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Se la riforma sanitaria era un problema essenzialmente di politica interna americana la nuova grande impresa tentata da Obama (la riforma delle regole sui mercati finanziari) investe una questione prioritaria per l’intero pianeta. Subito dopo la crisi finanziaria si era convenuto sulla necessità di riformare i mercati ma non subito. Alcune delle misure proposte infatti (come l’adeguamento e l’inasprimento dei requisiti patrimoniali delle banche) nella fase acuta della crisi avrebbero potuto uccidere il malato. Oggi che il peggio sembra superato, i mercati hanno ripreso la loro corsa e si registrano segnali di ripresa in tutti i paesi ad alto reddito, è arrivato il momento di intervenire.

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Gli animatori della proposta delle nuove regole sono fondamentalmente tre. I capi di stato dei principali paesi UE che hanno presentato una loro proposta presso le istituzioni europee, l’amministrazione americana e il Fondo Monetario Internazionale.rn

I nodi della questione riguardano la modifica dei requisiti patrimoniali delle banche, la separazione tra attività creditizia ed attività speculative (queste ultime da sviluppare fuori dalle banche e non con i soldi dei depositanti), la creazione di nuove autorità di regolamentazione o l’irrobustimento delle vecchie per evitare “la cattura dei regolatori”, l’istituzione di una tassa sulle banche proporzionale alla dimensione che consenta di accumulare risorse necessarie per interventi in momenti di crisi la regolamentazione dei mercati di strumenti derivati scambiati sino ad oggi “over the counter” (in mercati non regolamentati).

La contesa è dura ma le lobby finanziarie, seppur molto potenti, appaiono fondamentalmente isolate perché la politica, gli umori dei cittadini e gli interessi dell’industria non finanziaria sono schierati su posizioni opposte. Pensare che la ripresa della borsa basti ad invertire la tendenza è illusorio, gli effetti in termini di benessere nei confronti dell’economia reale e delle vittime della crisi sono minimi e imprese e governi hanno capito le regole del gioco.

Certo è che la crisi ha ridotto il gap di conoscenze tra la frontiera della ricerca scientifica in finanza e la divulgazione che era ferma con le sue semplificazioni al passato.

Tanti i miti abbattuti. La crisi ha dimostrato per chi ancora voleva ignorarlo che il mercato finanziario fallisce proprio in quello che dovrebbe essere il suo compito principale: segnalare, attraverso i prezzi, l’informazione sui fondamentali dell’economia. I prezzi e le valutazioni di rating finanziario durante la crisi sono state incapaci di segnalare e di incorporare i rischi di crollo che di lì a poco si sarebbero manifestati. Chi ha studiato i meccanismi di pricing e valutazione dei fondamentali sa che la dinamica profonda dei mercati è fatta di convenzioni rialziste e ribassiste, di dinamiche dei “premi di rischio impliciti” per i quali in alcuni periodi gli investitori hanno fiducia nel futuro e sono più propensi ad assumere rischi mentre in altri la propensione al rischio crolla. In questi processi i “chartisti” (chi estrapola i prezzi e segue l’analisi tecnica) guidano la danza facendo si che le loro ipotesi ottimiste si autoavverino mentre i fondamentalisti cavalcano l’onda finché conviene. Viviamo di nuovo oggi, poco dopo la crisi, una convenzione rialzista che nel breve periodo conviene a tutti ma che può da un momento all’altro invertire la rotta con probabilità via via crescenti nel tempo.

La vera lezione profonda di questa crisi è che il sistema salta quando le diseguaglianze superano una certa soglia. Alcuni dati impressionanti mostrano che il 1929 e il 2008 sono i due estremi di un percorso ad U nei quali si raggiungono negli Stati Uniti i massimi nel grado di concentrazione di reddito del primo un percento della popolazione (che possiede attorno al 21 percento del reddito complessivo) e i massimi dei livelli di indebitamento totale (famiglie, più stato più imprese). Le due crisi sono dunque crisi da eccesso di indebitamento e presentano alcune analogie impressionanti. L’economia che per funzionare ha bisogno di consumi di massa e di una domanda interna sostenuta, in periodi di forte diseguaglianza perde il sostegno della crescita dei consumi delle classi medio-basse. Per puntellarlo viene favorito il loro indebitamento che, quando raggiunge livelli di guardia segnala o scatena la crisi.

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