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di Leonardo Becchetti

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In Italia, dove gli effetti della crisi finanziaria globale sul bilancio pubblico sono stati tutto sommato contenuti (ma quelli della successiva recessione ben più profondi) assistiamo a tagli di risorse per lo sviluppo, l’università, gli incentivi alla sostenibilità ambientale. Nel Regno Unito dove i salvataggi delle banche hanno gravemente appesantito la finanza pubblica, il draconiano dimagrimento della spesa (che farebbe impallidire quello della Thatcher) ha provocato, tra le conseguenze, la triplicazione dei costi per l’iscrizione all’università. Se, come sappiamo ormai molto bene, la scolarizzazione ha effetti fondamentali su capacità di reddito, capitale sociale, capacità di verificare l’azione dei governanti sui risultati, educazione finanziaria e persino salute, come prepara il proprio futuro un paese che taglia le risorse in questo settore?

Sono tutti esempi di come la crisi finanziaria globale abbia generato un serissimo problema di riequilibrio della ripartizione degli oneri tra consumi, lavoro, disponibilità di beni pubblici e finanza.

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Se è suicida la scelta di aumentare la tassazione sul lavoro, visti i livelli a cui essa si trova e data l’importanza di rilanciare produttività e crescita; se la tassazione sui consumi è già sufficientemente elevata e tassare la finanza resta un tabù, l’unica strada percorribile sembra essere quella dell’accetta sulla spesa pubblica. Non la spesa improduttiva che non si riesce ad aggredire (quei consumi intermedi della pubblica amministrazione dentro i quali si annidano secondo molti episodi di corruzione e sprechi) ma le risorse per la scuola, per l’università, per le infrastrutture e per la cultura. 
La sussidiarietà è sicuramente un valore importante e siamo i primi cantori delle energie della società civile e della sua capacità di cavarsela sostituendo l’azione dello stato con più motivazioni intrinseche, capacità di dono e gratuità, generando risparmi di spesa. Prendendo ad esempio la scuola pubblica è ormai consuetudine dei genitori fare collette per acquistare cancelleria, carta igienica e, addirittura, finanziare ammodernamenti e ristrutturazioni delle strutture – pensiamo agli studenti che nelle scuole si rimboccano le maniche e rimbiancano le classi.
Tutto bene, ma se la sussidiarietà diventa l’alibi per coprire una ritirata massiccia dei governi dal loro impegno a fornire beni e servizi sociali a tutta la popolazione promuovendo equità e pari opportunità, senza coinvolgere in questi sacrifici il mondo della finanza e senza un impegno sempre più efficace nella lotta all’evasione, conservare il consenso dell’opinione pubblica sarà veramente difficile. Anche perché gli effetti di una tale manovra saranno profondamente iniqui perché gravanti in misura enormemente maggiore sui ceti più deboli e su coloro che le tasse devono pagarle per forza.
Quanto alle proposte di riforma della finanza che intendono eliminare quei fattori che hanno originato la crisi, benché continuino ad esserci buoni progetti, questo non rassicura perché sono sul tavolo da troppo tempo e la loro entrata in vigore appare a dir poco problematica nonostante gli appelli del nostro governatore ai vari vertici mondiali. Riduzione del peso delle società di rating, tassazione del rischio, regole per evitare i problemi connessi al too big to fail sono auspicate da tutti ma ancora al di là da venire. L’unica riforma che al momento sembra profilarsi all’orizzonte (Basilea III) è una combinazione perversa di ponderazioni (inadeguate) dei rischi delle attività bancarie ai fini della determinazione del patrimonio di vigilanza delle banche e dei cuscinetti di riserva per il rischio di liquidità che, così congeniate, rendono meno conveniente fare credito (l’attività bancaria più illiquida) piuttosto che trading finanziario (liquido sì ma che può essere come abbiamo sperimentato molto rischioso), con il rischio di rendere il credito alle imprese una risorsa progressivamente più scarsa.
La crisi finanziaria è l’episodio conclusivo di un dissennato processo di riduzione di benessere dei ceti medi che ha minato le fondamenta dello sviluppo economico (che si regge sui consumi della massa della popolazione) nelle società occidentali, ma la sua lezione non sembra essere stata compresa. Il processo d’impoverimento del tessuto sociale dopo di essa, con la strategia di aggiustamento descritta sopra, finisce persino per essere accelerato. Se si vuole invertire la rotta, mantenere la coesione sociale e rilanciare lo sviluppo è necessario riequilibrare gli oneri dell’aggiustamento ricavando risorse dalla lotta all’evasione, dalla finanza e dalla lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione. Facciamo però fatica a cogliere questi segni di speranza e cambiamento all’orizzonte.
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