiano della pace perpetua in una scala già gigantesca: quella di un continente. Una cosa mai vista. Ma questa utopia è mormorata più che proclamata, proprio perché la libera circolazione avanza a piccoli passi. La prima prova avviene nel 1951, quando si dà ai lavoratori del carbone e dell’acciaio il diritto di trasferirsi all’estero. Questo diritto viene in seguito esteso a tutti i lavoratori (nel 1957 attraverso il Trattato di Roma, che crea la Comunità economica europea, e nel 1968 con la sua implementazione legislativa). Nel 1993 viene conferito, mediante il Trattato di Maastricht, a tutti i cittadini autosufficienti da un punto di vista economico d’uno stato membro, dunque a studenti, a pensionati, a lavoratori autonomi, ai loro figli e congiunti, anche non europei.

Spesso, quest’utopia è stata diffusa in modo mascherato, con l’argomentazione secondo cui la mobilità internazionale aveva una funzione economica; i cittadini europei mobili avrebbero costituito l’ingrediente umano di un mercato più grande e dunque più efficace. Tale è stata, per decenni, l’ideologia della libera circolazione portata avanti dalle istituzioni europee. Fedele alla logica dello spillover – secondo cui un evento può avere delle ricadute (positive o negative) su un altro oggetto che gli è indirettamente legato -, questo ragionamento implicava che il vantaggio materiale della mobilità dei lavoratori avrebbe “comprato” il consenso collettivo intorno al principio. Un errore strategico, che espone la legittimità della libera circolazione all’aleatorietà del ciclo economico e sottintende che è negoziabile, mentre la posta in gioco è piuttosto il riconoscimento di una parità di diritti fra individui, liberata dai suoi vincoli nazionali. In breve, una visione cosmopolita della coesistenza umana.

Tuttavia, quasi tutte le argomentazioni a sostegno della libera circolazione, dopo gli allargamenti degli anni Duemila, hanno messo in evidenza le ricadute economiche e il ruolo della mobilità dei lavoratori europei all’interno dell’Unione Europea (UE) come ammortizzatore di possibili crisi economiche locali: la manodopera in eccesso in una regione avrebbe potuto essere più facilmente redistribuita laddove ci fosse stato più lavoro.

Questa dottrina economica ha mostrato i suoi limiti a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Se da una parte il numero di europei del sud che si sono trasferiti in Germania, Regno Unito e Scandinavia per sfuggire alla disoccupazione e alla sottoccupazione è aumentato drasticamente tra il 2009 e il 2015, dall’altra, in questo contesto di impoverimento senza precedenti in Europa (a parte i periodi di guerra), la percentuale di greci che si è spostata è rimasta marginale. Pertanto, la mobilità transnazionale dei lavoratori in seno all’UE ha contribuito in modo molto modesto ad alleviare la crisi economica. Le vere leve per l’uscita dalla crisi sono state il declino del tenore di vita nei paesi maggiormente colpiti e la politica monetaria della Banca centrale europea.

D’altro canto, le ricadute economiche e fiscali della libera circolazione, sebbene leggermente positive per i paesi di destinazione in tutti i modelli econometrici che abbiamo a disposizione, non seducono l’opinione pubblica. Se la crescita britannica è stata in qualche modo alimentata da lavoratori polacchi, spagnoli, lituani e rumeni, i costi e i benefici dell’immigrazione sono ripartiti in modo disuguale tra la popolazione. E le “esternalità negative” reali o percepite dell’immigrazione intraeuropea delle classi lavoratrici (concorrenza nel mercato del lavoro, accesso agli alloggi o assistenza sociale, ecc.) hanno molto più eco di un aumento del prodotto interno lordo (PIL) di alcuni punti decimali. Il malcontento delle classi meno agiate (generate in Occidente dalla precarizzazione del lavoro e dall’aumento delle disuguaglianze degli ultimi decenni) ha trovato il suo capro espiatorio nella “globalizzazione della porta accanto”: i cittadini mobili dell’Europa orientale, arrivati numerosi nel Regno Unito, sono stati la principale motivazione dei pro-Brexit nel votare a favore del “leave”. Come nel referendum francese sulla costituzione europea del 2005, lo spettro dell’idraulico polacco è stato decisivo.

L’ultimo argomento contro la libera circolazione in Europa è stato enunciato dal primo ministro britannico Theresa May nel novembre 2018: l’Europa favorirebbe ingiustamente i suoi cittadini (senza considerare il loro livello di competenza o diploma) rispetto ai non europei qualificati. In altri termini, bisognerebbe limitare i diritti degli europei in modo tale che qualsiasi straniero sia considerato un immigrato. Ma se di giustizia sociale vogliamo parlare, non sarebbe più equo garantire a tutti gli immigrati gli stessi diritti degli autoctoni, piuttosto che abolire le prerogative degli europei? Alla fine, anche i pro-Brexit più moderati (come la stessa Theresa May) sostengono un sovranismo senza concessioni, secondo cui la demografia politica contemporanea si riduce alla dicotomia “nazionale versus straniero”. I confini dello stato diventano i criteri dominanti per classificare le persone. Un pensiero binario che incarna l’ideologia populista: noi e loro, il popolo virtuoso e le élite corrotte, i sani e gli infetti, i civili e i barbari …

Non posso fare a meno di raccontare un aneddoto personale, tanto è significativo. Dopo il referendum sul Brexit, la polizia di frontiera britannica ha avuto istruzione di scoraggiare le persone ad utilizzare le carte d’identità nazionali per entrare nel Regno Unito. I viaggiatori sono stati informati che ci sarebbe stato il rischio di essere respinti se la loro carta d’identità fosse risultata “danneggiata”. All’inizio del 2019 sono stato fermato e interrogato all’aeroporto di Londra-Gatwick: un ufficiale ha sventolato la mia povera carta d’identità così apostrofandomi: “Questa carta varrà da voi, non da noi.” Alla fine, sono riuscito a passare grazie a un documento senza alcun valore giuridico, un passaporto scaduto da dieci anni, che aveva però il merito di dimostrare la distanza tra noi, nella misura in cui il passaporto è espressamente congegnato e rilasciato sulla base di relazioni tra nazioni. Non ero più un individuo in uno spazio comune. Ero il cittadino di un paese sovrano alle porte di un altro paese sovrano.

La scossa neo-nazionalista dell’Europa contemporanea (in sintonia con altre parti del mondo, in testa gli Stati Uniti) ha qualcosa di paradossale e di grottesco. Il degrado del clima terrestre mostra l’assurdità ideologica, ma anche pragmatica, del concepire il pianeta come un agglomerato di spazi artificiali, storici, separati, più o meno grandi o piccoli: gli stati-nazione. È in gioco qualcosa di più della salvaguardia dell’Unione europea, in quanto alleanza internazionale: lo spazio europeo della libera circolazione fa vivere un’immagine del mondo come bene comune.

Inoltre, il diritto alla libera circolazione all’interno dell’UE è garante di un principio chiave delle moderne trasformazioni politiche: l’individuo, in quanto cittadino e non più soggetto, è più importante del sovrano e dello stato. Ciò vale anche fra gli stati: la libertà dell’individuo di scegliere dove trovarsi fisicamente e dove stabilirsi non richiede più l’autorizzazione preventiva di un’entità politica superiore. Da questo punto di vista, la cittadinanza europea è forse il frutto più maturo della modernità come l’età dell’emancipazione della persona umana dal rapporto di dipendenza con un (solo) potere statale. In questo senso emancipatorio, la libera circolazione incarna il principio antinomico dell’ideologia sovranista e dunque, forse, il suo nemico ultimo.

 

 

Per approfondire:

Ettore Recchi, Senza frontiere. La libera circolazione delle persone in Europa, Il Mulino, Bologna 2013.

Ettore Recchi (con al.), Everyday Europe: Social transnationalism in an unsettled continent (Policy Press 2019).

 

Note

  1. Nel 1795, in Per la pace perpetua, Kant descrive un federalismo fra stati liberi, ognuno obbedendo a una costituzione civica repubblicana e governato da un diritto cosmopolita (di natura giuridica e non filantropica) che “considera uomini e stati [ …] come cittadini di uno stato universale di umanità “.
  2.  It will no longer be the case that EU nationals, regardless of the skills or the experience they have to offer, can jump the queue ahead of engineers from Sidney or software developers from Delhi », discours de Theresa May à la « CBI conference », 19/11/2018.
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