La vicenda del mancato accordo unitario allo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco mette a nudo le debolezze del nostro sistema industriale, ancora troppo legato al settore manifatturiero per pensare di poter fare a meno di orari di lavoro lunghi e faticosi e ancora poco maturo per abbandonare prassi puramente rivendicative. In entrambi i casi si tratta di caratteristiche tipiche delle relazioni sindacali del secolo scorso che il “Protocollo Ciampi” del 1993 sembrava, invece, aver abbandonato, riconoscendo al sindacato un ruolo istituzionale nelle politiche di contrasto alla inflazione.

Quella stagione inaugurata dal Governo “tecnico” dell’ex Governatore di Banca d’Italia sembra però ormai chiusa da tempo: la politica si sente legittimata dal voto popolare e non ha intenzione di condividere decisioni e responsabilità con il sindacato, mentre Confindustria non ha mai fino in fondo accettato la logica di pari dignità insita nel Protocollo, che pure ha contribuito a salvare la lira italiana dagli speculatori internazionali, evitando un deprezzamento senza fine.

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Anche il sindacato si sente stretto nel vestito che il Protocollo Ciampi gli aveva cucito un po’ addosso, sfruttando il momento di gravissima crisi finanziaria del 1993. Il sindacato che oggi non riesce a chiudere unitariamente la trattativa a Pomigliano è un sindacato che, in tutte le sue componenti, ha difficoltà ad accettare una propria evoluzione e che, invece di collocarsi nella prospettiva della internazionalizzazione dell’economia e della competizione delle imprese, non riesce a chiudere la partita, lasciando nelle mani dell’impresa la decisione se abbandonare o meno la produzione in Campania.
 
La FIOM CGIL sa bene che il ruolo del sindacato è quello di sedersi al tavolo e trattare con controparte: e invece, cerca una rottura clamorosa, dichiarando che il problema non è il turno notturno nella giornata di sabato, ma – a suo dire – la contrarietà dell’accordo con la Costituzione italiana. Perché si evoca un testo così lontano e così insolito, invece di concentrarsi sui singoli aspetti della trattativa? E perché FIM e UILM non si oppongono ad una firma separata e non cercano a tutti i costi una soluzione unitaria? Che valore può mai avere un accordo aziendale sui turni, che si applica solo ad alcuni lavoratori e ad altri no?
 
Il sospetto è che la FIOM voglia in qualche modo giocare la partita della contrattazione con la FIAT sul piano politico più che su quello sindacale; voglia incanalare un malessere diffuso e sottile (per i salari bassi, per la scarsità delle azioni di sostegno alla famiglia, per il ridursi delle aspettative di crescita sociale, per un indistinto sentimento di abbandono della “classe operaia”) e farlo operare sul piano politico. A cos’altro del resto mira il dissenso della CGIL se non a rovesciare il tavolo della contrattazione addosso a tutti gli altri che vi siedono intorno?
 
Ed in effetti, in altre epoche il Governo in carica non avrebbe assistito al crescere del malessere politico, ma si sarebbe concentrato sulla questione, cercando una soluzione condivisa e convocando tutte le parti presso le sedi del Governo: quante volte i contratti del settore metalmeccanico sono stati chiusi solo grazie alla mediazione del Ministro del Lavoro di turno!
 
Ma è ancora possibile una prassi di questo tipo? Il Governo attualmente in carica ha ancora voglia di intervenire nel conflitto industriale indirizzandone gli esiti ?
 
Il problema forse non sta tanto nella disponibilità dell’Esecutivo ad assecondare le richieste dei lavoratori (che, in fondo, sono anche elettori), ma nella possibilità che le norme europee lasciano per davvero ai singoli Stati uno spazio di intervento nel settore economico.
 
La creazione dell’Unione europea è, innanzi tutto, la creazione di un’area di libero scambio comune a tutti i 27 paesi d’Europa, al cui interno nessuno Stato è legittimato ad aiutare i lavoratori presenti sul proprio territorio, poiché tutti i soggetti devono accettare la libera concorrenza fra le imprese.
Nella prospettiva del diritto europeo, che – anche se pochi se ne sono accorti – è la prospettiva anche del nostro Paese ormai da più di cinquanta anni, lo Stato italiano non può intervenire a difesa delle proprie imprese (e, implicitamente, a danno dei lavoratori polacchi).
 
Marchionne questo lo sa e gioca con astuzia ed intelligenza la sua partita: ma gli altri attori, hanno ben compreso in che quadro si muove oggi l’economia? L’impressione amara è che ancora una volta si voglia arrivare ad un “gioco delle parti”, ma che questa volta sia davvero difficile riscuotere il successo di un tempo: mancano le condizioni istituzionali e i soldi a disposizione sono pochi; e per di più ognuno degli attori si muove senza sapere bene cosa dire, ricordandosi solo in linea generale quale parte gli sia stata assegnata e andando avanti improvvisando un po’ su tutto.
Forse l’Italia si merita di meglio.
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